Data creazione pagina: 30/07/2013 1:25

- Titolo: Capitolo 6 - L'incontro con le istituzioni: asilo, scuola, chiesa, oratorio.


Ad un certo punto, troppo presto, i giorni paradisiaci con i miei nonni si accorciarono drasticamente. All’età di tre anni occorreva andare alla scuola materna, a l’asilo. Non riuscivo a farmi una ragione del fatto che la mia vita non potesse continuare come prima. Una delle cose più frustranti dell’essere bambini è che non si è padroni della propria vita. Si è in balia degli eventi. E gli eventi sono decisi a capriccio dagli adulti. E poi sono i bambini ad essere additati come esseri capricciosi. Fino ad allora c’era stata una routine nella mia vita che andava bene: un po’ a casa, quando c’erano i miei genitori, dai nonni, quando non erano presenti papà e mamma, o non potevano occuparsi di me. Perché dunque cambiarla?
Un bel giorno –un tristissimo giorno- mia madre mi accompagnò dalle suore in via Maria Teresa Fornasio, e lì mi lasciò. In realtà non accadde così all’improvviso. Me lo disse più volte, che l’ora stava per arrivare. Non tenne mai conto del fatto che io dicessi di non volerci andare. Io volevo continuare a stare con i nonni. Acquistò i grembiuli a quadrettini azzurri e bianchi che si abbottonavano da dietro, nella merceria proprio sotto casa nostra, e il cestino per la merenda al mercato. L’abbottonatura a tergo sembrava voler dimostrare la mia, la nostra, perché erano tutti fatti così, sottomissione eterna agli adulti. Un grembiule che si abbottona da dietro non può essere indossato o tolto a capriccio di chi lo deve mettere, ma a discernimento dei grandi, che devono agire sui bottoni e sulle asole, inaccessibili alle nostre mani. Questo mondo di adulti, che mi trovavo intorno, senza peraltro averlo scelto, non faceva nulla per facilitare l’apprendimento delle capacità che trasformano un bambino in un adulto. No, pareva voler complicare la nostra vita con ostacoli inutili ed assurdi. Quale sarto di buon senso creerebbe una giacca con l’abbottonatura sulla schiena? Chi, adulto o bambino che sia, sarebbe in grado di abbottonarsi tale giacca? La logica suggerirebbe, visto che i bambini sono esseri umani con capacità ridotte, o limitate, di studiare per loro, chiusure più facili. No. Questo grembiule con l’abbottonatura posteriore era –ed è- un simbolo della sottomissione alle istituzioni. Gli adulti sapevano benissimo, fin da prima, al contrario di noi piccoli, che non sarebbe stato piacevole, per noi, andare all’asilo. Sapevano che avremmo tentato di ribellarci, e che l’avremmo fatto cercando di toglierci la divisa, come il disertore, che, la prima cosa che fa, è cercare abiti civili, che lo rendano irriconoscibile ai più. In fondo, la divisa è un simbolo: la mente umana fa presto a confondere il simbolo con quello che rappresenta, ad agire sull’uno, per ottenere effetti sull’altro. I bambini sono i più soggetti a queste confusioni, oppure, forse, intuiscono il legame nascosto del simbolo con la realtà. Gli adulti sapevano, che la faccenda non ci sarebbe piaciuta, e ci hanno raccontato un sacco di balle sull’opportunità di giocare con i coetanei, andare sull’altalena, divertirci un casino.
E quale contromisura migliore, per la nostra possibile ribellione, se non qualcosa di simile alla camicia di forza per i matti, che ovviamente non può essere tolta dal soggetto in questione?
Quando mi resi conto di quel che stava accadendo, che mi avrebbe lasciato fra quelle suore severe e bambini sconosciuti, piansi. Piansi per mettere a prova il cuore di mia madre. Piansi ogni mattino, nei primi tempi, ad uso e consumo di mia madre, finché restava lì. Iniziavo non appena partiti da casa, per tutto il tragitto, implorando che mi portasse dai nonni, perché lì non mi piaceva. Le suore si comportavano come se sapessero gestire il mio pianto e la mia disperazione, tirandomi via dalle gonne di mia madre, spingendola ad andarsene subito, che era meglio, ci avrebbero pensato loro.
Dopo lo sconcerto dei primi tempi, iniziai addirittura a vantarmi del fatto che all’asilo ci andavo volentieri e non piangevo, con tutti quelli che chiedevano se andavo già all’asilo. Questo volevano sentirmi dire gli adulti, ad iniziare da mia madre, costava poco farli contenti. Nello stesso tempo volevo far credere, agli altri, ma soprattutto a me stesso, di andare volentieri all’asilo, poiché ammettere il contrario, sarebbe stato ammettere la mia impotenza di fronte agli eventi. Non sentirsi padroni del proprio cammino, e riconoscerlo, è fonte di ansia e stress.
Un adulto di quei tempi sarebbe stato orgoglioso di aver “raddrizzato” un bambino. Allora ci consideravano potenziali delinquenti, da rimettere sulla retta via. Io però direi che avevano già iniziato a piegarmi. Uccidere il senso di autodeterminazione, è il primo passo per uccidere l’autostima. Poi si può passare tutta una vita a tentare di farla resuscitare. Può accadere di non farcela o di fare molta fatica, impiegando tutte le proprie energie a questo scopo.
