Data creazione pagina: 29/07/2013 1:27

- Titolo: Introduzione

Quando nacqui tutti i concetti sui quali avrei dovuto poi interrogarmi per cercare di capire il mondo, erano già dati come assiomi; o almeno così pareva da quel che riuscivo ad interpretare dagli sguardi e dalle espressioni degli adulti. Ma di questo fui meno certo, quando incominciai a porre le prime domande sull'argomento che più mi stava a cuore: come era strutturato questo nostro mondo.
Allora il mondo dei grandi mi pareva complesso ma intelleggibile ed ordinato, strutturato in modo tale che avrei potuto farlo "mio", cioè comprenderlo a fondo e rigirarmi in esso a mio agio.
Oggi quel mondo di allora non esiste più, tutto è cambiato, a mio parere in peggio, ed il mondo odierno mi appare più complesso di quello che intravedevo allora bambino, molto più caotico e disorganizzato, imprendibile dalla mia coscienza di oggi e forse anche dalla coscienza dei bambini che nascono ora. Una intuizione subliminale alla coscienza ragionevole mi suggerisce come un sentimento, allora come oggi, di spiacevolezza, di disapprovazione, mi sgorga dal cuore la sensazione che questo mondo non mi piace.
Quando ero piccolissimo i miei calcolavano quanti anni avrei avuto nel duemila. Più tardi, quando imparai il segreto nascosto nei numeri, lo feci anche io. Avrei avuto quarantasei anni. Mi sembrava una cosa così lontana, irraggiungibile, quasi una utopia irrealizzabile, una meta lontana come una stella di una galassia lontana, così lontana da non poter essere raggiunta mai. Adesso il duemila è arrivato ed io sono qui a guardare indietro come un vecchio, nel baule in soffitta dei miei ricordi.
Niente è poi stato come l’avevo immaginato, sperato. Così mi trovo senza volere a confrontare la realtà di oggi con i sogni di allora. E questo guardarmi indietro assume pian piano il ruolo di una storia.
E’ una storia di ricordi di infanzia. Una storia di nostalgia per quel mondo e quelle persone che non ci sono più. Alcune di quelle persone, i miei nonni per esempio, avevano un piede nel secolo scorso; ecco la ragione dell’espressione “un mondo che è scomparso”, nella frenesia della corsa di oggi verso il nuovo millennio.
Ho cercato, per quanto possibile, di rivisitare quel mondo di allora con gli occhi del bambino che è, spero, ancora dentro di me, perché con quegli occhi lo scoprii in quegli anni cinquanta e mi sembrava giusto attenermi a quel preciso punto di vista.
Mi sono chiesto spesso come avvenga, e come sia avvenuta per me, la scoperta del mondo, l’accumulo di quelle nozioni che permettono di capire la gente, le situazioni, il mondo in cui si vive insomma.
E i ricordi poi, cosa li scatena, dove sono immagazzinati e in quale modo?
In genere si pensa che lo sviluppo cognitivo avvenga per stratificazioni progressive di mattoni di conoscenza, che vengono acquisiti tramite l'apprendimento, su di un terreno che è praticamente una tabula rasa, sulla quale si può scrivere qualunque cosa; questo almeno secondo la scuola comportamentista ed il successivo movimento cognitivista della psicologia, quelle scuole che, come tutte le cose che arrivano dall’america, fanno fortuna qui da noi con trent’anni di ritardo, quando, nel loro paese d’origine sono già state dimenticate e messe da parte come obsolete. Devo dire che non sono d'accordo ne' sul concetto di tabula rasa ne' sul fatto dell'accumulo progressivo di conoscenza.
Non posso credere che un bambino alla nascita non sappia nulla, in quanto egli sa come minimo dove e come succhiare quel nettare prezioso che è il latte. Ma questo non è tutto: anche il piccolo scimpanzé sa succhiare il latte, ma non sa diventare un uomo, anche crescendo fra gli uomini, cosa che invece tutti i bambini sanno fare. Ci sono allora due strade per spiegare questo fatto al punto in cui si trova la nostra conoscenza del mondo: o si accetta l’ipotesi metafisica e si tira in ballo l’anima immortale o si ammette un faticoso “non so!”. Il fatto che uno scienziato nasconda la propria incomprensione dei fatti dietro a termini come "istinto" o "riflesso incondizionato" denota soltanto, a parer mio, presunzione e scarsa propensione all’umiltà che sarebbe necessaria per pronunciare la frase "questo proprio non me lo so spiegare". In fondo se la scienza attuale facesse una serena autocritica, queste parole dovrebbe pronunziarle molto più spesso di quanto si possa comunemente pensare.
