Data creazione pagina: 30/07/2013 1:31

- Titolo: Capitolo 8 - La morte.


Assistere alla morte degli animali era uno spettacolo consueto. Galline e conigli venivano sgozzati per essere mangiati. Tutta l’operazione avveniva nei cortili, in bella vista. Gli animali venivano appesi per le gambe per essere dissanguati. Spesso ancora si agitavano in questa fase. Con ogni probabilità erano ancora vivi e soffrivano. Il momento del trapasso vero e proprio era difficile da individuare. Sicuramente non era una istantanea conseguenza del taglio della gola. Dovevano morire le lumache che trovavamo nei periodi piovosi, o i pesci che pescava mio padre, prima di finire in padella. Ma la morte di quelle piccole creature era una faccenda diversa dalla morte di una creatura più grande, di un mammifero o di un uccello. I conigli venivano spellati tagliando la pelle attorno alle zampe posteriori. Poi tutta la pelliccia si sfilava come un guanto aderente. Restava l’animale nudo e morto, che così senza pelliccia non sembrava più il coniglio di partenza e faceva un po’ impressione. Ma tutto questo avveniva quando l’animale era sicuramente morto. Che dire dello sguardo vitreo delle pecore o capre appese ad un gancio, su un lenzuolo bianco, sul muro fuori del negozio di Aldo in via Pastrengo, nei periodi pasquali. Erano lì morti, ma prima erano stati vivi. Cosa esprimevano quegli occhi se non il terrore della morte e, forse, l’odio per chi glie l’aveva inflitta? E le mucche? Quei placidi e pacifici animali dovevano essere uccisi e macellati per essere venduti. Assistetti in una sera nebbiosa alla morte di una mucca nel macello illuminato, intravisto dall’androne del portone, mandato in commissione dai miei. Ero inorridito e affascinato dallo spettacolo e mi fermai a lungo, per tutta la durata dell’operazione, tanto che arrivai a casa e mi chiesero ragione della lunga assenza. Risposi che non avrei mai potuto da grande fare il macellaio. Provavo troppa pena per la mucca. Non avrei mai potuto fare il mestiere di uno che dà quotidianamente la morte agli animali. La mucca era recalcitrante ad entrare nel locale. Il macellaio dovette fare una gran fatica per farla entrare nel mattatoio e legarla all’apposito anello, per avere le mani libere. Forse intuiva cosa l’aspettava. Probabilmente la morte era qualcosa che ristagnava nell’aria, che gli animali potevano annusare. Forse anche quegli animali, così grandi, possedevano un anima, che si aggirava poi nel luogo di morte e gli animali vivi ne sentivano la presenza. Il nome stesso, animali, doveva pur avere qualche significato del tipo “dotati di anima”, come noi. Se esiste l’anima essa deve essere immortale, deve in qualche modo sopravvivere alla morte fisica. Al di là di ciò che raccontavano i preti, sapevamo dai giornali che, ad esempio, proprio le mucche, erano animali sacri e rispettati in India. C’erano le barzellette illustrate con le mucche sdraiate in mezzo alla strada, o sui binari, che bloccavano il traffico e tutti attendevano pazientemente. Una ragione ci doveva essere. Mio padre diceva che erano stupidi, laggiù in India, in tanti a morir di fame, con tutte quelle mucche che gironzolavano tranquille per le strade delle città. Ancora dovevo scoprire nei libri, la credenza nella metempsicosi, della migrazione delle anime in corpi diversi, la reincarnazione delle anime.
Una volta legata la mucca, il macellaio prese una specie di martello, nel quale infilò qualche cosa. Si diceva in giro che quell’attrezzo fosse una sorta di arma che sparava un chiodo, nella testa della mucca. L’animale muggiva terrorizzato, come presentisse ciò che stava per accadere. Eppure credo, che fosse la prima volta in vita sua che entrava in un mattatoio, la prima volta che andava per essere abbattuto. L’uomo batté un colpo con il martello proprio sulla fronte della mucca, fra le corna e gli occhi. Si udì come un colpo di arma da fuoco e l’animale stramazzò a terra coricandosi su un lato e dimenando le zampe all’impazzata, come nel tentativo di compiere una disperata corsa per allontanarsi da quel luogo di morte. O forse era la sua anima che, disperatamente cercava di uscire da quel corpo sofferente. Defecò alzando la coda che si muoveva disperata anch’essa.