In realtà, una volta partita mia madre smettevo subito di piangere, perché in effetti qualche cosa di interessante da fare c’era anche all’asilo, insieme a tutte le altre cose noiose, e, comunque, era del tutto inutile piangere dopo che, chi avrebbe potuto portarmi a casa, se n’era andata, nonostante la mia disperazione. Piangere per commuovere le suore era del tutto inutile. Quelle streghe, a volte erano esse stesse causa di altri pianti miei, nostri. Perché piangevano proprio tutti, all’arrivo al mattino, ed io un pochino credo alla statistica. Insomma, se tutti quanti gli interessati si lamentano, quel luogo non era esattamente l’Eden. Inoltre dovevo sopravvivere. Per brutta che fosse la situazione, qualsiasi bambino, di allora come di oggi, sa bene quanto poco sia costruttivo piangersi addosso e commiserarsi, continuando a rimestare i lati peggiori. Molto più utile cercare di focalizzarsi sugli aspetti positivi, cercando piuttosto di scordare tutto il resto. Così, alla faccia di qualsiasi ribellione, come dei kapo dei lager, ridevamo di chi arrivava dopo di noi, piangendo. Dei veri collaborazionisti del sistema adulto.
Intanto si conosceva altra gente. Coetanei con i quali avremmo fatto un bel tratto di strada assieme nella vita. Tutti uguali e tutti diversi. Ciascuno con le sue preferenze, le sue idiosincrasie, il suo odore particolare. Tutti con una grande voglia di scoprire il mondo giocando. Bene o male, fra ore noiose di preghiera e insegnamento, c’erano pur sempre dei momenti di svago. Si giocava in cortile, quel cortile dalla ghiaia bianca con sassolini levigati delle dimensioni di una biglia, che produceva uno scricchiolio unico, camminandovi sopra e correndo.
Lì c’erano altalene di ferro a mezzaluna, con seggiolini per dodici bambini, sei per parte. Due bambini stavano in mezzo in piedi, per assicurare l’oscillazione. Talvolta i piedini finivano sotto la curva schiacciati dal peso dell’altalena e dei bambini. Nei sedili centrali non v’era grande ampiezza di oscillazione, ma in quelli più esterni si andava, alternativamente, molto in alto e poi a toccare il terreno con la seggiola, con grande sollecitazione del sistema vestibolare. Eccitazione che era, nel medesimo tempo, entusiasmante e paurosa. Il ritmo dell’oscillazione era segnato dalle urla dei bambini sui seggiolini più esterni e dal fruscio della ghiaia sotto il semicerchio del dondolo. Meno divertente la giostra perché non assomigliava affatto a quelle che venivano in piazza per la festa del paese, ma con un po’ di fantasia, chiudendo gli occhi, andava bene lo stesso. Il vero problema era che eravamo in tanti ed i posti a sedere limitati. Bisognava fare i turni. Ma l’essere in tanti era già di per se’ una festa, e si inventavano subito altri giochi a terra. C’era l’immensa attrazione di tutto quello spessore di ghiaia. Uno strato di circa dieci centimetri per costruire strade e montagne, ma, soprattutto, per tirarcela a manciate. Tutte cose rigorosamente proibite. Sembrava che la ghiaia fosse sacra, come la cappella per pregare. La ghiaia non si deve tirare. Non si deve spostare, ammucchiare eccetera, come nella cappella non bisognava parlare, solo pregare. In realtà, se ci avessero lasciato fare, ci sarebbe stata ghiaia ovunque, sui marciapiedi, nei locali interni, fuorché nel cortile. Tutto il lavoro di tenere in ordine il cortile e le stanze interne, sarebbe poi gravato sulle spalle di suor Emilia, che in verità aveva già le giornate piene: ella era, fra tutte le suore, quella addetta ai lavori manuali più pesanti, dalla cucina, alle pulizie, alla cura dell’orto e del giardino. Forse scontava qualche sorta di punizione per peccati commessi.
Per ogni infrazione scoperta c’erano punizioni adeguate. Dallo stare in un angolo, col muso rivolto al muro, mentre sentivi tutti i compagni ridacchiare in sordina, a vere e proprie punizioni corporali, allora molto di moda. Le punizioni corporali andavano da scappellotti a traino del soggetto per le orecchie, allo stare inginocchiato sulla ghiaia, alle bacchettate sulle dita, a seconda della gravità del reato.
D’altro canto la ghiaia ti entrava nelle scarpe e faceva soffrire. Fino a che non riuscivi a togliertela era doloroso camminarci. Il gioco era l’attività per noi più divertente. Per questo era anche la più importante. Non era affatto vero, come pensavano i grandi, che il gioco fosse una stupida attività infantile senza scopo. Non eravamo affatto stupidi. Nel gioco esercitavamo la nostra fantasia e la nostra intelligenza. Imparavamo. Il mondo era complicato. Occorreva una risposta specifica ad ogni situazione diversa. Non era semplice reagire in modo adeguato. Eravamo solo all’inizio, e ci stavamo esercitando. I grandi invece sembravano prediligere attività noiose e ripetitive. Iniziò all’asilo la scuola vera e propria. Ragazze più grandi facevano volontariato per farci da maestre. Su dei quaderni a grossi quadri disegnavamo pagine intere di aste, verticali, orizzontali od oblique, quadri, cerchi. Una cosa noiosissima. Quando ne hai fatta una riga la bocca sembra voler sbadigliare da sola, per la noia, la grande noia della ripetizione. La mente tendeva ad andare altrove. Pensare che avevamo tutti una grande voglia di imparare, imparare tutto. Imparare come era strutturato il mondo, la società, imparare la scrittura, il disegno, la musica. Avremmo imparato qualsiasi cosa, se solo ce l’avessero resa divertente. Non c’era una ragione apparente per quelle noiose pagine di aste. Dicevano che fosse propedeutico alla scrittura. Negli ultimi anni d’asilo si facevano pagine di lettere tutte uguali. Avevamo avanzato ipotesi le più disparate sulla scrittura. Che ad ogni segno sulla carta corrispondesse un suono preciso, una sillaba, una parola, mai avremmo immaginato che ogni lettera fosse una scomposizione così astratta ed arbitraria del suono, della sillaba1. Ci ritrovammo più grandi a scuola, con l’interesse per la scrittura ormai sotto le suole delle scarpe, a rifare da capo le stesse pagine di astine. Con la maestra che si dimostrava stupita, di quanto fossimo bravi ed ordinati, nei nostri quaderni di aste, ma non si rendeva conto di quanto fossimo ormai annoiati e disinteressati. Ci avevano mentito sul fatto che si andasse a scuola per imparare. La chiave dell’apprendimento è un genuino interesse per ciò che si va studiando. A noi l’interesse l’avevano già ucciso. Ma intanto ripetevamo, come a vantarci d’aver già fatto la guerra, che eravamo bravi perché eravamo andati all’asilo. Ancora riduzione della dissonanza cognitiva.