Non posso credere all'accumulo stratigrafico di conoscenza perché, in questo campo , l'aumento quantitativo produce sicuramente aumento qualitativo del sapere che si è accumulato in precedenza, ragion per cui la conoscenza del mondo non è un fatto di accumulo, ma esige l'interazione dell'individuo con le singole notizie, ma soprattutto con le persone che gli stanno intorno. In altri termini le conoscenze dell'individuo pensante sono digerite o elaborate, anche in funzione delle conoscenze precedenti e degli scopi o interessi dell'individuo, e questo processo si differenzia già nel neonato, il che dimostra ulteriormente, se mai fosse necessario, l'assurdità di un concetto come quello di tabula rasa.
Analizzando quel che è successo a me, devo concludere che da alcune certezze iniziali, acquisite grazie alla fiducia che nutrivo verso gli adulti che mi circondavano, sono andato man mano accumulando incertezze, mentre crollava la mia fede per gli adulti stessi. Oggi vado fiero dei miei dubbi e compatisco la sicurezza manichea che sembra ancor oggi circondarmi, anche se sul dubbio non si può costruire gran che, ma per lo meno si riflette un po' prima di sbagliare. Comprendo benissimo che questa teoria dell'accumulo del dubbio, possa suonare un po' strana a chi è abituato alla certezza scientifica, ma è proprio ciò che è successo a me.
Per quanto riguarda il sorgere dei ricordi, il loro immagazzinamento eccetera, posso dire anche qui, cosa succede a me. Introspezione. Non vale nulla per la scienza, ma i filosofi hanno proceduto in questo modo per millenni. Per carità: non voglio affermare di essere un filosofo, ma solo uno roso da un tarlo mai sincero che chiamano pensiero[1]. A volte è un odore o un’altra sensazione, che innesca il processo del ricordare. A volte il ricordo viene dal nulla: sei lì, immerso nel tuo lavoro, ed ecco spuntare il ricordo come a sorprenderti. Per la scienza positivista in natura nulla si crea e nulla si distrugge, anche se la fisica subatomica ha iniziato a erodere questa certezza, allora o la solita ipotesi metafisica di un mondo spirituale parallelo, capace anche di suggerire idee e ricordi, oppure mettere insieme capre e cavoli e spiegare tutto con associazioni di idee magari a livello inconscio. Mi si contorcono i visceri a dar ragione agli associazionisti, ma potrebbe pur essere.
Ancora: dove hanno sede i ricordi? O da qualche parte nel nostro corpo oppure nell’anima. Per il fatto dell’associazione a stimoli sensoriali sarei d’accordo, se solo si puntualizzasse che deve essere presente una emozione legata al fatto che costituisce il ricordo.

Quando mi accinsi a scrivere con la presunzione che ciò che stavo scrivendo diventasse un libro, mi persi d'animo perché pensai di non essere in grado di fare un'opera piacevole a leggersi, divertente, istruttiva o utile in qualche modo a qualcuno, ma soltanto una inutile e noiosissima sequela di pensieri e riflessioni personali che mi pareva dover condividere con gli altri e lo stavo facendo con l'uso della scrittura giacché non sono stato dotato dalla natura di una eloquenza capace di convincere l'uditorio. Pure, i tanti argomenti qui trattati parevano accalcarsi in certi momenti nella mia mente, manifestando un loro autonomo e vivo desiderio di venirne fuori. Anzi a tratti pareva volesse venire fuori tutta la mia veltanshaung, le credenze e convinzioni di più di quarant’anni di vita e di riflessioni, ed io mi sentivo in dovere di spiegarla tutta, tutto in un libro solo, buttata lì alla rinfusa, come sorgeva alla mente .
