Data creazione pagina: 30/07/2013 1:28

- Titolo: Capitolo 7 - Gli sport.


Praticavamo praticamente tutti gli sport che conoscevamo per sentito dire, visto al cinema, in uso all’oratorio parrocchiale. Il calcio era quello più di moda, ma a me non piaceva.
Le nostre scarpe sportive erano tutte di una sola marca: Superga1. Queste vendeva il calzolaio del paese; probabilmente queste soltanto esistevano sui mercati vicini e lontani. Anche a voler cercare con ël lanternin2, non si sarebbe trovato altro che le scarpe prodotte all’ombra della collina della nostra città vicina. Ve ne erano di diversi tipi, a seconda dei gusti e dei portafogli. Chi prediligeva il calcio, portava quelle nere alte, con dei tacchetti rotondi nella suola di gomma. C’erano quelle classiche, cosiddette “da tennis”, basse in tela blu, con risvoltini, lacci e gomma bianchi, che erano quelle che portavo io, quasi tutto l’anno. C’erano anche le “tennis” completamente bianche, ma a së sporco subit3, quindi...blu. Non che giocassi preferenzialmente a tennis, che era, e sarebbe rimasto uno sport d’élite, riservato a pochi, ma semplicemente erano le più economiche. C’era poi il tipo cosiddetto ‘da pallacanestro’, alte, bianche con dei dischetti in gomma in corrispondenza del malleolo, talvolta con risvolti rossi, che ho sempre desiderato perché mi piacevano addosso ad altri, sembravano quasi un segno di distinzione. C’era, di queste ultime, anche la versione blu, con elementi bianchi, dischetti da malleolo compresi. Furono queste che riuscii ad ottenere, dopo anni di insistenza e trattative. La scusa per i rifiuti era che, essendo troppo alte, a fan sudè ij pe4. Perché tutte queste scarpe erano le nostre scarpe da bella stagione, da mincadì5, e non le usavamo solamente per fare sport, ma le indossavamo da mattino a sera, per andare a scuola, all’oratorio, a benedizione. Si toglievano solo per andare a letto, e, a fine stagione, avevano un olezzo che si sentiva da lontano. Era sempre un piacere intenso, poter sfoggiare ad inizio stagione, perché il piede era cresciuto e le vecchie scarpe non andavano più, nonostante la precauzione di acquistarle con un avanzo di almeno un centimetro oltre l’alluce, un paio di nuove scarpe sportive. Così senza saperlo, ci preparavamo a diventare consumisti.

Si sono passati periodi in cui eravamo patiti di sport diversi, e, questi sport del momento riempivano i nostri pensieri, i nostri progetti e tutto le nostre estive giornate di vacanza. Il più in voga e sempreverde è ed è stato il gioco del calcio, al quale io non sono però mai riuscito ad appassionarmi veramente. Devo dire, ad onor del vero, che ci ho provato. Ci ho provato davvero e con impegno, senza però conseguire mai competenza e vero interesse. Il problema era che proprio questo fatto dell’interesse, si dava per scontato. Non possedendolo, si passava per una mosca bianca. La mancanza di passione faceva di me un giocatore mediocre e poco ricercato. A dire il vero non sono mai eccelso in nessuno sport, vuoi per la onerosità della dedizione ad uno sport, vuoi per la mancanza di chiarezza di vedute, sul fatto che mi interessasse davvero applicarmi. Ma il calcio sembrava rendere tutti altamente interessati e competenti. La competenza nel calcio non andava intesa solamente nella conoscenza delle regole e nel possesso delle relative abilità. Nel calcio la competenza sembrava implicare una conoscenza da volume enciclopedico. Bisognava conoscere il nome di tutti i giocatori di tutte le squadre, conoscere tutti i fatti salienti, di tutte le partite, anche degli anni addietro, i termini tecnici del gergo. La competenza implicava un lavoro immane di dedizione a tutto ciò che riguardava il calcio, un lavoro grandemente al di sopra di tutte le mie possibilità. Così decisi, non appena me ne resi conto, che non valeva la pena, e gettai la spugna. Ma prima di arrivare a questa sana decisione, mi impegnai e mi applicai, nel tentativo di essere gradito agli altri. Imparai le regole e tentai di giocare. Con scarsi risultati. Tentai di tenermi informato dei fatti. Ma facevo confusione tra un avvenimento ed un altro, un nome ed un altro. Dovevo farlo. Perché