Pensavamo che la scuola ci insegnasse a scrivere la nostra lingua, quella che parlavamo in casa, nei negozi, con gli amici. Invece fummo costretti ad impararne un’altra, per poter poi scrivere quest’ultima. All’asilo, a scuola incontrammo gente che non parlava il nostro dialetto. La madre superiora e suor Emilia erano di origine veneta, parlavano con noi solo italiano. Suor Maria Ada era troppo aristocratica per mostrare qualsiasi inflessione dialettale, figuriamoci parlare piemontese. In seguito poi, a scuola, nella sciarada di maestri e maestre che cambiammo, quasi tutti parlavano l’italiano con una inflessione chiaramente diversa dalla nostra. Negli uffici postali, in comune avevano tutti quegli accenti. Capimmo di essere, o stare diventando una minoranza linguistica, e cominciammo a vergognarci un poco del nostro accento palesemente piemontese, quando parlavamo italiano. Le nostre “e” e le nostre “a” troppo enfaticamente larghe, o quasi mute, a seconda della parola, le nostre bizzarre “u” francesi, erano imbarazzanti, ma era impossibile sbarazzarcene, perché fra di noi, a casa, continuavamo a parlare in piemontese. Non ci veniva di parlare fra noi in italiano. Ma incontrammo sempre più amici che lo parlavano. Anche figli di piemontesi, educati a parlare italiano dai loro stessi genitori, i quali avevano sempre dialogato con loro in questo modo. Questi ultimi lo parlavano spontaneamente. Anzi non sapevano neppure parlare il nostro idioma. Erano ridicoli se tentavano di farlo. Non avevano padronanza con gli accenti. Fu giocoforza rassegnarsi a dover imparare l’italiano, parlato e scritto. Nessuno ci avrebbe mai insegnato a scrivere la nostra lingua. Nessuno ci avrebbe mai insegnato le regole grammaticali e la sintassi del nostro dialetto. Scoprii solo nella maturità, che noi, al contrario delle persone di origine meridionale, usavamo, nei nostri temi, nei racconti, solo il passato prossimo, giacché il piemontese non possiede, chissà perché, il passato remoto.
All’inizio facemmo ciò che fanno tutti quelli che si accingono ad imparare una lingua: pensavamo in dialetto e traducevamo. Anche se in seguito, molto presto, scoprimmo che era una strategia pessima, per lo scopo prefisso, era pur sempre un modo per iniziare. Solo i bambini possiedono in misura così grande quella meta-capacità che è l’abilità innata di imparare ad imparare. Gli adulti di quei tempi rifiutavano categoricamente di fare questo tipo di sforzo, adducendo a scusante -mi son trop veij për amparè…2, ma non si facevano scrupoli di richiedere a noi qualsiasi sforzo e tipo di adattamento.
Il metodo delle traduzioni del pensiero dava luogo, a volte, a strafalcioni tremendi. Volendo dire o scrivere, ad esempio, -A Parin a ij smia ca voëla fiochè, përché i cornajass a braijo3, finivamo per dire: -A Padrino somiglia che voglia fioccare, perché i cornaiassi bragliano, frase che contiene una miriade di parole che sarebbero state sottolineate con la parte rossa della matita bicolore dei maestri.4
Ci dicevano che “padrino” andava minuscolo ed andava determinato con l’articolo o con il pronome possessivo, mentre noi, che in piemontese parlavamo proprio così, credevamo che quando si diceva Parin, fosse ben determinato chi veramente intendevamo. Imparammo ad usare “sembra” al posto di “somiglia”, in quanto ritenevamo fosse più italiano di quest’ultimo, ma eravamo ben lungi dall’usare “ritiene” o “pensa” o, addirittura “suppone”, in quanto questi termini non potevano esistere nel nostro bagaglio culturale.
Quanto a “fioccare” era ritenuto un “piemontesismo”, salvo poi scoprire che questo termine era usato da poeti, affatto piemontesi, in poesie e prose famose.
Il resto era frutto di un ragionamento induttivo: avevamo scoperto che determinati fonemi del dialetto, si traducevano spesso in specifici fonemi della nostra lingua. Così applicavamo quasi inconsciamente la regola, laddove mancavano conoscenze specifiche. Se ël lait ca quaia diveniva il latte che caglia, qualunque essere ca braia5, per assonanza diventava che braglia, plurale bragliano. Se ij ass si traduceva con gli assi, perché mai non doveva essere lo stesso per i corvi? Tutto il resto dovevamo impararlo, ed avrebbero dovuto insegnarcelo prima che sbagliassimo. I bambini imparano presto, soprattutto se colti in fallo. Ma una consolazione era che i nostri adulti, facevano gli stessi strafalcioni quando erano costretti ad esprimersi in italiano, ma nessuno li sgridava però. Ed allo stesso modo, scoprimmo che la gente proveniente dalle regioni meridionali, faceva stragi di congiuntivi e condizionali, anche in età adulta.