Il macellaio rapidamente legò le zampe posteriori ad una catena di un verricello. Sollevò con l’argano la bestia che ormai aveva solo più dei lievi tremiti e iniziò a sgozzarla, raccogliendo i sangue in una catinella di plastica che stava lì vicino. Quindi sventrò l’animale e ne fuoriuscirono le interiora fumanti nel fresco della sera invernale, alla pallida luce fluorescente del locale. Anche le interiora furono messe, almeno in parte, in diverse bacinelle. Fegato e polmoni furono appesi a dei ganci. Infine l’animale fu spellato, con lo stesso procedimento dei conigli. Fu la volta della testa, staccata usando una grande accetta, come usano i boscaioli per abbattere un albero. Rimase la bestia nuda e l’uomo iniziò a farla a pezzi. Usava coltelli grandi e seghe a mano. Fu solo allora che me ne andai completamente inorridito, chiedendomi se avrei ancora mangiato carne, cervella, fegato e tutto il resto. Chiedendomi cosa provasse il macellaio nello svolgere questa parte del suo lavoro. Gli allevatori di bestiame, anche se talvolta erano duri con le mucche, picchiandole con i loro bastoni per farle restare nei ranghi, sembravano amarle teneramente. Le chiamavano per nome, addirittura le accarezzavano. Eppure tutti sapevano che il destino finale degli animali era una morte prematura, non stabilita dalla natura, ma dall’uomo, per cibarsene, ma e anche, nel caso dell’allevatore, del commerciante, del macellaio, per averne un profitto. Come potevano alla fine gli allevatori consegnare le loro mucche affinché fossero uccise, al commerciante che, a sua volta, le consegnava al macellaio? Era giusto che l’uomo in generale disponesse in questo modo della vita degli altri animali ? Riuscivo a comprendere il fatto di nutrirci di pesci e lumache, che sembravano meno senzienti, meno sensibili, anche se, almeno i pesci, si ribellavano gagliardamente alla cattura. In quanto alle lumache opponevano soltanto una grande emissione di bava al sale ed all’aceto in cui le immergevamo per purgarle, prima di bollirle, e si chiudevano in se stesse, nel loro guscio, tenacemente. La loro morte vera e propria avveniva in silenzio, senza urla, ma lentamente, quando l’acqua della pentola cominciava a riscaldarsi, ed esse facevano un ultimo tentativo di uscire dal loro guscio. Ma più difficile era comprendere la liceità del dare la morte a conigli e galline, capre, maiali e mucche. Tutti questi erano più vicini a noi. Ma la moda vegetariana era lungi ancora dai nostri luoghi. La lettura di libri come La fattoria degli animali di George Orwell, sarebbe avvenuta soltanto trent’anni dopo. Intanto si continuava a mangiare ciò che era considerato commestibile nelle nostre famiglie.

La morte era una questione seria. L’antitesi della vita è ovvio. Riguardava tutte le creature viventi dunque. Un concetto assoluto. Tutto ciò che era vivo, un giorno sarebbe morto. Facile. Non altrettanto facile digerirlo. Significava che io stesso avrei dovuto un giorno morire. Mia madre, mio padre, Nona e Parin sarebbero morti. Io stesso condividevo con loro lo stesso destino. Significava che ci si doveva abituare fin da allora all’idea di perdere una persona cara. Per sempre. Dalla morte non c’era ritorno. Non si raccontava di nessuno che fosse tornato. Solo Gesù Cristo faceva eccezione a questa regola, ma non c’erano vere dimostrazioni di questo, se non documenti scritti ai quali occorreva prestare fede. Sì i primi indottrinamenti religiosi ci avevano convinti. Ma noi esseri umani comuni, non Dio? Quale era il nostro destino. Ci parlavano di inferni e paradisi, limbo e purgatorio. Per sempre. Per l’eternità. Un concetto difficile da immaginare per un bambino. Noia. Per sempre è noioso. Fosse anche il Paradiso, ma per sempre è noioso.
