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Scheda "Antichi forni".

Lunedì 15 ottobre 2012.

In uno dei miei girici clistici per il territorio, durante l'estate 2012, ho visto con piacere che anche il secondo forno di Tetti Cavalloni è stato ristrutturato, come si vede dalle foto accanto.
(Clicca sulle immagini per vederle ingrandite.)
A seguire, altri forni antichi, a legna da diverse località piemontesi.


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Nella scheda dei caritun ho parlato di alcuni antichi forni presenti nel territorio. Per ora segnalo su questa scheda quelli che conosco personalmente, in attesa di segnalazioni di altri antichi forni, anche privati, da inserire in futuro.
   I primi, i più vicini fra quelli che conosco, sono quelli di Tetti Cavalloni, borgata del comune di Piobesi. Il primo che si incontra, arrivando da Castagnole Piemonte, è funzionante, ristrutturato, l'altro, più avanti sulla strada di Piobesi, è da ristrutturare. Il forno ristrutturato è chiuso, forse a protezione dai vandali, visto che è funzionante. Non ho potuto quindi, per ora, fotografare la bocca del forno e la sala dove si inforna il pane. Mi riservo di farlo in futuro, chiedendo a chi ne detiene le chiavi, perché credo ne valga la pena. Anche l'interno del forno deve essere un capolavoro di arte muraroria, con l'antico sistema della centina -quello già usato dai costruttori dell'epoca romana- dove il peso stesso della struttura viene scaricato verso le basi dell'arco, tenendo insieme il tutto. È il sistema dei "voltini" arrotondati, che si vedono in certe case antiche.
   A quanto mi è stato detto è intervenuto un vecchio muratore che, con la pazienza del secolo scorso, ha ricostruito la volta arrotondata del forno, restando, alla fine, racchiuso nell'esiguo spazio della camera di cottura.


Forno vecchio Tetti CavalloniForno vecchio T.C.

Un antico modo di panificare.
Articolo di giornale locale[1] tradotto in piemontese da Nino Lambra.[Traduzione]

   Ël Cialendal, ciadlà a fin ani. Ën travaj grev, da la molura a l'ardriss: sessanta miche a pr'un.
   L'invern era 'n temp ëd gran da fè an tle nòste borgà, quasi daspërtut s-fasìa al pan. An t'e borgià pì isolà, le miche s' fasìo propi mach an cost period, considerà ël pì sicur contra la mofa e al temp giust per c'à s vardejsa a longh. E dagià che l'era travajà propi a randa le feste d'Event era dit: Cialendal, visadì preparà a le calende d'ani e la fin di travaj ëd campagna.
   Ën travaj c'à ampegnava tuta la famija, e anlora la famija era vreman na famija, faita dai vej dai fij, i novod e soens ëd co dai barba e magne restà da marié.
   A s-taca a fe ëd travaj difìcij c'à përmëttijo nen de sbalié, tocava meule al barbarial (gran e sel già sëmnà a so temp an sema) an ti mulin a eva. Tocava ampastè la fari-na, cheuse le miche, sinquanta chilo a testa. E fasìo al pan na vòlta l'ani perchè viravo l'eva al mulin 'na volta sola e lassavo virà fin-a a quand avìo nen macinà tuti, ëd cò per al forn lo anviscavo e lo smortavo pì fin-a a cand avio nen cheuit tuti, portavo an pòch ëd bòsch a pron na famija dòp l'autra fasìa sò pan.
   Tuti cercavo ëd fé sò mej come panaté, empìo l'erca (ëd cò dita Mait) con 50/60 chilo ëd farin-a e 10 lìter d' eva, as tacava ampaste, tut a man, virand con fòrsa, dabin per mëscé bin l' alvà. Apress avèj lassà arposé për an paira d' ore, l'erca era giumaj pien-a posavo an brociòt anvisch an sima, se se smortava nen l'alvà era faita, anlora tacavo a fe a tòch la pasta an manera ëd fè 'd miche da ses - set etto a l'un-a. Poej rangià le miche an sima n'ass i j portavo al forn a cheuse, tornavo con cole cheujte che avrìo rangià an sima al cavjè (dit ëd cò "ciavilhi") che vnisìa pendù ai trav për nen che ij rivejso ij giari se dësnò ij butavo la gamba an ten barlèt d' eva, ij giari che saotavo andrinta niavo nen avend le spassi da podèj seurte, andasìa bin ëd cò për ten-e lontan-e le bòje panatere.
   Le miche guernà an cròta vnisìo sempre pi dure, fin-a cand as podìa pi nen tajelo, anlora lo tajavo con al mandùir (cò dit: "lou mandùire"), ' na lama angancià con n'anel ëd dzora n'ass, ficand la mica sota e carcand an sal man-i, as tajava la fëtta che dnans a mangela soens as mojava an 't l'eva o as butava an tla mnestra.



Forno ristrutturato di Tetti CavalloniVista globale forno T.C.Porta del forno T.C.Targa del forno ristrutturato T.C.