mi sentivo un reietto, tagliato fuori. Toccai il fondo una volta che Mondo Verdi mi interrogò, chiedendomi di che squadra fossi. Perché occorreva “tenere” per una squadra. La non appartenenza, non era semplicemente prevista. Che fare, se non scegliere a caso per non fare diventare una domanda come questa un affare di stato, o peggio, un vero e proprio caso clinico di “non sportività”? I tifosi di squadre diverse erano rivali accaniti. Si ingiuriavano e si sfottevano in continuazione. Bisognava scrivere sui muri, con gessetti rubati a scuola, oppure pezzi di mattone crudo, “W TORO, M JUVE”, con una “M” che non era una “M”, bensì una “W” rovesciata, che voleva dire “abbasso”, al contrario della “W”, che significava “Evviva”. Risposi a Mondo che ero della Juve. Lui era del Toro. C’era una rivalità ancora più accesa fra tifosi delle squadre diverse della stessa città. Per tenermelo buono, per via della televisione e della TV dei ragazzi, inzuccherai la pillola dicendo, o forse fu lui ad imbeccarmi, chiedendomi se non fossi mai stato del Toro, che sì, un tempo “tenevo” per il Toro, quandi a i-era ‘l Turin veij6, solo che questa affermazione era una gaffe tremenda, che suscitò l’ilarità del mio compagno di giochi, per il semplice fatto che l’incidente accadde prima della mia nascita e quindi, l’affermazione stessa era paradossale. La presa in giro per questa mia infelice sortita durò a lungo, con messa a conoscenza di bambini e adulti da parte di Mondo. Fu allora che iniziò a sorgere in me il dubbio sull’utilità della mia applicazione in quel settore. Quella del calcio era una vera e propria ossessione, non si parlava d’altro. Si era davvero tagliati fuori a disinteressarsi del calcio. Persino gli adulti si scaldavano molto a questo proposito. Per fortuna mio padre si interessava soltanto quel che bastava per giocare la schedina, le due colonne del totocalcio in società con Renzo Daviso, suo amico e nostro vicino. Devo forse allo scarso interesse di mio padre, questo mio totale disinteresse. Oggi vedo chiaramente che sono tutti folli coloro che si incarogniscono per uno sport vissuto da spettatori, come fanno i tifosi del calcio.
Venne l’epoca del tennis, della pallavolo e pallacanestro. Il cortile di via Pastrengo si trasformava di volta in volta in campi adatti a questi tipi di sport. Tutti i ragazzi insieme, con materiali di recupero, costruivamo di volta in volta le attrezzature necessarie per lo sport del momento. Il padre di Marcello Marini che lavorava a Torino, era una fonte inesauribile di materiali di recupero, che portava a casa scegliendoli fra gli scarti delle lavorazioni della sua azienda. A volte erano semplici pannelli di panforte di truciolato compresso, a volte lastre di gomma varia, o corde in materiale sintetico. Tutto ciò diventò, con la cooperazione di tutti, di volta in volta, la rete del campo da tennis o da pallavolo, a seconda dell’altezza alla quale era fissata, intrecciata con pazienza certosina da tutti noi –tanto che, a volte, era più l’interesse suscitato dal creare attrezzi e condizioni per lo sport da praticare, che non lo sport in se’; diventò racchette da tennis o da ping-pong; diventò canestro per il basket e tavolo da ping-pong. Come ho già detto il recupero era allora una dote innata nella gente e nel garage di mio nonno un giorno si materializzò un biliardino completo di palle d’avorio di vari colori e stecche. Le palline da tennis si trovavano nei pressi dei campi da tennis, quelli veri, dove giocavano i ricchi. Talvolta qualche tiro lungo superava le reti di contenimento, finendo fra le sterpaglie nei pressi del Sangone. Quei giocatori là non si curavano nemmeno di recuperarle, ed il luogo era una vera miniera per noi. Ci vergognavamo un po’ a cercarle mentre c’era qualcuno che giocava nel campo. Ma in fondo, come novelli Robin Hood, toglievamo solo ai ricchi in favore di noi bambini poveri. Il campo da tennis vero era soltanto un sogno per noi. La quota di iscrizione annua sarebbe bastata a mantenere la nostra famiglia per sei mesi. Ma noi avevamo spirito di iniziativa da vendere, ma, soprattutto, sapevamo contentarci del cortile di via Pastrengo.
