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Giovanni Chifelio Il Ritorno -Capitolo 6 - Epilogo
Data creazione pagina: 23/07/2013 3:32
Capitolo 6: Epilogo.
«Dunque, Melis lei sostiene di avere le prove che il Novelli non ha commesso i due delitti avvenuti a
Paesana?»
«Esatto, dottore. Una prova, relativa al primo delitto, l'avevo già nel cassetto della mia
scrivania, solo che me ne ero completamente scordato. Il Novelli ha passato la notte in cui è avvenuto il
primo delitto, quello nella sua casa, del cittadino americano John Ventura, in una meira in alta montagna. Ha
impiegato delle ore ad arrivare lassù, quindi, a meno che si muovesse con un elicottero, non poteva tornare
in tempo a casa sua per ammazzare il Ventura.
Come mi ha confermato lui stesso, è tornato solo il giorno successivo, davanti alla sua casa, ma è
rimasto nascosto in quanto ha visto il Bellassai, che, il giorno prima, era entrato in casa sua armato di pistola
con il silenziatore, parlare con noi.
Riguardo al delitto successivo, quello che noi abbiamo catalogato come incidente d'auto, strano, ma pur sempre,
all'apparenza un incidente, il Novelli si trovava in Liguria e vi si era recato in treno. Lui stesso mi ha
consegnato i biglietti della corriera con la quale è arrivato a Saluzzo, poi a Savigliano, dove ha preso il
treno alla sera per Diano Marina. Anche in questo caso è matematicamente impossibile che si trovasse sul
luogo dell'incidente occorso al Bellassai a Pian Lavarino, alle due del mattino seguente. Di questo incidente
abbiamo la conferma dell'ora precisa in cui è caduta l'auto, da parte di un abitante di Pian
Lavarino, il quale ha sentito dei rumori e poi lo scoppio.»
«Mi diceva il signor capitano Palmieri, che è stato trovato un proiettile di pistola in casa del
Novelli?»
«Sì, il colpo appartiene alla pistola dello stesso Ventura, il quale avrebbe probabilmente sparato allo
schermo del portatile, del Novelli, che si trovava sul tavolo in cucina. Il colpo è finito nel muro dietro al
divano.»
«Allora, maresciallo, se non è stato il Novelli, a commettere i due omicidi...»
«Il capitano ed io pensiamo che dovremmo allertare l'Interpol per ricercare questo uomo...»
Melis posò una fotografia sulla scrivania. Lo stupore spalancò la bocca al sostituto procuratore
Emanuele Caruso.
* * *
L'accelerazione fu così repentina che al viaggiatore venne il capogiro. Miriadi di luci dai colori
smaglianti attraversavano il suo campo visivo, alternandosi al buio più nero e ad altri caleidoscopi
affascinanti. Gli sembrava di procedere in un lunghissimo tunnel, che pareva non terminare mai. Alle sua spalle,
non la vedeva, ma sapeva che c'era, ne sentiva il tepore rassicurante, calmante, una luce indescrivibile,
più accecante di mille soli, più bianca e splendente di qualsiasi cosa che l'occhio umano
sarebbe stato in grado di tollerare.
All'improvviso tutto terminò di girare, senza che si fosse accorto della decelerazione prima della
fermata. I suoni divennero ovattati e la luce debole, quasi filtrata da tessuti dai colori caldi. Si sentiva come
un ritmico suono di tamburo, lento, uguale, dolce, pervasivo, che gli dava una sicurezza nuova.
Il lungo viaggio veloce era terminato. Ora ne iniziava un altro, più lento e naturale.
Percepì dei pensieri buoni, d'amore. Avrebbe voluto abbracciare la creatura che li emetteva, ma per ora
non poteva. Rispose con un pensiero suo di amore disinteressato e comprese che quella creatura l'aveva
percepito, perché rispose a tono, e il pulsare ritmico che lo avvolgeva tutto quanto, cambiò
leggermente ritmo.
Andrea decise che era tempo di tornare a casa per cenare. Senza fretta avrebbe avuto davanti circa mezz'ora di
pedalata, da Oneglia a San Bartolomeo.
Il suo lavoro era quasi terminato. Ora avrebbe avuto molte ore noiose di battitura degli appunti, sul nuovo
portatile che aveva acquistato, dopo aver constatato la rottura dello schermo di quello che, tanto tempo prima,
aveva lasciato sul tavolo della casa di Ripe.