Mio padre raccontava spesso la storiella di quella signora che, avendo sposato un ingegnere, voleva fare l’aristocratica raffinata. Diede a suo figlio lo stesso nome di Shakespere. Mio padre affermava d’averla vista ed udita, mentre, affacciata alla finestra, si rivolgeva al figlio che giocava nel cortile con queste parole: -Villiam fai attenzione che robatti.6
Oltre a toglierci il gusto di scoprire il mondo, i grandi si approfittarono di noi. Le nostre fertili menti erano terreno ideale per seminare le loro paure, le loro ansie, le loro ambizioni. Che bisogno c’era che a tre anni ci prospettassero inferni e paradisi improbabili, che nessuno aveva mai visto, che nessuno che ci fosse stato direttamente, era mai tornato a descrivere? Che bisogno c’era che ci insegnassero la vergogna ed il senso di peccato7 ? Eppure fu proprio ciò che ci fecero. Eravamo semplici ed innocenti e ci hanno guastato. Lasciate che i bambini vengano a me8, era quello che insegnavano, ma avrebbero dovuto continuare, con la famosa frase, che il buonsenso popolare attribuiva a preti e suore: -fate come vi dico, non come faccio io.
La cosa paradossale di questo insegnamento a base di senso di colpa, è che nessuno poteva esserne immune, non avendo commesso reato alcuno. No si nasceva già colpevoli. Colpevoli e macchiati dal peccato originale. Si arrampicavano un po’ sui vetri, nel tentativo di spiegarci razionalmente questa faccenda. I nostri progenitori avevano commesso questa colpa all’inizio. Spinti dal serpente –ma Adamo, spinto anche da Eva, per quel meccanismo incomprensibile, del quale ho già parlato, per cui sembra che comandino i maschi, ma…- mangiarono la famosa mela. Sai che roba! Una colpa tremenda, mangiare una mela. Per questo furono cacciati dal paradiso, costretti a lavorare ed a soffrire. E ad avere figli che nascevano macchiati dalla colpa dei genitori. Una storia che fa acqua da tutte le parti. Non sta in piedi. Oggi al volgere del millennio dovrebbero fornirci altre spiegazioni, più convincenti. Anche quei bambini stupidi di allora, allevati nel senso di colpa, nel terrorismo psicologico, oggi che sono cresciuti non ci credono più! Forse non ci hanno mai creduto veramente.
Maschi e femmine separati. Addirittura vestiti in due modi diversi, affinché fossimo subito riconoscibili a colpo d’occhio. Grembiulini rosa le femmine, azzurri i maschi. Divise a quadratini per soldatini in miniatura, soldatini innocenti e senza malizia. Proprio quella decisero di insegnarci, perché era una merce che quelle vecchie suore avevano da vendere. C’erano un sacco di abitudini nuove che dovevamo fare nostre.
Incontrando le suore all’arrivo al mattino, oppure per strada, non le si doveva salutare come tutte le altre persone adulte: bondì, cereija, ma con una formuletta tutta speciale. Eravamo bambini timidi e rispettosi. Nessuno di noi si sognava di dare del tu, o dire “ciao” agli adulti non parenti, come si usa invece oggi. Per carità, bisogna mantenere il distacco, per avere riverenza! Incontrando una suora si doveva dire, una cosa complicatissima: scialodato Gesù Cristo. Al che esse rispondevano: sempre scialodato. Molti di noi non avevano mai sentito parlare italiano. A furia di ripeterlo in mente, per impararlo, era per noi un saluto composto solo da una parola lunghissima, senza senso alcuno per noi. Scialodatogesùcristo. Nessuno intorno a noi si esprimeva in quel modo. Ancora dovevamo apprendere l’italiano, figuriamoci se sapevamo il senso, il significato di scialodato.
Quella stessa formula dovevamo pronunciare mentalmente ogniqualvolta udivamo un adulto bestemmiare. Ci avevano fatto credere che se dicevamo questa cosa, la bestemmia stessa, veniva annullata, e Dio si sentiva meglio. Nei primi tempi passavamo le nostre giornate a ripetere mentalmente questa cosa, giacché a quei tempi là, era tutto un bestemmiare continuo fra i maschi adulti, specialmente fra quelli che svolgevano lavori manuali. I lavori manuali erano spesso difficili, non sempre riuscivano bene, talvolta le cose, invece di andare per il verso giusto, sembravano incamminarsi proprio nella direzione opposta. Con grande disappunto del lavoratore. Ecco che allora, improvvisa e necessaria, arrivava la bestemmia, quasi a raddrizzare la sorte del lavoro incamminatosi male. C’erano dei veri artisti della bestemmia a tirare fuori quelle più impensate e spropositate. Nessuno di quelli che ho conosciuto lo faceva con cattiveria contro il proprio Creatore. Era più un’abitudine, una specie di vezzo, una esclamazione richiesta dagli eventi avversi. Spesso diveniva un’abitudine, un’interiezione per spezzare il discorso, non con malafede, ma un modo d’esprimersi di gente lontana dalla cultura dei ricchi, gente più avvezza ad usar le mani per lavorare duro, che ad imbastire discorsi vani, un’imitazione di altri.
E noi lì a ripetere fino allo sbadiglio, sintomo della noia, il scialodatogesùcristo, perché ci avevano indotto a credere che fosse davvero utile ed importante, per la salvezza nostra, giacché le nostre orecchie avevano udito il peccato, e quella degli adulti bestemmiatori, che lo avevano commesso con la bocca. E la bestemmia era un peccato grave: ai tempi della scuola avremmo scoperto che stava scritto anche sui mezzi di trasporto pubblici.