Chiunque si accinga a scrivere qualsiasi cosa, ha certamente presente l'astuzia del Manzoni di rivolgersi modestamente (io penso che si tratti di un'ipocrita falsa modestia) ai suoi eventuali quattro lettori, ed è tentato di emularlo. In quel periodo stavo leggendo Tropico del Capricorno di Henry Miller, e mi colpì il racconto della stesura del primo libro che il protagonista, lo stesso Miller, racconta di aver scritto e in quale modo[2].

«Quando venne il tempo di prendermi le vacanze...mi presi tre settimane anziché due e scrissi il libro sui dodici piccoli uomini. Lo scrissi di volata, cinque, sette, a volte ottomila parole al giorno. Pensavo che un uomo, per essere uno scrittore, deve scrivere almeno cinquemila parole al giorno.
Pensavo che deve dire tutto quanto in una volta - in un libro solo - e poi crollare. Non sapevo nulla dello scrivere. Avevo una paura da cacarmi addosso...Immagino che sia stato il peggior libro mai scritto al mondo. Era un tomo colossale e sbagliato dal principio alla fine. Ma fu il mio primo libro ed io ne ero innamorato. Se avessi avuto i soldi, come li aveva Gide, lo avrei pubblicato a mie spese. Se avessi avuto il coraggio che aveva Whitman, sarei andato a venderlo di porta in porta. Tutti quelli a cui lo feci vedere mi dissero che era tremendo. Mi sollecitavano ad abbandonare quest'idea di scrivere. Avrei imparato, come Balzac, che bisogna scrivere parecchi volumi prima di firmarne uno col proprio nome. Dovevo imparare, e feci presto, che bisogna rinunciare a tutto e non far altro che scrivere, che bisogna scrivere e scrivere e scrivere, anche se tutti al mondo ti sconsigliano, anche se nessuno crede in te. Forse lo fai proprio perché nessuno crede in te...Io, principiante, tentavo un'impresa a cui un uomo di genio si sarebbe accinto solo alla fine. Volevo dire l'ultima parola fin dal principio. Era assurdo e patetico...Oggi, se ripenso alle circostanze in cui scrissi quel libro, quando ripenso al materiale straripante che cercavo di mettere in forma, quando ripenso quanto avevo cercato di abbracciare, mi do una pacca sulla schiena, mi do dieci e lode.»


Così, tutto il ragionamento di Miller mi pare calzi a pennello per il caso mio. Anch'io sento ronzare le idee nella mia testa come mosche, mi pare di comprendere la loro urgenza di uscire fuori per lasciare una traccia sul foglio bianco come le mosche quando trovano una superficie sulla quale cagare, strofinando su di esso il loro posteriore. Alla fine forse il risultato sarà soltanto un foglio sporco di cacca di mosche, ma non posso impedire che tutto questo accada, anche a costo di andare incontro alle delusioni più cocenti, sia come risultato letterario, che come riscontro nel parere di parenti ed amici.
Lungi da me l’idea di tentare di paragonarmi a Manzoni o a Miller! Solo che mi consola sapere che anche un grande scrittore aveva, proprio come me, all’inizio dubbi e incertezze, ma, sempre come me, un grande desiderio di scrivere, a qualunque costo.
Ovviamente queste pagine sono dedicate a quel mondo, ma soprattutto a quelle persone a me tanto care, che non sono più. O forse sono, lo voglio sperare, da qualche altra parte ed io le incontrerò quando sarà giunto il mio tempo.
Dedico inoltre questo scritto ai miei figli, nel tentativo di far loro conoscere un modus vivendi diverso da quello che conoscono loro direttamente, nella speranza che, quando si accorgeranno delle contraddizioni del loro consumismo tecnologico, sappiano pensare a qualche alternativa diversa per il mondo nuovo che essi rappresentano.