Al ritorno da Bèziers, con Anna, si erano fermati a San Bartolomeo al Mare. Anna non volle in nessun modo tornare alla casa
di Ripe.
Andrea era tornato da solo, soltanto il tempo di dare l'incarico ad un suo amico geometra di Paesana, di
vendere la loro casa e di cercarne un'altra. Anna la voleva che fosse al centro del paese, vicina ai negozi,
ma sopratutto, non isolata come l'altra. Diceva di avere paura di vivere in un luogo isolato.
Il sole in questa stagione girava basso sull'orizzonte dalla parte del mare e si coricava molto prima, sia in
termini di orario, sia come punto cardinale. Il nord ovest estivo era soltanto un ricordo. Adesso il sole
scompariva là, quasi sulla costa e non più dietro le colline ad ovest di Diano Marina, che vedeva dal
balcone di casa sua.
La ritirata per la cena era di molto anticipata. Poi avrebbero dovuto accendere le luci, perché dalle ampie
finestre non entrava più luce sufficiente per cenare.
Mentre pedalava senza fretta a Diano Marina, incrociò uno strano ciclista, che procedeva in senso opposto al
suo sulla via Aurelia. L'uomo aveva una barba incolta ed indossava un eskimo, che un tempo doveva essere stato
verde, su dei pantaloni che dovevano essere stati rossi. In testa un passamontagna arancio, arrotolato su se stesso,
dal quale spuntavano riccioli incolti di un colore indefinito. L'uomo dall'aspetto anonimo era un barbone,
un clochard, come direbbero i francesi. Se ne vedevano sempre di più, sempre più spesso.
L'economia del suo paese, dell'Europa, del mondo, era in uno stato penoso. Sempre più erano le persone
che erano diventate "povere", che vivevano sotto la cosiddetta soglia di povertà.
Le banche erano diventate la sede dell'usura. Migliaia di lavoratori avevano avuto un prestito per l'acquisto
di una casa, che poi, non potendo più pagare le rate del mutuo, diventava, per pochi spiccioli, di proprietà
delle banche. Il trucco era che all'inizio, le prime rate del mutuo erano per pagare gli interessi: solo dopo si
iniziava a scalare la restituzione del prestito. Così si risultava "insolventi", anche dopo aver sborsato
somme enormi!
In parte era forse per questo, che i barboni aumentavano. Come quando era piccolo e passavano uomini simili nel cortile
della casa dei nonni a domandare l'elemosina, e lui chiedeva al nonno chi fosse: «Ën pover!»,
rispondeva il nonno, che gli aveva dato qualche spicciolo, oppure un pezzo di pane.
Ma, forse, pensava Andrea, era anche una scelta di vita. Sempre più gente non riusciva più ad identificarsi
con il "sistema". Andrea pensava che quella fosse una via di fuga dal sistema. Certo occorreva una notevole
capacità di adattamento, di rinuncia agli agi del vivere civile e dignitoso.
Lui stesso aveva più volte meditato di uscirne in quel modo, quando non sopportava le angosce del vivere quotidiano
"allineato".
Era buffo che ciò che gli impediva di fare un passo del genere, non fosse l'aleatorietà del cibo, o la
mancanza di un tetto sulla testa, ma l'impossibilità di lavarsi. Ognuno ha le sue proprie idiosincrasie e
queste lo condizionano allo stesso modo della cultura, che inconsciamente si assorbe assieme al latte materno.
Era bizzarro, che la cultura venutasi a creare proprio per assicurare la continuità del cibo e allontanare la paura
della sua mancanza, paradossalmente avesse prodotto proprio ciò che si proponeva di debellare. La cultura
dell'accumulo delle risorse, la cultura che aveva inventato il denaro, aveva miseramente fallito il suo compito, non
aveva mantenuto le promesse fatte ai suoi figli. Gli unici a trarre vantaggio da quella cultura erano gli inventori stessi
del danaro.
Ma gli altri, perché si davano così tanto da fare per replicare quella stessa, deleteria cultura?
Durante il soggiorno a Bèziers Andrea si era riletto Il punto di svolta di Capra. In quel libro, l'autore
filosofo ingegnere, punta la sua critica soprattutto sulla medicina, la psicologia e la politica. Andrea invece credeva
che tutta la cultura contemporanea dovesse farsi un severo esame di coscienza.