Quello che praticamente non bestemmiava mai era Parin. Io ricordo solo una volta, e doveva essere proprio fuori dai gangheri, che disse Saccher Dio, ma non era una vera e propria bestemmia nel senso classico del termine, poiché non insultava Dio, ma affermava la sua sacralità.
Pregare. Per pregare c’era ancora un’altra lingua, che non era il piemontese e nemmeno l’italiano. Parole senza senso Nella cappella entrando a destra. C’erano statue gigantesche della Madonna e Crocefissi da tutte le parti. Candele accese. Profumo di incenso e di cera. Grandi mazzi di fiori in primavera ed in estate. Gigli, rose, fiori di campo. Fare le file. Camminare in fila. Pregare prima di mangiare. Mangiare in fila. In quelle tavole con i buchi rotondi, per evitare che si rovesciassero le scodelle con la minestra. La minestra era buona. Era buona perché la cuoca, suor Emilia -le suore facendosi suore si cambiavano il nome, adottandone uno di una santa o martire- era buona lei stessa, anche se aveva i baffi. Era la più umile delle suore e i suoi compiti erano quelli manuali: cucinare, pulire, rigovernare, pulire cortili e marciapiedi, bagnare fiori e togliere foglie secche. Era sempre vestita con abiti da lavoro e grembiuli e sopramaniche, come quelle degli impiegati, con gli elastici. Era, se così si può dire, la manovala delle suore. Aveva perennemente addosso l’odore dei suoi minestroni e del lavoro fisico. Raramente stava a lungo con noi. Solo in caso di malattia di una delle altre, l’aristocratica suor Maria Ada, sempre con gli abiti impeccabilmente inamidati, la madre superiora, anziana e rotondetta. Quando però era lei ad occuparsi di noi, non ci picchiava mai, si limitava a farci la romanzina.
Camminare in fila. Giocare in fretta, in silenzio. Non tirare la ghiaia. Dormire in fila. Tutto organizzato, ordinato, previsto. Dormire dopo pranzo era la tortura più grande per dei bambini pieni di energie e di voglia di gridare e giocare. Dopo pranzo, dopo essersi lavati un’altra volta le mani in quei bagni con lunghe file di rubinetti e di pisciatoi puzzolenti, si andava nell’aula dove di solito ci indottrinavano e, seduti su una panchetta bassa, con il capo appoggiato su una panca più grande, si doveva cercare di dormire. Lì su quelle panche abbiamo imparato l’insonnia. Abbiamo sperimentato ciò che sperimenta chiunque tenti di dormire non avendo abbastanza sonno. Si agita e si rigira senza riuscire nel suo intento. Mentre le nostre fibre erano percorse da fremiti di vitalità che avrebbero voluto esprimersi giocando e correndo, dovevamo starcene buoni, reprimere i nostri impulsi a vivere intensamente, per dar modo alle suore di riposarsi.
Gesù, ave Maria Santissima, Padre nostro, Credo, segno della Croce, amen, tutte formulette, cantilene che, una volta imparate a memoria, perdevano ogni senso logico. Inoltre, a quei tempi, riti, messe, rosari, erano tutti in latino. Erano soltanto suoni. Suoni che richiamavano per associazione, per vicinanza, altri suoni, senza significato alcuno. Loro lo chiamavano pregare. Era noioso. Dovevamo credere che lassù, da qualche parte nel cielo ci fosse un Dio, quel vecchio austero con la barba e i capelli bianchi, che voleva che noi ci annoiassimo a morte pregandolo. Un Dio buono, perfetto, onnipotente, che sapeva tutto di noi, e che desiderava che noi qui passassimo gran parte del nostro tempo adorandolo con queste formulette che, nella ripetizione, perdevano il loro senso logico, diventavano solo suoni recitati più o meno in coro.
Catechismo. Iniziarono fin da allora ad indottrinarci e non mollarono mai, per tutto il periodo scolastico. Le suore, il parroco, il vice parroco. Poi i compagni più grandi, ammaestrati a suo tempo, pronti a farlo a noi. In quei tempi non si poneva nemmeno il problema se fossimo o no in grado di assimilare quei concetti astratti che ci propinavano dogmaticamente. La genesi. Il fango con il quale furono creati i nostri progenitori, il soffio vitale di Dio. La colpa. Tutto ruota intorno al concetto di colpa. La colpa di Adamo ed Eva, che ricade come una maledizione su tutta la loro progenie. Per redimerci da questa colpa Dio, che immensamente buono, manda suo figlio a morire per noi. Batti, batti sempre su questo incudine della colpa, essa è entrata dentro di noi e non riusciamo più a levarcela. Il popolo eletto, che Dio, immensamente buono, ma vendicativo, sceglie come suo popolo facendolo vittorioso sugli altri popoli. Ma gli altri popoli chi li ha creati se c’è un solo Dio? Sì li ha creati lui, ma essi non l’adorano come vorrebbe, allora giù mazzate e stermini per opera degli ebrei, guidati da saggi eletti direttamente da Javeh. Ma come può questo Dio essere contemporaneamente essere buono, giusto vendicativo e spietato? Non ci sono per caso delle contraddizioni? E questo suo figlio-dio, mandato appositamente per salvare il suo popolo eletto, che è l’unico a non averlo riconosciuto come tale, condannandolo a supplizio e morte, in favore di uno sconosciuto di nome Barabba. Persino i mussulmani riconoscono in Gesù Cristo un grande profeta. Noi cattolici non sappiamo nulla di Maometto e dei suoi insegnamenti. Dunque noi, cattolici siamo gli unici ad avere accolto il messaggio giusto, seguendone i dettami per guadagnarci la vita eterna.
Che ne sarà di chi, vivendo ai ripari, lontano da questa nostra dirompente “cultura”, che a suon di spade, volle, ed a suon di atomiche, vuole “salvare” tutti, resterà per tutta la vita nell’ignoranza della “buona novella”?