Ci fu poi il periodo delle Olimpiadi. Questa mania, come altri giochi virili, veniva come già detto dall’oratorio parrocchiale. E allora si organizzava in piccolo, fra i bambini presenti del condominio, gare di atletica leggera, con premi “in natura”. Stabilivamo “quote di iscrizione” in biglie o figurine, ed il montepremi così accumulato, veniva diviso fra vincitori.

Ma la vera mia passione sportiva, anche se questa non era considerata dai più, una vera attività sportiva, perché definita “sedentaria” e noiosa, fu la pesca lungo i nostri fiumi e torrenti, alla quale mi iniziò, in età scolare, mio padre. C’era qualcosa di magico in quello svegliarsi prima dell’alba, compiere sommessamente i gesti del primo mattino, lavarsi, fare colazione, vestirsi, partire, senza svegliare la mamma, con una sorta di complicità fra “uomini”, per andare a fare una cosa che era solo maschile –almeno allora. Andavamo sempre a pesca con Angelo, un amico di mio padre, più anziano di lui di qualche anno, vedovo, che abitava i caseggiati di S.Anna, poco lontano da casa nostra. Lui possedeva soltanto una lambretta, con la quale andava lo stesso a pesca, ma se andavamo tutti, preferiva venire con noi, in quanto mio padre aveva ottenuto la patente di guida, ed aveva acquistato una Fiat seicento usata, con la quale era più agevole portare tutta quanta l’attrezzatura.
Si preparava tutto la sera prima. Le montadure7, le canne, gli stivali, le esche, i panini e le bevande. La pesca dava questa possibilità, questa anticipazione del piacere della pesca stessa, che si poteva provare la sera, dopo cena, quando, seduti al tavolo di cucina, con il lampadario al centro del tavolo abbassato per vederci meglio8, si annodavano gli ami ai terminali di filo sottilissimo, e si avvolgevano attorno a pezzi di sughero. Oppure si preparava la lenza completa, attaccata alla canna, con galleggiante, piombi e terminale.
Quando ero molto piccolo, vedevo mio padre tornare dalla pesca e chiedevo sempre di andarci anche io. Ma avrei dovuto compiere l’età necessaria per poter ottenere la licenza di pesca. Quando tutto questo accadde, ebbi la mia licenza nuova, con la fotografia, che rimirai a lungo, prima che fosse l’ora di andare davvero con lui, anticipando avventure favolose, catture esemplari, i primi pesci pescati da me, che avrei consegnato con orgoglio a mia madre, che li avrebbe puliti e li avremmo mangiati. Era quasi un rito di iniziazione, memoria di un retaggio atavico, l’essere ammessi al ruolo, sia pur limitato, di procacciatore di cibo, in un certo senso. Non avrei mai potuto immaginare, ne’ vi riesco oggi, di andare a pesca, come è di moda adesso, per liberare i pesci non appena catturati. Pescare e mangiare i pesci pescati è un tutto inscindibile. Tormentare i pesci senza necessità è proprio l’esatto contrario dell’atteggiamento ecologico che questi pescatori ritengono di avere. Sarebbe ora che l’umanità tornasse al vero rispetto della natura, anziché giocare all’ecologia, da un lato, distruggendo tutto dall’altro. La notte precedente la mia prima battuta di pesca non dormii affatto. Mi succedeva sempre così, prima di un giorno importante: la partenza per il mare con Parin Tonino, la vigilia di Natale, per l’attesa dei regali.
La partenza ed il viaggio avvenivano quasi in silenzio, data l’ora. Venivano pronunciate solo parole strettamente necessarie, data l’ora antelucana. Dal finestrino del sedile posteriore a quello del passeggero, disturbati solo dalle punte delle canne e dal guadino di Angelo che profumava di pesce, sfilavano panorami di luoghi e paesi che mi sarebbero diventati familiari crescendo. Adesso non mi interrogavo più sui confini tra un paese e l’altro, perché avevo ormai capito il trucco ed ero concentrato sulla giornata di pesca che mi attendeva. Nell’auto aleggiava, fra l’odore delle prime sigarette degli adulti, vago e dolciastro, l’odore dei gianin9.