L’argomento che in assoluto turbava di più gli adulti era proprio la morte. Ne parlavano in sordina, girandogli intorno. Si vedeva che ne avevano un vero terrore. Si capiva quanto ne avessero le idee confuse. Sia bene inteso che io non sapevo nulla della morte e, come per tutti gli altri argomenti che dovevo “imparare”, avrei dovuto ascoltare i discorsi dei grandi, porre domande, ma...si intuiva che per questo argomento era più difficile. Gli adulti erano reticenti. Ma non reticenti ed evasivi come per le questioni dei bambini le cicogne e tutta quella faccenda lì. Qui c’era il mistero. Se là sapevano e non volevano parlare, qui sembrava che non sapessero molto, e che non ne parlassero volentieri con noi bambini. Perché fra di loro, al contrario ne parlavano eccome. Ma era un parlarne morboso, scaramantico. Parlavano di chi era morto e in quali circostanze, ma mai di cosa significasse per l’essere umano morire. Era l’argomento prediletto da Nin Daviso, quando veniva a chiacchierare, seduta su una seggiola in cucina mentre mia madre stirava. Era molto il tale o la tale altra del loro paese. A l’è masase1 poteva significare suicidio o incidente. Del suicidio poi si parlava ancora più stupiti, come se fosse stata la cosa più vergognosa e più indecente da farsi. Ripudiare la vita. Un peccato capitale contro la vita. Un tempo i corpi dei suicidi venivano sepolti in terra sconsacrata, non nei cimiteri come tutti gli altri morti. Io credo però che chiunque abbia pensato, almeno una volta nella vita, a farla finita. Non è mai la sofferenza fisica a farci desiderare la morte, ma quella psichica. Io stesso ho pensato tante volte al suicidio, quando le ingiustizie subite, le punizioni inflittemi a parer mio ingiustamente, mi rendevano la vita intollerabile. Chiunque abbia sperimentato questo stato d’animo capirà quanto sia assurdo giudicare chi l’ha fatto davvero, ha messo in pratica ciò che in molti hanno desiderato, senza avere sufficiente coraggio per farlo. Ma, nel caso mio, più che di un ripudio della vita, si trattava di un dispetto agli adulti che ti avevano picchiato. Tu mi hai picchiato ingiustamente, ed io mi uccido, così vedremo se piangerai e ti pentirai di ciò che mi hai fatto. Insomma, un ragionamento del genere.
Si poteva morire tranquilli nel proprio letto -a l’è ciapaije ‘n colp2- oppure ci si poteva mase-se, ovvero, come già detto, suicidarsi o morire di un incidente. Altri ancora potevano morire dopo una lunga agonia dovuta ad una malattia.
Nel caso del “colpo”, di solito si diceva che fosse una bella morte. A l’è gnanca 'ncorzus-ne.3 Come se la gente potesse sapere cosa sperimenta un’altra persona che muore. Nessuno è mai tornato a raccontarlo. Non sapevamo nulla del dott. Moody e delle esperienze di pre-morte4.
Le cose davvero agghiaccianti, erano quei racconti di persone defunte, alle quali era stata cambiata la fossa. Quandi a l’an tramudalo, a l’an trovalo con le man ca gratavo ‘l cuèrcc5. Questo faceva davvero paura. Questa era, forse la paura più grande, degli adulti in relazione alla morte. Cioè essere seppelliti in caso di morte apparente, e riprendersi dopo a funerale avvenuto, nella bara buia e chiusa, ad attendere che la morte sopraggiungesse, tentando invano di sollevare il proprio sepolcro. Conoscevo a memoria questa storia di Nin Daviso, eppure mi veniva sempre un brivido lungo la schiena quando aggiungeva: -a ijero tuti i segn ëd le unge ‘n sël cuèrcc6. In genere i discorsi di Nin, la prendevano alla lontana. Per far capire a mia madre di chi stesse parlando, raccontava tutta la storia di famiglia dell’individuo a cui voleva fare riferimento. Partiva dai bisnonni per parlare dei pronipoti e viceversa. Io ascoltavo tutto, fingendo disinteresse mentre giocavo per conto mio, magari appena fuori la porta sul terrazzo o sotto il tavolo. Ma talvolta non riuscivo a comprendere l’intricata rete di relazioni e di parentela. C’era una frase che saltava fuori spesso. A sa, ël tal a l’è sociase con la fia...7 Io non riuscivo a capire in cosa consistesse questa associazione tra uomini e donne. Forse si trattava di una sorta di impresa commerciale od economica. Ma arrivai a comprendere che si trattava di una sorta di “matrimonio” informale. Di solito vicino a questa affermazione c’era quell’altra, tipo chiel a l’è già marijà8, (o chila), se si trattava di lei. Il divorzio non esisteva, i matrimoni avvenivano soltanto in chiesa, e un secondo matrimonio non era concesso, a meno di essere vedovi, aver perso il primo coniuge. Il matrimonio era, come la morte, irreversibile. Occorreva riflettere bene prima di fare un passo del genere. Mogli e buoi dei paesi tuoi, ripetevano spesso i grandi, a commento di matrimoni andati a male, fra gente di origini diverse. A quei tempi le unioni miste, di piemontesi con meridionali o veneti erano rarissime. Lor a son divers, prope divers da noi.9 In famiglia, la zia Pina e lo zio Anselmo, lui di Bologna, erano l’unica eccezione.