Avevamo tre anni quando hanno deciso di avviarci sulla rotta della fede cattolica. Non avevamo letto Bertrand Russel9, ne’ potevamo fare questi ragionamenti come li facciamo ora, ma c’erano contraddizioni che coglievamo intuitivamente.
Tutto sembrava voler farci credere che tutti i popoli del mondo fossero cattivi perché non credenti nella nostra stessa fede. I pellerossa erano cattivi. Gli arabi erano cattivi. I buddisti erano cattivi. I romani e i greci, da cui deriva tutta la civiltà dell’Europa mediterranea erano cattivi e uccidevano i cristiani. E tutto questo guazzabuglio di genti diverse erano sempre in guerra fra di loro, a causa proprio delle loro fedi diverse. Ma se le fedi, le religioni sono le cause di discordia fra gli uomini eliminiamo queste fedi, per eliminare le discordie e le guerre fra gli uomini. Se la tua mano è causa di peccato tagliala.
Poi i dieci comandamenti. Amare Dio, quel solito vecchio. Va bene per i genitori, il rubare. Ma il fornicare, che diavolo poteva essere questo fornicare. Niente a che vedere con le formiche, c’era una lettera sbagliata. Perché insegnare delle cose incomprensibili, se non, con l’unico scopo di approfittare della plasticità e malleabilità delle nostre giovani menti? Mala fede. Non esiste un comandamento sulla malafede di preti e suore di ogni credo che fanno danno con intenzione, sull’animo dei giovanissimi ed indifesi? Occorrerebbe inventarlo un peccato di plagio. Molti bravi ragazzi e ragazze poi, i più bravi, se avessero avuto la fortuna di essere toccati da Dio in persona, avrebbero sentito il richiamo forte della “vocazione”. Sarebbero diventati soldati e spose di Cristo. Sacerdoti, frati e suore. Se questo non è plagio! Fare questi discorsi a bambini di tre, quattro anni al massimo. In galera dovrebbero mandare tutta quella brava gente. Il male che si può fare a una persona, specialmente un bambino, non è solo quello fisico. La violenza è anche, e soprattutto, quella psicologica. Ogni persona dovrebbe essere padrona del proprio destino. Un bambino, ma anche un adulto plagiato, non sono più liberi di scegliere la loro strada, non sono liberi quando ogni giorno sono costretti a prendere delle decisioni. Non sono liberi perché a volte non riescono nemmeno a scorgere strade alternative. Non so quante vittime più o meno gravi abbiano fatto, fra di noi, quei preti e quelle suore. Una di sicuro. Una mia compagna d’asilo di allora oggi è una suora. Sarà felice di esserlo? Oppure dice di esserlo per giustificare la sua scelta irreversibile? Oppure piange nelle sue notti solitarie, per la sua scelta avventata. Io personalmente detesto tutte le cose irreversibili. Non potrei mai decidere una cosa così definitiva. Ma a parte questa vittima accertata, di una scelta così globale, quanti di noi, nella vita hanno poi fatto delle scelte errate, dettate più dalla paura della colpa, dal senso di peccato non genuino, ma indotto da educatori incoscienti ? Quanto dolore e quanta sofferenza è nata da una educazione bigotta e chiusa all’amore genuino, spontaneo, che conoscono solo i semplici di cuore, coloro la cui mente non è bacata dalle complicazioni della filosofia della colpa cristiana?
A volte i discorsi di Nin Daviso, vertevano proprio su preti che si erano spretati. Dësvestisse10. Dësvestisse e sociase con la tale11. Succedeva. Più spesso di quanto si immaginasse. Preti e suore erano anch’essi esseri umani, con i loro pruriti, come tutti. Alcuni lasciavano i voti per un compagno o compagna, proprio come sarebbe poi successo alla nuora stessa di Nin, una suora che avrebbe sposato suo figlio. Altri avevano relazioni nascoste. Si sa di un parroco che ebbe una amante fissa, che gli diede un figlio illegittimo, proprio in un paese vicino al nostro.
Il fatto è che questa gente predicava bene. Ma razzolava male. Noi avremmo dovuto fare come ci insegnavano, a parole, non a fatti. Gli uomini sono tutti uguali, dicevano, tutti ugualmente figli di Dio. Ma in realtà alcuni erano “più uguali” di altri. I figli dei ricchi, o anche soltanto dei commercianti, erano tenuti in maggiore considerazione, che non gli altri, quelli come me. Preti e suore commettevano ingiustizie, e noi, senza le loro malizie e mala fede, le percepivamo. Le vivevamo come un oltraggio alla nostra persona. Altro che tutti figli di Dio! Noi figli di operai e di poveri eravamo soltanto i figliastri. Queste ingiustizie non sono, si badi bene, la razionalizzazione di un adulto di oggi, sui fatti del passato, bensì ricordi precisi di ingiustizie subite.