Giungevamo sul posto che albeggiava appena. La bruma leggera ristagnava alta sulla superficie del fiume. Il fiume era quasi sempre il Po, salvo rare eccezioni. Poteva essere Carignan, Carmagnola oppure Villafranca, La Loggia, Moncalieri. Le stesse acque, lo stesso fiume in posti di pesca diversi. L’odore era quello della natura vicino ai fiumi: sentore di umido e di vegetazione. In alcuni luoghi era forte l’odore ëd la nita.
Le nostre canne erano tutte infilate in sacco di tela oblungo di colore marrone, che si poteva portare a spalla grazie ad una correggia di tela spessa. Camminavamo in silenzio dall’auto al luogo di pesca. Scelto il posto, aprivamo i sacco e preparavamo le canne, montandole in tutta la loro lunghezza.
Mentre Angelo e papà possedevano canne con anelli e mulinello, a me toccò, almeno all’inizio, la canna fissa. Era, dicevano, un passaggio necessario, quello della canna fissa, per imparare a destreggiarsi, a lanciare la lenza nell’acqua, a dare la ferrata. Forse era vero, ma io ho sempre avuto l’impressione, come per le armi, di avere uno strumento inadeguato rispetto a quello degli adulti. La canna da pesca è, forse, ancora di più assimilabile al membro maschile, sia per la forma, sia per il modo in cui si tiene, quando la si usa: appoggiata all’altezza dell’inguine dal lato della mano dominante, nel caso mio la destra. Angelo invece, era mancino. Nonostante il fatto che questo tipo di canna servisse per imparare, feci dei grandi ed insolubili garbugli con la lenza, almeno all’inizio, dando del gran lavoro manuale a mio padre, e lavoro mentale a me con i scialodatogesùcristo.
Con questa canna catturavo molti pescetti piccoli, che erano preferibili da mangiare, almeno per me, ma non costituivano certo l’orgoglio del giovane pescatore, a fronte delle prede di Angelo e papà, che potevano essere quaiass10, trote, carpe, eccezionalmente anguille…ed anche qui, non si può negare l’analogia con la frustrazione sessuale!
Vedevo saltare grossi pesci al centro del fiume, dove io, con la mia canna fissa non potevo arrivare a pescare, così la mia passione si fondava sulle aspettative, di quando avrei potuto fare anche io come i grandi. All’inizio fu la pesca a passata, con galleggiante. Occorreva lanciare la lenza un poco a monte e lasciarla andare fin dove era possibile, a valle. Quando il galleggiante segnalava l’abboccare del pesce occorreva ferrare. Nell’attesa si accumulava tensione, che, almeno nei primi tempi, produceva vistose ed esuberanti ferrate, tali da far arrivare la lenza sugli alberi alle mie spalle. Questa stessa cosa successe una delle prime volte che abboccò un grosso pesce. Non sapevo cosa fare e me ne stavo lì, con la mia canna nella mano tremante, in balia dei guizzi e scossoni del pesce, il quale tirava così forte che il galleggiante era scomparso nell’acqua verdastra. Il cuore mi batteva forte, ad un ritmo accelerato. Mi pareva di avere una consapevolezza più grande: era l’effetto adrenalinico dell’eccitazione da cattura. Era questo il bello della pesca. Per questo si amava la pesca, si faceva la licenza, ci si svegliava presto, si pazientava per ore, sotto il sole cocente o al freddo. Nessun altro sport mi ha mai dato questo ad eccezione forse dello sci, una gara di discesa. Durò pochissimi secondi. Non feci nemmeno in tempo ad attirare l’attenzione di mio padre –gridare, in riva ai fiumi era, ovviamente, vietato, a meno che non si stesse per annegare- che mi ritrovai, col pesce ormai sganciato, ad osservare la lenza sul salice dietro di me. Forse ero dotato di grande pazienza per appassionarmi a questo sport, che richiedeva a me, giovane ed inesperto, di passare ore a districare garbugli di filo sottilissimo, ricostruire, legare ami e infilare zavorre di piombo. Più grande avrei riflettuto che la pesca era una abilità zen, proprio come lessi in quel libro sul tiro con l’arco11, un’altra attività per me piena di fascino, ma difficile da praticare, essendo impossibile, con i mezzi di allora, acquistare archi e frecce, che, comunque, era più divertente fabbricarsi da soli con legni e fronde di fortuna.