Le morti per incidenti erano a quei tempi più rare di oggi, per la scarsità di mezzi in circolazione. Per questo stupivano di più. E se ne faceva un gran parlare, per giorni e giorni. Aggiungendo sempre nuove notizie. Più passava il tempo più i racconti si arricchivano di particolari macabri. A la batù la testa contra ël veder. A l’è sciapase la testa. A l’è sortie tut ël cërvel...10. Mio padre un giorno raccontò di un collega di lavoro che era caduto nell’altoforno. Lavorava in fonderia mio padre. L’altoforno non si spegneva mai, non era conveniente. Ma in quel caso lo spensero per legge, trattandosi di incidente sul lavoro. A l’an trouvà mac pi na scarpa!11 In questo caso, non si seppe mai se si trattò di un malore con conseguente caduta accidentale, o di suicidio. Il mio papà propendeva per a l’è campase12. C’erano ovviamente passerelle di servizio, in alto vicino alla bocca dell’altoforno, e poteva essere sia l’una cosa che l’altra.
-Che mort!13 Commentò la mamma.

La prima persona morta che vidi, fu il vecchio parroco del paese. Giaceva freddo e pallido nella sacrestia della chiesa di San Giacomo. Tutta la gente faceva la fila per entrare a vederlo. Non so come mi ci trovai in fila anch’io. Pensavo mi avrebbe fatto più effetto. In realtà lo stimolo visivo che mi si presentò fu abbastanza neutrale emotivamente. Una persona molto anziana e magra, pallida ed immobile, composta supina con le mani intrecciate in grembo che stringevano una corona del rosario. Era più raccapricciante l’idea a priori che ne avevo, l’idea della morte, dopo tanto sentirne parlare. L’idea dell’irreversibilità di quello stato. Non eravamo parenti e non lo conoscevo che vagamente di vista, per cui non mi sentii particolarmente turbato da quella visione e da quella morte in particolare. In fondo quell’uomo aveva tanto vissuto essendo arrivato alla soglia dei novant’anni. Ma mi fece riflettere sull’idea della morte in generale. Pensai che un giorno sarei morto io stesso, i miei genitori, i nonni. Questo non mi sarebbe piaciuto. Cominciai a porre delle circospette domande a mia madre e a mia nonna, ricevendo conferma che saremmo un giorno morti tutti, ma di non pensarci, che quel giorno era ancora lontano. Si fa presto a dire di non pensarci. Ma si intuiva che ci pensavano tutti, nessuno escluso. Tutti avevano quel terrore viscerale di morire. Avevano essi stessi più paura di me, che iniziavo appena a pormi la questione. Paura folle di risvegliarsi chiusi in una bara. Come sempre i grandi dicevano una cosa e ne pensavano un’altra.