C’era tutta una trafila burocratica da seguire per la nostra “evoluzione” cattolica. Prima comunione. Cresima. Catechismo, catechismo, catechismo, sempre, a partire dai giorni dell’asilo, tre anni di età. Perché non iniziarci anche alla teoria della relatività generalizzata e alla fisica quantistica? Forse ci avrebbe aiutato negli studi superiori. Ci indottrinavano perché eravamo stati battezzati. L’idea principe era che noi eravamo stati fortunati ad esserlo. Altri bambini, di altre culture, in Africa, nella regione amazzonica, non lo erano. Alla loro morte non sarebbero andati in paradiso come noi, bensì al limbo, dove finiscono tutti gli innocenti non battezzati. Oggi sembra incredibile, ma allora ci propinavano panzane del genere. E noi credevamo loro. Come è possibile che gli innocenti siano condannati, per essere nati nel posto sbagliato? Lasciate che i bambini vengano a me. A duemila anni di cristianesimo non abbiamo ancora imparato nulla delle lezioni di quell’uomo buono che è stato crocifisso. Oggi sappiamo razionalmente che la religione, così come la conosciamo oggi, è stata totalmente costruita a tavolino dai filosofi dei secoli seguenti. Sant’Agostino, Tommaso d’Aquino ed altri, hanno creato un costrutto teologico da propinarci, per interessi loro e di altri. Ci sono sempre stati al mondo personaggi con degli scopi più o meno occulti. Tenere in soggezione la gente è stato sempre lo scopo dei personaggi più potenti. Le menti sono malleabili se sono ignoranti e se sono giovani. Coltivare le giovane menti è un modo per far sì che il mondo diventi come vogliono costoro. L’ignoranza coatta è complemento necessario di questo modo.
Tutti gli uomini sono uguali, ma i ministri di Dio, dai gradi più bassi della gerarchia fino ai più alti, escluse poche eccezioni, hanno sempre corteggiato il potere, qualunque esso fosse, finanche i regimi totalitari più recenti.
Tutti gli uomini sono uguali, ma alcuni facevano beneficenza alle istituzioni religiose, asilo, chiesa, oppure può darsi facessero offerte più consistenti in chiesa. Una specie di commercio, dove la merce scambiata pare che fossero i biglietti per le prime file in paradiso. I loro figli, nostri compagni erano più bravi, più alti e più belli. Perciò figuravano meglio vestiti da paggi durante la processione del Corpus Domini. Era molto ambito venire prescelti per vestire queste divise vivamente colorate. Tutti noi immaginavamo di essere molto ammirati, in calzamaglia, basco con la piuma e mantello rossi, pantaloncini rigonfi e collarino bianco pieghettato. Con in mano l’asta luccicante con gagliardetto e croce. Una divisa molto simile a quella delle guardie svizzere vaticane, ma con colori più tendenti al rosso.
Cominciavamo a sbirciare le ragazze e pensavamo che saremmo piaciuti di più, così vistosamente vestiti, così in mostra alla processione. Poi avremmo spiccato molto soltanto in sei vestiti in quella foggia, fra gente vestita in modo normale.
Lo chiesi ogni anno, poiché lo desideravo moltissimo, al sacerdote che organizzava. Ogni volta mi rispondeva:
-L’anno prossimo, lo farai tu.
Smisi di chiedere, quando realizzai che erano sempre gli stessi ad indossare le divise da paggi.
Le femmine invece, nella stessa processione, facevano le figlie di Maria, tutte vestite con tuniche candide, cordoncino azzurro, velo candido e corona del rosario. Delle piccole madonnine. Anche lì, sempre le solite. Immagino che si commettessero le stesse ingiustizie anche sull’altro versante.
In pratica ci ritrovammo cattolici praticanti senza averlo scelto veramente, ma non potevamo fare a meno di esserlo, perché non c’erano alternative: o esserlo o provare senso di colpa.
Ci avevano catturati sui banchi dell’asilo, con i primi insegnamenti del catechismo, alle cui domande bisognava rispondere in modo preciso. Chi è Dio? Dio è l’Essere perfettissimo...Dov’è Dio? Dio è in cielo, in terra ed in ogni luogo…e centinaia di amenità del genere, imparate forzatamente a memoria.
Hanno continuato con le stesse domande che esigevano le stesse risposte, anche alla scuola elementare. All’asilo erano le suore ad insegnarci, con rare partecipazioni dei preti, per le messe o per insegnamenti più incisivi in feste liturgiche particolari, come Pasqua o Natale. A scuola fu compito quasi esclusivo di don Giuseppe, il vice parroco. Il nuovo parroco, don Ugo, partecipava alle nostre lezioni, soltanto in occasioni speciali, o in caso di indisposizione di don Giuseppe.
Don Giuseppe era coetaneo di mio padre. Mio padre diceva che un giorno si erano incontrati e don Giuseppe gli aveva detto: -Non ti vedo mai la domenica in chiesa, al che mio padre rispose: -E mi ‘t vëddo mai, a la matin a ses ore con la borsa, a la fermata dël pullman a ëndè a travaijè12.
Oltre agli insegnamenti veri e propri, effettuati nell’ora scolastica, c’erano le funzioni a cui era obbligatorio partecipare. Messa. Benedizione serale. Novena di Natale. E rosari, processioni, funerali. E le funzioni speciali . Benedizione delle gole, con le candele incrociate, altrimenti ci si ammalava. Io ero sempre malato lo stesso, nonostante non abbia mai mancato un anno. Le Ceneri, dopo il carnevale. Il celebrante ci cospargeva la fronte con della cenere, pronunciando una formula in latino, come anche per le candele sotto la gola.
Alla benedizione serale, o Vespro, occorrevano i chierichetti, come per la messa. Tutti volevano fare quello del turibolo. Si accendeva un carboncino e si metteva sopra una pastiglia di incenso che bruciando faceva un fumo profumato di buono. L’addetto se ne stava lì in piedi ad oscillare il turibolo tenendolo per le catenelle. L’oscillazione richiedeva una certa abilità. Occorreva alzare od abbassare il coperchio, in modo che la parte accesa prendesse più o meno aria. Anche l’oscillazione serviva a tenere viva la brace, facendo affluire l’aria. Oscillare era come soffiare sulla brace evitando che si spegnesse. Al momento del bisogno, quando il sacerdote prendeva il turibolo per benedire, doveva uscire un gran fumo dal turibolo. La quantità del fumo fuoriuscito testimoniava l’abilità dell’addetto al turibolo. Era una posizione molto in vista, nella quale pensavamo sarebbe parsa evidente la nostra bravura.