Occorre innanzi tutto dire che si tratta di un libro anomalo. Non è una vera e propria autobiografia, in quanto alcuni fatti sono stati inventati di sana pianta, come luoghi, nomi e personaggi. Deve essere detto, in questo contesto, che qualsiasi riferimento a persone, luoghi o fatti realmente esistiti è puramente casuale. Forse si potrebbe definire biografia romanzata, ma forse, tutto ciò che segue non rientra nemmeno in questa categoria. Spesso ci sono dei salti, dai fatti degli anni cinquanta accaduti ad un bambino, alle riflessioni di un adulto. Questi salti non sono la cosa più riuscita, quella di cui vado più fiero. Il passaggio dall’uno all’altro avrebbe dovuto essere, forse, fatto in modo diverso. Mi sono stati di modello, anche se non mi avvicino nemmeno lontanamente a questo modello, ma l’idea era di fare qualcosa del genere, i due libri, per me fondamentali di Robert M. Pirsig: Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta[3] e Lila[4]. Questi libri andrebbero classificati come “saggi romanzati”, ammesso che esista un tipo di libri del genere, e che non si reputi immodesto, da parte mia, un tentativo del genere, con i miei miseri mezzi.
Devo spiegare in breve quali sono stati i miei intenti, diciamo “saggistici”, di questo resoconto della situazione infantile. Innanzitutto c’è questa consapevolezza, direi primordiale, perinatale, questa sensazione più intuita che razionalmente pensata, del fatto che questo mondo non mi piace. Quando dico mondo, anche se intendo anche la realtà fisica, voglio però riferirmi, soprattutto, alla realtà sociale, sociologica, in cui sono immersi gli esseri umani, e che, almeno secondo la mia modesta opinione, della realtà fisica fa parte. Per gli aborigeni australiani, che noi, nella nostra presunzione etnologica, abbiamo chiamato “primitivi”, quando non “animali”, e come tali sono stati sterminati, la realtà che ci circonda viene chiamata “il sogno”.
Questo sogno non è da confondersi con la realtà onirica, studiata ed ampiamente descritta, come mai da nessun altro al mondo, da Sigmund Freud[5], in quanto per gli stessi aborigeni, essa è la vera realtà, la vera vita degli uomini, quasi ad evidenziare quanto noi abbiamo abbandonato da tempo, cioè la trascendenza, la metafisica dell’esistenza di un modo parallelo a quello che noi chiamiamo “reale”: il mondo della spiritualità. Ma, attenzione: essi sono solo dei “selvaggi”, nella nostra visione del mondo egocentrica. In ogni modo, ciò che mi premeva evidenziare, è l’esistenza di una realtà materiale, che comprende la realtà fisica, quella sociale e sociologica, alle quali si deve adeguare la realtà psicologica dell’individuo, e che mi piace di più chiamare “sogno”, come i nativi australiani, perché, questo sogno comprende delle “realtà”, come vedremo, ampiamente metafisiche ed irrazionali. Per meglio esemplificare questo concetto, devo fare un esempio, tentando l’opera impossibile degli antropologi culturali, l’epoché, la sospensione del giudizio etnico. La nostra società, ma è meglio chiamarla “cultura”, si è evoluta in un certo modo “unico”, grazie a scelte uniche, forse irreversibili, diverse dalle culture che troppo frettolosamente abbiamo liquidato –nonché sterminato- come “primitive”. Queste righe sono l’esempio paradigmatico di quanto citato più sopra di Miller a pagina 12, «… Pensavo che deve dire tutto quanto in una volta - in un libro solo - e poi crollare.»
Alcune di quelle scelte, forse irreversibili –forse una sola a mio parere- hanno condizionato tutto il divenire della nostra cultura: non la lingua scritta, non lo strumento, dal neolitico al sempre più sofisticato oggetto tecnologico, ma l’invenzione del danaro. Da questa invenzione derivano scelte successive, condizionate da quella scelta primigenia, che non sarebbero state così, senza di essa. Ci sono atteggiamenti, modi di pensare, di esprimersi, di agire dell’uomo culturale “occidentale”[6], che non esisterebbero se il denaro stesso, non fosse mai stato inventato. Molti di questi atteggiamenti, convinzioni, luoghi comuni –li si chiami come meglio ci piacerà, secondo le preferenze individuali- agiscono in modo inconscio o quasi inconscio ed influenzano tutto il nostro pensiero ed il nostro modo di agire. Mi rendo conto di dover fare degli esempi banali:
Si va a scuola per imparare delle cose che serviranno nella vita. Quando non ci si sente bene, si ricorre ai medici. I medici hanno un rimedio per ogni nostro problema. Viviamo in una democrazia, quindi i nostri diritti sono garantiti. I giornali, i media, ci forniscono le informazioni che ci servono. I politici da noi eletti porteranno avanti i nostri interessi. Eccetera.