La morte non era, almeno per chi restava, una faccenda privata, ma un fatto pubblico. Quando qualcuno moriva, tutto il paese andava la sera alla sua casa a recitare il rosario. Per almeno due sere consecutive. Si arrivava tutti prima per confortare i parenti. Poi arrivava il prete e le suore dell’asilo, e si iniziava a recitare una lunga sequela di Ave Maria, intervallate da Pater Noster, Gloria, Requiescat, il tutto in latino. Sembrava che tutti conoscessero questa lingua antica, a giudicare da come lo pronunciavano in fretta, cantilenando. Non se ne capiva nulla. Un’altra lingua da imparare. Per servire messa, partecipare ai funerali come chierichetto, vestito di nero con sopraveste bianca, proprio come il prete, occorreva sapere a memoria preghiere e risposte al sacerdote celebrante. Tutti i miei amici lo facevano. Era, tutto sommato una fonte di reddito. Cinquanta lire per funerale, tolto alle offerte dei fedeli per la chiesa. Due o trecento lire per la benedizione delle case nel periodo pasquale. Ma questa era una faticaccia, un vero e proprio tour de forces. Tutto il pomeriggio in giro per le case della gente a benedirle. Uno di noi portava l’acqua Santa, l’altro la busta con la croce d’orata per le offerte. Tutti vestiti come il prete. Alcune visite, nelle case dei ricchi, duravano più a lungo di altre. Il parroco pareva intrattenersi più volentieri con i facoltosi che con i poveri. Proprio come aveva insegnato Gesù, almeno stando al Vangelo che si leggeva la domenica in chiesa.
Con i poveri era più sbrigativo. Poi si tornava in sacrestia, per svestire i paramenti indossati. Talvolta accadeva che il parroco sembrava dimenticarsi di darci quanto tacitamente ci era dovuto, per lunga consuetudine. Allora ci si attardava a piegare le vesti, girando a vuoto, nella speranza che si rammentasse. È accaduto che siamo tornati a casa a mani vuote. Pazienza se si trattava di un funerale: un lavoro di un’ora e mezza. Ma nel caso delle benedizioni delle case, si era stanchi per aver tanto camminato, salito e sceso scale. Il lavoro di mezza giornata. Una volta qualcuno azzardò a chiedergli la paga. Ce la diede ma ci disse che avremmo dovuto farlo come un dovere di buoni cristiani, non per i soldi. Chissà perché lui, allora, raccoglieva da tutti, tanto che uno di noi era lì apposta, a messa come alle benedizione delle case, per porgere la busta dei soldi. Non era forse un suo dovere ed una sua scelta servire Dio e il prossimo?
Poi c’era il funerale. La salma del defunto rimaneva esposta fino a pochi minuti prima del funerale. Tutta la gente andava nuovamente alla casa, da dove poi sarebbe partito il funerale, a vedere per un’ultima volta il morto. Altre preghiere, rosari e litanie. La cassa veniva richiusa. Arrivava il prete, benediceva la salma, recitava ancora qualche preghiera in latino ed il corteo funebre si avviava, recitando il rosario, verso la chiesa dove veniva detta una breve messa in suffragio.
Il prete con i chierichetti aprivano il corteo. Seguiva l’auto con la cassa. In taluni funerali, soprattutto quelli dei poveri o delle persone molto amate, la bara veniva portata a mano, da quattro persone. Seguivano i parenti del morto, con ai due lati, le donne che recitavano il rosario. Seguiva una folla varia di gente di varia età. In ultimo venivano gli uomini, sempre gli stessi, che laggiù in fondo, lontano da dove si pregava per il morto, parlavano di tutto tranne che della morte del poveretto: dai loro problemi di lavoro, al tempo che, allora come oggi, a fa pi nen le stagion ëd na volta14, alla compravendita di animali e terreni agricoli. Là in fondo, dove il prete non poteva controllare, essendo all’estremo opposto, gli uomini esorcizzavano la morte facendo finta che non li riguardasse, mentre in cuor loro la temevano come tutti.
A volte il prete arrivava in ritardo, sia ai rosari che ai funerali. In questi casi erano le donne ad iniziare la conduzione del rosario. Già perché il rosario era una specie di recita a due interlocutori, il conduttore, da una parte, che aveva il compito di dire una metà dell’orazione e tenere il conto del numero di preghiere recitate, e tutti gli altri presenti, che dicevano la parte restante della preghiera. Tutte le preghiere erano divise a questo scopo in due, da recitare alternativamente. Giunto all’ultima Ave Maria il conduttore, se era nel turno secondo, diceva un Requiem, prima di recitare l’ultima parte, in modo che la controparte sapesse che era finito il ciclo e la prossima preghiera era un Pater Noster. I cicli erano composti da dieci Ave. Per sette cicli. Alla fine delle litanie incomprensibili, ma che tutti sapevano, sempre in latino, rispondere correttamente, non sempre allo stesso modo.