Ogni singolo assioma, assunto di questa nostra cultura, che diamo per scontato, deve essere sviscerato e rivisto
domandandosi le reali motivazioni e lo scopo reale della sua esistenza.
Ogni singolo atto e pensiero della nostra vita devono essere analizzati criticamente, domandandosi, ad ogni piè
sospinto: «Perché sto facendo questo?», «Perché sto pensando questa cosa?».
Soltanto in questo modo riusciremo ad uscire da un meccanismo quasi totalmente inconscio, che domina le nostre vite, le
nostre menti, senza che nemmeno ce ne accorgiamo, senza che mai abbiamo scientemente sottoscritto i principi che regolano
uno sfondo culturale a noi totalmente estraneo e, soprattutto, nemico.
Si guardarono vicendevolmente negli occhi. L'uomo, passandogli accanto, la bicicletta stracarica delle sue cose, gli
sorrise da dietro un paio di lenti da miopi, che da un lato erano anche scheggiate.
Andrea pensò che se la ridesse fra se', pensando, probabilmente a ragione, che l'"ousider",
non fosse lui, barbone, ma tutti gli altri. Proprio lo stesso identico pensiero che devono avere i "matti", i quali pensano,
probabilmente a ragione, che i malati mentali, sono tutti quegli altri che non si ribellano al gioco folle di una cultura
decadente che ha portato l'umanità alla rovina.
Si immaginò il suo pensiero in quel momento.
«Non pensare che io sia strano, diverso, magari matto, soltanto perché faccio il barbone. Il folle sei tu che
ti arrabatti in un gioco perverso, inutile, stupido, che altri hanno inventato e scelto per te.»
Non se la sentiva Andrea di dargli torto. Partecipare alla nostra cultura significava una sola cosa: accettare il gioco
assurdo del denaro, senza riflettere sul perché le cose devono essere organizzate così e non negli altri
infiniti modi diversi possibili.
Il denaro disumanizza le persone. Tutte le persone partecipano a questo gioco del denaro, quindi...
Nessuno dei filosofi, dei pensatori, dei moralisti aveva mai seriamente affrontato questo tema del rapporto fra potere
economico e morale, giustizia, libertà, democrazia. L'avevano tutti quanti aggirato come un terreno insidioso
di sabbie mobili che possono inghiottire chi ci cammina sopra. L'avevano aggirato i preti che Andrea aveva ascoltato
in gioventù, l'avevano aggirato le istituzioni.
Retoricamente si voleva far credere che la nostra cultura fosse fondata sul diritto, sull'uguaglianza di tutti gli
uomini, sull'etica, senza che tutte queste cose avessero alcun rapporto con il denaro e chi detiene il potere
economico, nascondendo il fatto che erano antitetiche. Ipocrisia culturale.
Qualcuno in un passato molto lontano, l'aveva detto forte e chiaro: non si possono servire due padroni. Non si
può servire Dio e Mammona.
Alla fine, quando due forze contrarie si affrontano, e non si può negare che gli interessi economici possano
entrare in contrasto
con l'etica, la giustizia, la libertà, prevale la forza più potente, annullando la controparte.
Il denaro può comprare tutte queste cose. Il denaro è più potente di qualsiasi forza antagonista.
Partecipare passivamente alla nostra cultura, implica fingere che l'etica, la giustizia, l'uguaglianza e la
libertà siano gerarchicamente più in alto del potere economico, sapendo che, in realtà è
vero il contrario: partecipare a questo gioco equivale ad avallarlo.
In un mondo senza denaro nessuno può fare questo. Nel mondo dei cacciatori raccoglitori sei apprezzato per la tua
abilità nella caccia, nel trovare l'acqua, nel sostentare il gruppo, risorse, che ti possono procurare amici
fedeli, in quel mondo incorrotto. Non esistono abilità astratte come il saper accumulare denaro.
Non poteva immaginare, Andrea, che il barbone dai consunti pantaloni rossi, avesse un altro valido motivo per sorridergli.
Andrea adesso non temeva più per la propria vita o per quella di sua moglie. Dopo il bailamme provocato dal suo
caso i suoi inseguitori avevano abbandonato la sua pista. Avevano problemi più seri da affrontare.
I politici italiani si erano resi conto che la gente era stufa di loro e dei loro giornali. Cercavano l'informazione
sul web.