Lo so, sembra paradossale che sia così, in quanto, quelle sopra, sono affermazioni largamente accettate, quindi non varrebbe la pena di rifletterci molto. In realtà non sono vere, ma ci piace pensare che lo siano, altrimenti, ogni volta che si presenta un problema, dovremmo riconsiderare, al fine di prendere una decisione, tutto ciò che abbiamo imparato dalla nascita fino al momento attuale. Quando componiamo un numero di telefono, ci conforta sapere che dopo gli squilli, risponderà la persona da noi cercata, ma non sempre è così!
Il mio intento è scavare per intaccare queste convinzioni. Il mio intento è dimostrare che l’individuo è fortemente ostacolato nel suo libero divenire, in quanto questo potrebbe essere non funzionale alla società, alla cultura vigente, dominante. L’individuo è fortemente ostacolato quanto più è debole (bambini, in questo libro; anziani in un futuro progetto, in linea con il presente). Il mio intento è dimostrare che esiste un complotto contro l’individuo, da parte di chi detiene il potere, perché il libero divenire dell’individuo renderebbe incontrollabile la società futura. Questo è vero soprattutto nel caso dei bambini. Genitori, nonni, insegnanti educatori in genere, collaborano a questo complotto spesso inconsapevolmente, agendo spesso, più riferendosi a luoghi comuni, che non coscienziosamente, a ragion veduta, a danno del bambino. È significativo il fatto che il protagonista si identifichi con Paperino, piuttosto che con Super Man, o anche soltanto con lo zio Paperone. Molti lo fanno. Chi siano questi individui è ancora prematuro rivelarlo: io ho una piccola idea, un filo conduttore rosso, che lega cinquant’anni di riflessioni e ricerche.
La scelta dell’uso delle note a piè di pagina –quelle a fine capitolo o a fine opera sono tremendamente scomode per il lettore!- non è da romanzo autobiografico, e non è stata fatta nemmeno dal Pirsig, che, da buon scrittore, ha detto tutto quanto nel testo. Inizialmente è stata una scelta dovuta all’uso di termini dialettali[7], ed inevitabilmente ci sono finiti rimandi a testi e citazioni. È vero che nemmeno Camilleri, che si serve di un piacevolissimo linguaggio siculo italiano, non ha usato note a questo scopo –forse solo in un libro ha inserito un glossario alla fine. Ma anche Camilleri è un professionista della scrittura, e, leggendo i suoi avvincenti racconti, si finisce per comprendere dal contesto il significato dei termini. Forse sarà anche perché i linguaggi meridionali sono stati vezzeggiati e corteggiati dai media, dal cinema e dalla televisione, divenendo così comprensibili ad un pubblico più vasto. Deve essere fatto rimarcare, che, se una fiction è ambientata a Napoli, è largamente accettato, tanto da diventare quasi esplicito, che gli attori abbiano un accento marcatamente napoletano, quando non parlino addirittura un dialetto stretto. Se, al contrario, una soap opera è girata a Torino, si mandano magari gli attori a scuola di dizione, per reprimere quel “fastidioso” accento piemontese. Quando non succeda l’opposto, come nel famoso film, La donna della domenica, tratto da un’opera di Fruttero e Lucentini, in cui gli attori, o i doppiatori, magari non piemontesi, venivano forzati ad un accento enfatizzato sulle vocali, ridicolo a chi viva di queste parti, che sa bene quale sia la larghezza adeguata delle vocali, che peraltro, in alcuni casi, sono molto strette. Probabilmente si tratta di una sorta di vendetta dei popoli di altre regioni, per quelle ingiustizie subite nell’ottocento, che sono state sintetizzate molto bene nel libro Maleddetti Savoia[8].