Ho partecipato a innumerevoli rosari e funerali. Ogni volta che moriva qualcuno conosciuto, cioè praticamente tutti quelli del paese. I miei lavoravano tutto il giorno, per cui, quando ebbi l’età scolare, fui incaricato di partecipare ufficialmente a tutti i funerali, come rappresentante della famiglia, affinché i miei non dovessero richiedere permessi per assentarsi dal lavoro a questo scopo.
Ad altri funerali ho partecipato come chierichetto. Eravamo in tre. Uno portava la croce, un altro l’acqua benedetta, il terzo oscillava il turibolo, o incesiere. Posso tranquillamente affermare di aver partecipato, in un modo o nell’altro a tutti i funerali avvenuti al mio paese, durante il periodo della scuola dell’obbligo. Ma l’assiduità è continuata anche oltre, sempre per motivi di rappresentanza. Inutile dire che talvolta avrei fatto a meno di questa incombenza, spesso c’erano alternative migliori, ma -con tuti i sacrifisi che foma për ti15, potrai almeno farci questo favore. Quando non mi convinceva il ragionamento, serviva perfettamente allo scopo, il ricatto morale.
Un funerale al quale non avrei mai voluto partecipare fu quello di un nostro coetaneo. Ai tempi della scuola elementare, nel pieno della nostra passione ciclistica, quando con la bicicletta potevamo raggiungere velocemente qualsiasi posto più o meno lontano con questo mezzo, Sergio Beccaria si trovò con la sua bicicletta su una lastra di ghiaccio, ad una curva in borg ëd Mëlan. Scivolò e cadde battendo il capo. Morì. Si poteva morire non solo da vecchi, ma anche alla nostra giovane età. Fu una cosa terribile assistere al dolore di quella giovane madre, durante i rosari, il funerale. Era lì, Sergio, nella bara, freddo, pallido ed immobile. Il volto leggermente tumefatto. Sembrava incredibile pensare che si potesse morire per una banale caduta dalla bici. Senza scontrarsi con nessuno. Cadere, da solo, come tante volte eravamo caduti tutti, sbucciandoci le ginocchia o i gomiti. Avevamo tutti fatto delle cadute spettacolari, la bici da una parte e noi dall’altra. Una volta mi ero persino scontrato violentemente con Enzo Calundari, durante una corsa da Gonsi a casa nostra. Ero leggermente in vantaggio e chissà perché svoltai a sinistra. La sua ruota anteriore e la mia posteriore distrutte e sorte. Due biciclette di pochi giorni, le prime nostre “ventotto” col cambio, da riparare per poter usare di nuovo la bici. Fu un volo spettacolare, memorabile eppure, a parte il danno alla bici, non ci eravamo fatti nulla. Invece Sergio, per una banale caduta era lì morto e non sarebbe mai più venuto a scuola, all’oratorio a giocare, a servire messa. Non avrebbe più saputo come sarebbe potuto essere il resto della sua vita. Non l’avremmo rivisto più. C’era di che riflettere sulla morte. Non c’erano età predilette dalla monaca vestita di nero recante una falce per mietere le vite, come veniva raffigurata nel gioco dei tarocchi. Sì, gli anziani erano più a rischio. La loro dipartita era statisticamente più probabile. Ciònondimeno poteva accadere a chiunque, anche a noi, mentre eravamo per la strada o salivamo sul pioppo nel cortile. Nacque in me fin da allora, l’idea che c’erano morti più gravi di altre. Anche se, in generale, i congiunti del defunto si disperavano tutti, niente era paragonabile al dolore di una madre che dice addio ad un figlio. Un anziano che avesse vissuto lungamente, era una morte accettabile. Ma quella di un bambino non lo era. Tanto più giovane era, tanto più grave era il lutto. Accettabile era perdere un anziano nonno o genitore. Ma perdere un figlio doveva essere un dolore struggente.