Il 12 ottobre il governo Prodi aveva approvato una legge delega che di fatto avrebbe imbavagliato la libertà di
stampa e di pensiero garantite dalla Costituzione. Ma tanto ormai stavano facendo a pezzi anche quella.
Qualsiasi sito culturale, vale a dire tutti quelli che non vendono qualcosa, ma regalano informazione ai viaggiatori di
inernet, qualsiasi blog, rientrava nella legge sull'editoria, che per pubblicare qualsiasi cosa, anche su internet,
avrebbe dovuto iscriversi ai registri degli editori. Scartoffie e difficoltà burocratiche, magari cumuli di marche
da bollo e certificati anti mafia, proprio in un periodo storico in cui si scopriva che la mafia era la più
fiorente attività economica, nonostante i predetti certificati e le limitazioni ai versamenti bancari e alle cifre
degli assegni.
C'era stato l'exploit di Beppe Grillo, con i suoi milioni di accoliti e successo di audience, nonostante il
boicottaggio della stampa di regime.
Questi siti o blog non in regola sarebbero stati oscurati. Magari i loro creatori avrebbero dovuto pagare delle ammende.
Questa era una democrazia? Libertà di stampa soppressa come nei regimi più autoritari.
Andrea pensò che non sarebbe mai più andato a votare. Non voleva in nessun modo, con il suo recarsi ai
seggi, legittimare questa farsa di democrazia ormai trasformata in una dittatura del potere economico. Lo aveva già
detto Ghandi, tanto tempo fa. Le democrazie occidentali non sono che dittature mascherate.
* * *
Quando sentì l'ambiente protettivo che la ospitava da mesi contrarsi e sussultare, Kjn capì che era
giunta l'ora.
In un lampo riaffiorarono alla sua memoria le percezioni delle altre volte. Le poche gioie. Le grandi sofferenze, le
frustate, le spine, l'umiliazione, il trasporto faticoso di quella croce, e infine la morte inchiodato ad essa.
Quasi avrebbe voluto tornare indietro. Rinunciare. Ma si era preso un impegno solenne di fronte alla comunità.
Poi le contrazioni, le spinte, si susseguirono sempre più rapide e fu spinto nel tunnel, al fondo del quale stava
una luce accecante. Fu schiacciata e compressa. Sentì nuovamente, per la prima volta il dolore. Un attimo dopo
riposava sul ventre di sua madre e ricominciava a respirare con i polmoni. Urlò per il disappunto e la sofferenza
proprie dell'essere in un corpo umano.
Elisa guardò con affetto quella creatura che aveva sul grembo, mentre l'ostetrica le comunicava che era una
femmina.
Non immaginava di provare una gioia così grande, immensa, totale. Pensò ad Egidio e lo benedisse mentalmente.
Si diedero la mano quando cominciò il moto sussultorio. Erano stati tutto il tempo insieme a farsi compagnia, in
quel piccolo ambiente sicuro e debolmente illuminato, dove tutti i suoni giungevano attutiti.
Si era deciso che avrebbero viaggiato insieme, perché forse, da soli non ce l'avrebbero fatta. Così,
sarebbero stati sempre in contatto telepatico, come lo erano stati fino ad allora. Insieme erano una forza. Avrebbero
fatto qualsiasi cosa l'uno per l'altro. E per tutti gli altri.
Poi, sempre mentalmente si salutarono e si diedero appuntamento a dopo. Non potevano affacciarsi alla vita
contemporaneamente.
Sahara versò lacrime di dolore e di gioia, quando vide il primo gemello uscire alla luce, constatando che era solo
leggermente un poco più chiaro di lei e Mohammed.
Pianse di gioia, per il miracolo della vita e dell'amore che univa lei a Mohammed ed alle loro creature, di dolore
ancora fresco, presentendo il prossimo dolore della nascita del secondo gemello. Ma tutto finì presto e si
dimenticò subito tutto il dolore fisico, le incertezze durante la gravidanza pensando al padre biologico dei suoi
figli, le difficoltà economiche che avrebbero dovuto affrontare con due figli piccoli.
Mohammed travestito da medico con grembiule verde e mascherina azzurra, le diede la mano e le sorrise nuovamente. La vita
a volte, offriva dei momenti meravigliosi.
* * *
L'uomo si svegliò con il mal di testa. Gli ci volle un attimo, uscendo dai sogni confusi, per capire dove
fosse e chi, fosse. Era al sicuro.