In quei nostri luoghi di pesca, transitavano allora grossi barconi per l’estrazione della ghiaia e della sabbia dal letto del fiume. Questa attività, oltre procurare materiale edile, aveva il grosso pregio di creare profondi fondali nei fiumi, abitat ottimale dei grossi pesci. Oggi, gli ecologisti dell’ultimo minuto, hanno vietato questa attività, col risultato che non ci sono più pesci nei nostri fiumi di allora, e i paesi vicino al fiume sono spesso allagati. In compenso si creano, dato che la ghiaia e la sabbia servono comunque, enormi laghi artificiali nei pressi dei fiumi stessi, che arrivano in profondità fino alle falde acquifere.
Il passaggio dei barconi produceva delle onde che rendevano impossibile valutare l’abboccata del pesce tramite il galleggiante. Era il momento di fare una pausa, fare merenda o una pisciatina.
Una volta, presso Carignano, mi inoltrai, per arrivare più al centro del fiume, su una lingua di sabbia creata dallo scarico d’acqua della cava d’estrazione. In un attimo mi ritrovai immerso nella sabbia fine, una specie di sabbie mobili, fino alle ginocchia. Questa trappola mi avrebbe inghiottito, se non fosse intervenuto mio padre a tirarmi fuori con un bastone al quale dovetti aggrapparmi per venire fuori. Il fiume era un luogo pericoloso. Anche il fatto dei fondali profondi costituiva pericolo. Cadervi dentro, appesantiti da attrezzatura e stivali sarebbe stato fatale. Fu la raccomandazione prima di tutti gli adulti, quella di stare in luoghi sicuri.
Al ritorno, soprattutto se era stata una buona giornata di pesca, gli adulti erano più loquaci. Soprattutto Angelo, che era un buon narratore. Parlava più che altro di pesca, di metodi e tecniche che apprendeva da un suo collega di lavoro, che Angelo riteneva un grande maestro di pesca. Parlava anche di altro. Io, dal sedile posteriore, me ne stavo ad ascoltare, cercando di capire e di imparare ogni cosa, della pesca e della vita. Raramente venivo interpellato ed ancor più raramente mi era consentito di dire la mia o domandare, per chiarire dubbi di pesca e di vita. Ma, se si voleva imparare qualcosa, di pesca o di vita, era il metodo migliore, quello di stare ad ascoltare. È una sorta di umiltà, che può atteggiare ad apprendere, che oggi non va più tanto di moda. Mio padre ed Angelo, furono maestri di pesca e di vita. Ma soprattutto Angelo, di pesca. Angelo possedeva lo zen della pesca, e non tornava mai a casa senza qualche preda di rilievo, anche quando mio padre ed io avevamo una giornata magra.
Poi ci furono altre pesche: con la camolera12, con il cucchiaino, a fondo. Fu solo dopo che ebbi il mio primo mulinello da pesca, ordinato insieme ad una canna da lancio in due pezzi di fibra di vetro, con i punti raccolti da tutta la famiglia, dei prodotti Mira Lanza, che fu possibile fare questi altri tipi di pesca. Un grosso balzo in avanti nella qualità del divertimento nella pesca sportiva.
Una volta fui iniziato alla pesca notturna all’anguilla, nel fiume Po, in quel di Moncalieri, fra i due ponti, della ferrovia e della strada. L’anguilla si pescava con il verme o con pesce morto infilato in un grosso amo, a fondo, lasciando la canna infissa in un paletto, con un campanello sulla punta, che le vibrazioni dell’abboccata avrebbero fatto suonare. Siccome non ero pratico, la mia lenza fu lanciata da mio padre. Fu una pesca magra per tutti. Ad un certo punto suonò il mio campanello. Ragazzi, fra tutti, solo quello mio. Ma l’eccitazione fu di breve durata: siccome per me era la prima volta, fu mio padre a recuperare l’anguilla, che peraltro non era nemmeno tanto grande. Fu l’unica cattura di quella notte, e non dimenticherò mai questa sporca faccenda della pesca all’anguilla.
Ma amai ed amo tuttora la pesca, un’attività più piacevole del lavoro e della scuola, anche solo per stare in mezzo alla natura, lontano dalle folle, da solo con i propri pensieri. Almeno, da grande, la pesca è stata un modo per poter ottenere tutto questo.