Ma ben presto venni messo alla prova. La morte colpì anche in casa nostra. Il primo ad andarsene fu Parin. Anche se fu una morte annunciata da tempo, visto che egli giacque a letto per una lunga, incurabile malattia, la notizia che non l’avrei più rivisto mi ferì e mi fece soffrire. Di Parin ne avevo uno solo. E poi nonna non fu più la stessa dopo. Ogni sera ormai, i miei genitori, tornati dal lavoro, si recavano in via Pastrengo dai nonni, per vedere come stava. Anche parin Tonino, che abitava in città, veniva ogni giorno. Quel pomeriggio rimasi da solo in cortile in piazza Alfieri, a giocare con una pallina saltellante, di quelle che facevano dei rimbalzi anomali, strani ed imprevedibili. L’avevo desiderata tanto e finalmente ne avevo avuta una, scambiandola con giornalini o altro. Era molto tempo che non mi facevano vedere Parin, perché, dicevano, soffriva molto, a causa del tumore che lo andava consumando.
Tutto era cominciato un giorno che sul volto di Parin, proprio sotto l’occhio sinistro, era apparsa una specie di pustola arrossata, che gli faceva male. La zia Rita, moglie di parin Tonino, che faceva l’infermiera, lo consigliò di fare delle analisi. Cosa fosse davvero successo io non l’ho mai saputo, perché non me lo dissero. Parin andò sempre più peggiorando. Rimase a letto chiuso in camera sua. Vi entrava solo la nonna, zia Rita, i suoi figli. Tutti i grandi insomma. Io non lo vidi più vivo, e durò molto a lungo la sua sofferenza.
Quella sera vidi tornare mia madre insieme a parin Tonino, cosa strana, anomala. Dove era mio padre? Come sempre domandai, ormai per abitudine, come stesse mio nonno. Mi aspettavo la solita risposta di routine, a va gnente bin, a l’ha tanta mal16, invece mio zio mi comunicò, a suo modo, cercando nel contempo di tranquillizzarmi, che Parin se ne era andato, quel pomeriggio. Ricordo che scoppiai a piangere, aggrappandomi alle gambe dello zio, per trovare conforto da quella disperazione in cui ero immediatamente piombato.
Immediatamente pensai alla disperazione della nonna, di mio padre, e guardai a lungo parin Tonino, cercando di capire come facesse a soffrire serenamente, come stava facendo, anzi confortando me. Mi resi conto di non ricordare più il suono della voce di Parin. Era normale, essendo tanto tempo che non lo incontravo, ma ricordo che pensai che fosse una cosa che accade normalmente. Pensai che la voce di chi se ne è andato fosse la prima cosa di cui si perde memoria. Da allora non ho mai più recuperato il suono peculiare della sua parlata. Ho tentato allora di provare, se riuscissi a ricordarmi del suono della voce di tutti gli altri parenti viventi, non presenti in quel momento. Sì li ricordavo. Allora era proprio vero. Anche in seguito, con altre persone defunte, parenti, conoscenti ed amici ho avuto quella stessa impressione.
Sempre, in ogni caso, la prima cosa che dimenticavo, subito dopo la notizia della morte, o nei giorni immediatamente successivi, era proprio la voce. Non penso più che si possa trarre da questo fatto una regola generale valida per tutti, ma, sicuramente è la prima cosa che io dimentico di una persona. Poi anche i tratti salienti del viso iniziano a diventare più vaghi. Sì se la persona tornasse, la riconoscerei prontamente, ma non saprei descriverla che vagamente. Non saprei disegnarla. Dei morti ci rimangono le foto e il ricordo delle loro interazioni con noi. I fatti salienti. Le fotografie sono, molto spesso, lungamente antecedenti al trapasso, spesso non corrispondenti. Del resto nessuno si fa continuamente delle fotografie per avere un catalogo aggiornato in caso di decesso. I parenti scelgono la foto più bella. Spesso questa veniva ritoccata dal fotografo per renderla migliore. Nel caso di Parin, una volta scelta la foto, andammo da un fotografo conoscente di None, sotto i portici. Un parent dij parent17, un tipo particolare che suonava anche la tromba.