Il cerchio alla testa era dovuto a tutte le schifezze che aveva bevuto la sera precedente. Se l'era spassata.
Aveva conosciuto due sorelle color caffèlatte la sera precedente in un locale e se le era portate a casa. Le aveva
mandate via prima di addormentarsi. Nel letto restava solo il loro profumo eccitante. Profumo intimo di donna.
Con pochi spiccioli si faceva una bella vita sull'isola. Ma non era sereno. Non era felice, pur avendo tutto quello
che aveva sempre desiderato. Cosa c'era che non andava?
Ultimamente aveva preso l'abitudine di bere parecchio. Bere roba forte.
Non ricordava l'ultima volta che aveva fatto un pasto vero.
Si guardò intorno e percepì il disordine della sua vita rispecchiato nello stato in cui si trovava il suo
appartamento. Vestiti gettati qua e là, sulla spalliera di una seggiola, su un divano. Mutande per terra. Non
osava guardare sotto il letto.
Lattine vuote di birra e bottiglie vuote dei liquori più disparati facevano mostra di se' nei luoghi
più impensabili. Sopra il televisore, a fianco del cesso.
Decise di chiedere a Ramon se conosceva qualcuna che potesse venire a pulire e magari preparargli qualcosa da mangiare.
Sull'isola abbondava il pesce fresco, come sulla sua di isola. Si sarebbe fatto cucinare del pesce come si deve.
Aveva pensato che lì, su una piccola isola nell'oceano Atlantico, sulle coste dell'Argentina, sarebbe
stato come a casa sua. Però...cosa diavolo gli mancava?
Scacciò questi problemi esistenziali, e decise di dedicarsi ai problemi più semplici, uno alla volta, un
giorno dopo l'altro.
Per ora occorreva risolvere il problema del cerchio alla testa. Sapeva che in questi casi l'unica era bere
nuovamente.
Si guardò intorno ancora una volta. In casa, naturalmente non c'era nulla da bere. Sarebbe sceso di sotto,
nel bar di Ramon. Lui gli avrebbe preparato quel suo intruglio mescolando liquori misteriosi, e il mal di testa si
sarebbe dileguato.
Si fece una rapida doccia, dopo aver orinato a lungo, mentre contemplava la sgommata di merda di chissà quando,
si rivestì e scese di sotto senza rasarsi.
Evitò accuratamente di guardarsi allo specchio del bagno e dell'ingresso. Sapeva che non gli sarebbe piaciuto
quel che avrebbe visto.
«Buena, buena!»
«¿Que pasa, Miguel?»
Non rispose alla domanda del barista. Erano solo rituali di saluto, che non pretendevano risposte.
«Senti, Ramon, ho mal di testa. Preparami quel tuo rimedio...»
Il bar era semideserto a quell'ora del mattino, con l'unica eccezione di tre tizi mai visti sull'isola,
che bevevano ad un tavolo in fondo e parlavano sommessamente tra di loro.
«Chi sono quei gringos?»
«Non ne ho la minima idea, amigo. Stranieri, mai visti prima da queste parti.»
Il barista lo servì, poi andò dagli stranieri che gli avevano fatto cenno.
Appena trangugiò il miscuglio preparatogli da Ramon, l'uomo sentì l'alcool entrargli in circolo
e pensò, per la prima volta di avere un problema. Era un alcolizzato.
Ci avrebbe pensato seriamente. Domani.
Il mal di testa sembrò attenuarsi.
Ramon tornò al banco e gli disse che i gringos volevano invitarlo al loro tavolo per bere con loro. Uno di loro
aveva detto che credeva di conoscerlo.
Un campanello d'allarme suonò, da qualche parte nella testa dell'uomo, fattosi di colpo più lucido
di appena un istante prima. Gli parve anche di vedere meglio.
Mise a fuoco gli uomini che ora guardavano verso di lui, sorridendogli. Uno di essi alzò un bicchiere a voler dire
di bere alla sua salute.
L'uomo fu tentato di uscire precipitosamente dal locale, ma la parte razionale di lui, gli suggerì che non
rischiava nulla a bere con loro. Se fosse stato necessario se ne sarebbe andato subito dopo. Non era uomo da paventare
tre mezze tacche come quelli.
«Si sieda con noi.»
Uno dei tre si alzò e gli porse una sedia in mezzo a loro, spostandosi dall'altro lato del tavolo.