[Traduzione]
Antichi mestieri: quando d'inverno si faceva il pane.
Natale intorno al forno.
di Gian Vittorio Avondo.
II Cialendal, preparato a fine anno. Un lavoro faticoso, dalla molitura allo stoccaggio. Sessanta micche a testa.
   Fino alla Seconda guerra mondiale, 1'inverno era un periodo di grande fermento nelle borgate di montagna perché quasi ovunque si faceva il pane. Anzi, nei villaggi più isolati, le micche «nascevano» proprio solo in questo periodo, considerato una garanzia contro la muffa e un buon auspicio di lunga conservazione. Tanto che in alcune aree dell'alto Pinerolese il pane cotto nei giorni di Natale era chiamato Cialendal, cioè preparato alle calende (alla fine) dell'anno e dell'intero ciclo agrario.
   Un'attività che impegnava 1'intera famiglia, coinvolta in una serie di difficili lavori.
   Innanzi tutto bisognava procedere alla molitura del barbariato (segala e frumento gia seminati frammisti) raccolto ad agosto e macinato nei mulini comunali a settembre- ottobre. Quindi si doveva impastare la farina e poi cuocere le numerosissime forme: circa sessanta, pari ad una cinquantina di chili, per ogni componente la famiglia (questo, in media, il consumo annuo). Si faceva il pane una sola volta l'anno: in quella occasione si accendeva il forno comunale (ogni borgata aveva il suo) e non lo si spegneva finche tutti non avevano finito.
   Ognuno portava un po' di legna e anche per i mulini si facevano i turni: così 1'acqua veniva deviata una sola volta nell'anno, poi le paratie venivano riaperte».
   Nei villaggi non c'era chi non si improvvisasse panettiere: si riempiva la madia (èrca) con 50/60 chili di farina e dopo aver aggiunto circa 10 litri d'acqua [2], si provvedeva ad impastare. Un lavoro faticosissimo, tutto a mano: le braccia affondate nel miscuglio fin quasi alle spalle, per rivoltarlo con vigore. Quindi, con movimenti più fini, si addensavano piccole quantità di pasta, ammassandole una sull'altra su un lato della madia. Completato il lavoro, 1'impasto, a cui era stata aggiunta una certa quantità di Alvà (lievito naturale ottenuto dalla fermentazione di un piccolo quantitativo di pasta del pane), veniva lasciato riposare per circa 2 ore. Terminata la lievitazione, la madia era praticamente colma di pasta ed allora il «panettiere» creava un piccolo cratere nell'impasto e vi appoggiava un fiammifero acceso. Se questo non si spegneva, il processo di fermentazione era giunto a conclusione: il segnale che si poteva passare alla fabbricazione delle micche (pagnotte molto grossolane dalla forma allungata, di circa 600-700 grammi).
   Ultimo passo, la cottura. Disposti i pani su un asse, tutta la famiglia faceva la spola tra la casa ed il forno (talvolta assai lontano) trasportando le forme crude e ritornando con i micconi cotti. Le pagnotte venivano fatte raffreddare in casa, infine stoccate per la conservazione in luoghi freschi ed asciutti: come i fienili. Per proteggerle dalla voracità di topi e ghiri si utilizzava (ël cavijè) un grosso palo nel quale erano infissi dei pioli dalla lunghezza di una quarantina di centimetri che, per isolarlo totalmente dal terreno, veniva appeso alle travi del soffitto. Altro problema si presentava quando le forme di pane cominciavano a divenire tanto dure da non poter più essere spezzate. In questo caso ci voleva un attrezzo apposito: ël mandùire. Un coltello ancorato con un gancio, per la punta, ad una tavola di legno. Riprende Charrier -Sotto la lama, assai robusta, anche se non affilata, veniva posta la pagnotta che, con una forte pressione esercitata sul manico, si poteva spezzare senza difficoltà. Va da se' che in queste condizioni il pane, per poter essere consumato, doveva essere ammollato nell'acqua, nel latte, o nella minestra. Ma quando si aveva fame era buono anche così.


[1] Eco del Chisone.
[2] Non prendete per oro colato le dosi assai confuse dell'articolo: ad esempio l'acqua deve essere circa il 50% del peso della farina, quindi è evidente l'errore madornale rispetto al peso della farina indicata. [Nota dell'autore del sito]

   Quando sono andato per fotografare il forno di Tetti Pautasso (strada circonvallazione che da Piobesi-Vinovo va verso Carmagnola -lato destro), ho avuto la fortuna di vederlo acceso. Uno degli abitanti la borgata lo stava scaldando per cuocere poi del pane la sera.

Forno Tetti Pautasso Fuoco acceso nel forno di T.P.


BigorieMombracco

Aggiungo 2 nuove fotografie di forni scovati nelle vacanze 2008. Rispettivamente, il primo, sulla strada per Meire Bigorie (alta valle Po) e, il secondo, sul Mombracco (Barge).


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