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Due fatti apparentemente sconnessi, accadutimi ieri, mi hanno spinto a fare delle
riflessioni, diciamo così, "anomale". Anomale nel senso di cercare di
vedere dall'alto due diverse weltanshauung, due visioni opposte del mondo.
Oserei dire due culture diverse. E questo sguardo dall'alto sulle culture sarebbe compito
dell'antropologia culturale, materia della quale io ho soltanto un'infarinatura
grossolana.
Ciascuno di noi si rende conto che, dall'inizio di questa guerra dichiarata ad una
malattia più o meno grave, a seconda dell'appartenenza scelta, o anche solo
"tendenza" non ancora sottoscritta in toto, all'una od all'altra delle
due visioni alternative, in cui si è scissa dall'inizio del 2020 la nostra cultura
globale.
Ed ancor di più ci si rende conto, che non esiste un linguaggio comune per instaurare
un dialogo costruttivo fra le due fazioni. Come se si parlassero due lingue diverse
per le quali ancora non si è potuto provvedere ad una traduzione reciproca
soddisfacente e comprensibile. Troppi sono gli "a priori", in senso
kantiano, che possono far comprendere l'una o l'altra visione alternativa.
Si sono interrotte amicizie di lunga data e dialoghi persino nella parentela, per la
consapevolezza reciproca dell'impossibilità di potersi intendere: gli uni finiscono
nella categoria psichiatrica della cultura degli altri, ammesso che entrambe le culture
abbiano sviluppato questa categoria. Le nostre parole scivolano o rimbalzano, senza
penetrare, farsi una piccola breccia nel dubbio, sullo scudo culturale della parte
avversa.
Mi viene in mente, per spiegare questo scontro titanico, l'incontro tra la cultura
degli europei ed i nativi americani avvenuto intorno al sedicesimo secolo. Per la
presunzione europea, gli indigeni americani erano rimasti all'età della pietra, quando
invece essi ci erano voluti rimanere, perché possedevano una ecologia avanzata che
ancora oggi noi europei, ossessionati dal voler controllare ed asservire la Natura,
ne siamo totalmente sprovvisti e, proprio con la nostra ossessione di avere tutto
sotto controllo, facciamo soltanto danni in campo ecologico.
Per i nativi americani, noi europei, apparentemente umani, diventiamo pazzi per
le pietre gialle e questo fatto suscita sgomento in essi.
Oppure ancora, mi viene in mente, come ho accennato più sopra, all'impossibilità
dei pazienti psichiatrici di intendersi con gli psichiatri: questi ultimi vogliono
ricondurli nel recinto dei sani, mentre loro, i pazienti psichiatrici ritengono
e non a torto, che la società non è sana ma malata e vogliono starne fuori.
Questa situazione è stata magistralmente descritta da Robert Mainard Pirsig, nei suoi
due libri, in quanto lui stesso è stato paziente psichiatrico dopo la perdita del
figlio Chris. Per uscirne ha dovuto fingere di essere guarito. Si riesce ad ingannare
gli psichiatri, ma se si immettono dei ricercatori che si fingono pazienti psichiatrici,
in gruppo di pazienti psichiatrici "veri", questi ultimi li sgamano subito.
Nel caso specifico, Robert è stato capace di dare quello sguardo dall'alto che mi
proponevo nell'incipit di questo articolo, cogliendo più e meglio degli
psichiatri stessi, l'essenza della sua (chiamiamola) malattia o devianza.
Nel caso nostro come se ne esce?
Voglio lasciare aperta, in sospeso questa domanda affinché ognuno vi rifletta.
Devo però sottolineare che in me, dopo la frustrazione dovuta dalla constatazione
dell'incomunicabilità con gli altri, quelli della fazione opposta alla mia,
mi è nata una specie di compassione impotente.
Dicendo questo, non sto più guardando le cose dall'alto come dovrebbe fare
l'antropologo, ma quasi mai vi è riuscito, ma sono sceso nella mia
visione del mondo, nella mia cultura, perché suppongo sia migliore di
quell'altra ed ho trovato il nocciolo della questione: anche gli altri ritengono
la loro cultura migliore della mia. Quindi li capisco, anche se disapprovo.
Sono io diverso da quella ennesima signora che ieri in un supermercato mi ha detto
che devo coprirmi anche il naso?
Una piccola differenza ci sarebbe: io cerco di convincere, gli altri mi dicono
devi. Ma è tutto lì.
Sto impiegando tutte le mie energie
intellettuali per cercare di fare una breccia laddove uno scudo culturale me
lo impedisce e provo una grande pena. So che non possiamo salvarli tutti,
ma mi dispiace. Se uno dei miei amici o parenti con i quali ho rinunciato a
dialogare morisse per essere stato "pungiuto", mi dispiacerebbe.
Cosa posso dire a quell'amico, con due lauree, molto intelligente e razionale, il
quale nella stessa frase mi snocciola il paradosso «ho fatto il c o v i d e ieri
mi sono v a c c i n a t o»?
Possibile che il paradosso sia evidente soltanto a me?
Se hai avuto la malattia tanto temuta e sei vivo, significa che hai sviluppato gli
anticorpi specifici: perché accettare un v a c c i n o sperimentale a quel punto?
Domenica scorsa, nella borgata che attraverso spesso nei miei video montani,
ho incontrato un'anziana signora che non vedevo da molto tempo e mi è venuto
spontaneo abbracciarla e baciarla, senza domandarmi se per caso fosse stata
pungiuta e potesse contagiarmi. Probabilmente sono da ricovero psichiatrico
pure io.
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Pensare in tanti un mondo migliore è già un 50% della sua realizzazione.
Giovanni
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