L'uomo si allarmò sentendoli rivolgersi a lui in italiano. Si voltò verso la porta, dove fra la
zanzariera si era materializzato un poliziotto.
In quell'attimo di distrazione, sentì lo scatto metallico di una manetta al suo polso destro.
«Antonio Bellassai, io sono il tenente Cantalino dei carabinieri. Lei è in arresto per l'omicidio di
John Ventura e di Oreste Crespo, avvenuti a Paesana nel settembre dell'anno scorso.»
«Maresciallo, come ha fatto a intuire che il Bellassai era vivo e che fosse l'autore dei due omicidi?»
Il sostituto procuratore Emanuele Caruso, in fondo non era cattivo. Alla fine sapeva lodare il maresciallo Melis per
aver risolto il caso, mentre lui, per tutta la durata dell'indagine aveva sostenuto la colpevolezza del Novelli.
«Mi sono insospettito quando ho fatto il sopraluogo di fianco alla chiesetta di Pian Lavarino. È praticamente
impossibile cadere accidentalmente con l'auto da quel punto, a meno di essere degli idioti. Gente a piedi ne
è caduta parecchia di lì, come lo testimoniano le offerte votive nella chiesa stessa, per quelli che si
sono miracolosamente salvati da quell'orrido. Inoltre c'erano impronte di piedi a fianco delle tracce lasciate
dall'auto.
Ma non ho realizzato subito. Inizialmente avevo pensato si trattasse di qualche abitante del posto, che fosse andato
lì a curiosare, o di un cercatore di funghi. Fu quando seppi della scomparsa del Crespo, che come corporatura e
aspetto somigliava al Bellassai che ho realizzato.
Inoltre era tutto troppo facile. Corpo bruciato, ma documenti al sicuro nel cruscotto. Come a volerci far capire che il
morto era proprio il Bellassai. Questo è il più grande errore che ha commesso l'assassino. Ma anche
l'errore più grave che abbiamo commesso noi in quella prima fase: non ricercare riscontri di DNA con il
Bellassai. In un secondo tempo abbiamo riesumato la salma, che non essendo stata reclamata da nessuno era stata tumulata
a spese dell'esercito, e abbiamo trovato subito dei riscontri con reperti presi in casa del Crespo.»
«Dunque il Crespo sarebbe morto solo perché fisicamente simile al Bellassai. Un corpo per la sua sparizione.
E quell'altro, il Ventura, perché Bellassai l'avrebbe ammazzato?»
«Questa storia è complicata proprio perché riguarda persone dei servizi.» Questa volta fu il
capitano Palmieri a rispondere.
«Il Ventura era un mafioso di Boston, che lavorava per i servizi americani. Potrebbe anche darsi che la missione di
spaventare o uccidere il Novelli, questo non lo sappiamo, fosse un diversivo, una scusa, magari per fare fuori il
Bellassai, che probabilmente sapeva troppe cose riguardo alla CIA. Quel mondo è così. A volte ammazzano
persone che "sanno" dopo decine di anni dai fatti. Non capisco quelli che ci entrano, cosa credano di trovare.
Probabilmente una vita avventurosa, sull'onda dei film con Sean Connery, alla James Bond. Donne e bella vita.
Bisogna essere giovani per abboccare a quell'esca.
Che il Bellassai ne sapesse di cose, lo deduciamo dal fatto che era nei servizi fin dal 1975, quindi poteva avere prove e
notizie scottanti, sugli anni di piombo, il terrorismo rosso e nero, il caso Moro, le brigate rosse e così via.
Sono soltanto ipotesi. Di certo non si saprà mai nulla, ma tutto questo è molto plausibile. Ma di sicuro
sappiamo che dietro molti di quei fatti di sangue, c'era la CIA.
Il Bellassai potrebbe aver avuto sentore che l'altro era lì per ammazzarlo ed ha deciso di prevenirlo e poi
sparire. Probabilmente il Ventura voleva far fuori il Bellassai in presenza del Novelli, per poi uccidere anche lui, in
modo che sembrasse che l'uno avesse ucciso l'altro.»
«I miei complimenti all'Arma e a lei, maresciallo. Io credo che prima o poi dovremmo proporla per la promozione. Cosa ne dice, capitano?»
«Sono d'accordo con lei dottore.»
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Pensare un mondo migliore è un atto d'amore verso gli altri.
Pensare in tanti un mondo migliore è già un 50% della sua realizzazione.
Giovanni
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