Mi rendo conto che il piemontese è una lingua ostica ai più, essendo più imparentata con il francese che non con l’italiano, e secondo me, una qualche traduzione, si rendeva necessaria, a meno di rinunciare all’immediatezza del discorso dialettale, e scrivere soltanto in italiano. La lingua usata è, anche, espressione di uno stile di vita, di un modo di pensiero, di atteggiamenti e preconcetti ed io non volevo rinunciare a tutto questo, visto che di questo volevo parlare. E poi, in fondo, ho anche la piccola presunzione di far riguadagnare al dialetto dei miei nonni, dei miei cari, qualche passo perduto rispetto agli altri dialetti italiani. Mi scuso innanzitutto con i puristi del piemontese. Sicuramente, dal loro punto di vista ho commesso molti errori gravi di sintassi e di grafia. Nessuno mi ha insegnato questa lingua scritta ed ho cercato di ricavarne qualcosa, dalla conoscenza del parlato, e con l’aiuto dei testi di cui sopra.

Non soltanto molte delle persone che hanno ispirato questa storia, non sono più con noi, ma anche gli ambienti fisici sono mutati (in peggio). È stato con vivo sgomento, che un giorno d’estate di qualche anno fa, tornando al paese, ho constatato l’abbattimento del viale dei tigli. Indagando ho scoperto che, soltanto alcuni amici nostalgici come me ne sentivano la mancanza. I più, soprattutto commercianti ed abitanti delle case prospicienti erano soddisfatti: quel viale produceva in autunno una incredibile quantità di foglie da spazzare. Questa interpretazione “ecologica” che vede gli alberi inquinare le nostre città, non l’avevo ancora sentita, ma ne prendo nota. È un segno dei tempi. Sono gli stessi ecologisti da quattro soldi che impediscono l’estrazione di ghiaia dai fiumi, per autorizzarne l’estrazione in terreni adiacenti, creando grossi laghi artificiali che arrivano alle falde acquifere, e tutto questo si commenta da solo. Ho avuto su questo argomento uno scambio di posta elettronica con un noto conduttore di un programma “ecologista” della televisione di stato, il quale ha affermato di non comprendere il mio discorso. Del resto il 1984 di Gorge Orwell, è già qui, bello realizzato. La storia viene scritta e riscritta ogni giorno, a seconda delle esigenze del momento.

Se esistesse ancora una sinistra nel nostro paese, questo sarebbe un libro di sinistra, ammesso che riuscissimo ad intenderci sul significato che questo aggettivo ha per me: difesa dei più deboli, dei più poveri, degli emarginati e della Natura. Poiché non esiste nulla del genere nel nostro paese, e forse, nel mondo, non so come classificarlo politicamente. L’avvertimento è d’obbligo per chi non la pensasse in questo modo: a questo punto può abbandonarmi.
Una prefazione così lunga testimonia inevitabilmente, che io sono un cattivo scrittore. Un buono scrittore avrebbe fatto capire tutto nel suo libro. So che non è mia peculiarità sintetizzare concetti chiari in poche parole, nondimeno mi sembra di doverlo fare, anche con la mia prosa mediocre. Ci provo e ci proverò.


[1]Dal testo de Canzone di notte n.2 dall'album Via Paolo Fabbri 43 di Francesco Guccini.
[2]Tropico del Capricorno di Henry Miller Pag.27 ed. Oscar Mondadori Narrativa
[3]Robert M.Pirsig Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta Adelphi Edizioni S.p.A. Milano 1981
[4]Robert M.Pirsig Lila Adelphi Edizioni S.p.A. Milano 1992
[5]L'interpretazione dei sogni (1901) Editore Boringhieri S.p.A. Torino 1983.
[6]Il significato qui attribuito a questo termine, sarebbe quello di "uomo della cultura dell'accumulo di denaro".
[7]Del piemontese scritto non sapevo assolutamente nulla fino a che mi sono accinto a quest'opera. Non che ora sappia molto di più, ma quanto qui scritto, sia come ortografia che come sintassi, ha il supporto del Dissionari Piemontèis Ël Neuv Gribaud Tersa Edission di Gianfranco Gribaudo Daniela Piazza Edizioni Torino 1996 e della Grammatica della lingua piemontese di Michela Grosso Edission Noste Reis - Associassion Coltural Piemonteisa Torino 2002.
[8]Maledetti Savoia  di Lorenzo del Boca ed.Piemme 1998