Indagai poi a lungo con mia madre, quando restammo soli, su come avesse reagito mio padre alla morte di suo padre. Volevo capire quale fosse la reazione adeguata di un adulto, di fronte alla morte di un genitore. A noi bambini era concesso di piangere, per esprimere il dolore, ma gli adulti non piangevano mai, soprattutto gli uomini. Come facevano allora? Seppi che mio padre si era sentito male ed aveva preso un fërnet. Zio Luigi aveva pianto, e parin Tonino era anch’egli molto controllato, anche se forse soffriva, quanto e forse più degli altri.
Quanto alla nonna era davvero disperata. La vidi finalmente alla sera seduta in cucina ed ancora piangente. Mi aggrappai a lei per quanto consentisse il decoro, con tutta la gente in casa. C’erano tutti i vicini, tutti i conoscenti.
Stranamente mi sentii, dopo aver partecipato a tanti funerali e rosari altrui, orgoglioso del nostro dolore. Il fatto che, questa volta il rosario si tenesse in casa nostra, il funerale fosse il nostro funerale, mi faceva sentire immune dalle debolezze quotidiane. Nessuno poteva farmi del male, offendermi farmi qualunque torto perché, al contrario, in quel momento, eravamo degni di compassione per la perdita subita. Si fecero delle foto del funerale di Parin, e mi vedevo così da fuori, in un momento di grande dolore. Il funerale, quando ti riguardava da vicino, era come una liberazione dai giorni pesanti, dal trapasso in poi, che lo precedono. La routine quotidiana è sconvolta dal dolore, dalle necessità e incombenze particolari del momento. Non si mangia che in modo frugale, non si accende la radio, perché soma ‘n lutto, a va nen bin18, non si ride, non si gioca, perché tutto sembra essere fatto sul palcoscenico, per far vedere alla gente che siamo gente a posto, che ci si comporta come si deve. In casa nessuno parlò per diversi giorni. Fu una tortura che sembrava non dover finire mai. Soffrivo anch’io, per la perdita di Parin, ma tutte quelle sciocchezze sul lutto mi sembravano, francamente, ridicole. Se era ovvio che soffrivo e si doveva, come uomini, evitare di piangere, perché dunque tutte quelle rinunce, la radio, cantare, giocare, il cinema, per fare vedere alla gente che eravamo tristi?
Tutta la tristezza recitata in faccia al mondo non poteva restituirmi il mio Parin. Tutto ciò mi sembrava una inutile messa in scena.
La nonna non fu più la stessa dopo che Parin se ne andò. Noi andammo a vivere con lei nella sua casa. Fu una consolazione per me pensare di stare sempre con lei, tutti i giorni. Fu bello andare finalmente a vivere per sempre in quella casa bella e grande. Essere sempre lì in quel cortile grande, con tanti bambini con cui giocare. Ma non c’era più Parin. Niente fu più come prima. Non c’era più, e non sarebbe mai tornata l’allegria di un tempo. Dopo un po’ di tempo la nonna andò a stare con parin Tonino in città, ed io fui solo nella grande casa, nei pomeriggi quando i miei erano al lavoro.
La morte di Parin segnò la fine di una stagione felice. Che non sarebbe mai più ritornata, la stagione della mia infanzia.
Poi se ne andò anche la nonna, l’unica persona che mi aveva voluto davvero bene.

Che la morte sia un argomento tabù, presso gli umani, lo testimonia il fatto che è una parola che si pronuncia solo raramente, e solo quando si parla di estranei. Nel caso di congiunti si usano vari eufemismi. A l’è mancà19, si è spento, è deceduto, trapassato. Una persona cara, non è mai morta. Forse per rispetto. Dopo la morte ci si riferisce a quella persona anteponendo bonanima20 al nome stesso. C’è un timore reverenziale riguardo alla morte e dintorni. Una paura del dopo. Che sarà di noi, in quel preciso momento e in seguito? Gran parte della paura penso che sia dovuta al fatto che è un momento che si deve, per forza di cose, affrontare da soli. Nessuno può aiutarci in quel momento, nemmeno chi ci ama. Tutte le paure riguardo a questo aspetto della vita, perché la morte è un aspetto della vita, sono fomentate da secoli di educazione cattolica che prospetta inferni e paradisi, e un Dio minaccioso e inflessibile. In realtà, se un Dio esiste, esso non può essere che amore. Non ha senso altrimenti.

San Bartolomeo al mare, giugno 2001, None giugno 2003.