Alla novena di Natale, don Giuseppe ci dava i buoni di partecipazione, con il timbro della parrocchia e la data, perché solo se partecipavi tutte le sere, si aveva diritto, la vigilia di Natale ad un regalo, che consisteva in genere, in un piccolo sacchetto di caramelle. Ci comperavano con ogni mezzo. Tenevamo quei bigliettini sempre in tasca, contandoli ogni momento, per esser sicuri dei giorni che mancavano al Natale, giorno in cui, bene o male, qualche regalo lo avremmo ricevuto.
Ma non ci compravano soltanto con i bigliettini per le caramelle. Ci vendevano il Paradiso, quello vero, per dopo la morte. Partecipare ad undici Vespri consecutivi equivaleva ad avere assicurato il Paradiso. Noi abbiamo creduto a tutte le balle che ci raccontarono. Contenti partecipavamo a tutte le funzioni di chiesa possibili ed immaginabili, sicuri di acquistare in quel modo il diritto al Paradiso eterno, dopo la morte.
Poi, quando abbiamo capito che non poteva essere, che era assurdo tutto questo, abbiamo continuato ad andare alle funzioni, chiedendoci se non fosse un peccato grave raccontare frottole ai bambini. Le frottole che ci raccontavano erano adeguate alla nostra età. La grandezza era inversamente proporzionale all’età. Più eravamo piccoli, più le sparavano grosse. Crescendo smentivano ciò che ci avevano propinato prima, quando andavamo all’asilo. C’era stato il concilio Vaticano II°. Era cambiato il Papa.
Nell’adolescenza sembrarono concentrarsi sul sesso. Ci svelarono bene o male il mistero della parola “fornicare”, anche se ancora non capivamo bene che cosa si intendesse davvero, che cosa fosse lecito o meno. Ricordo come se fosse ieri, quando Mondo mi disse che il sesso consisteva nel mettere ël pirilo nel buco delle femmine. Lo guardai incredulo ed egli mi derise per il fatto di sapere una cosa alla quale io non volevo credere. Come poteva quella parte di me, anche quando fosse stata abbastanza rigida come al mattino appena sveglio, infilarsi in un buchino sottile fra le cosce, come quella cosa che intravidi fra le gambe della mia compagna di gioco? Ma si trattava di una cosa, per la conferma della quale avrei dovuto chiedere ad una persona credibile, un adulto (?!). Come chiedere una cosa del genere, ad un adulto? Così il mistero rimase ancora per molto tempo, ma con il tarlo del pensiero suggerito da Mondo.
Occorreva confessare i peccati commessi al sacerdote nascosto nel confessionale, quella baracca di legno con pesanti tendaggi e una grata per parte, dove si inginocchiavano coloro che si confessavano. Il prete si volgeva alternativamente ora da un lato ora dall’altro ad ascoltare i nostri peccati.
Si era costretti a bisbigliare affinché quello dall’altra parte, e tutti gli altri presenti in chiesa, non sentissero i nostri “peccati”. La confessione era un fatto privato, fra peccatore e Dio, col prete come mediatore e veniva fatto quasi in pubblico, nella chiesa gremita di gente. Sì perché a quei tempi si faceva la fila per confessarsi, soprattutto in certi giorni, vicino alla domenica, in cui, liberati dal peso dei peccati commessi, si poteva fare la Comunione.
Da piccolissimo non sapevo mai quali peccati confessare. Erano sempre gli stessi. Disubbidienza ai genitori. Parolacce. Pensieri “cattivi”. Quante idiozie ci avevano instillato, e noi che credevamo loro! Quanto a quei peccati che, crescendo avevamo intuito gravitavano intorno al “fornicare”, tipo il “gioco al dottore”, quelli non osavo confessarli, e li tenni per me a lungo, con gravissimo senso di colpa, per aver continuato a prendere la Comunione senza raccontare al prete della spaccatura infiammata della mia coetanea sotto un balcone .
Come facevo a dire certe cose a don Giuseppe, che era del paese e ci conosceva tutti. Già in generale, attendevamo a confessarci la domenica mattina, giorno in cui veniva un sacerdote salesiano che veniva da fuori, per coadiuvare i sacerdoti del paese.
Non era niente di grave in realtà, ma il senso di colpa ha rovinato i miei anni più belli. Ai primi pruriti sessuali, avevamo cercato di esplorare i nostri corpi. Era spontaneità innocente, visto che nasceva dagli istinti dei nostri corpi, creati ad immagine e somiglianza di Dio. Come poteva ciò che nasceva da qualcosa creato da Dio essere malvagio? Eppure allora ci avevano convinti di queste assurdità e ci avevamo creduto. Rimasi per anni, con quei peccati di “fornicazione” sulla coscienza, continuando a confessarmi ignorandoli, ed a comunicarmi. Mi attendevo ogni volta che andavo a prendere l’Ostia che questa si allontanasse da me, restando sospesa per aria, come in quella storiella del delinquente assassino, in cui era occorso l’intervento del vescovo per farla scendere nell’ostensorio. Un esempio paradigmatico, di quelle storielle da preti ad uso e consumo dei bambini, che erano stampate, con tanto di disegno, sui catechismi di allora.
Quando finalmente superai la vergogna e decisi di confessare a quel prete salesiano quel mio pesante fardello, mi sentii sollevato di un peso tremendo che gravava sulla mia persona come una pesante ombra nera.
Oggi mi chiedo perché hanno dovuto farci tutto questo. Non se ne abbiano a male se non abbiamo voluto che facessero anche del male, come ne hanno fatto a noi, ai nostri figli, indottrinandoli religiosamente come hanno fatto con noi.
Don Giuseppe diceva sempre che l’importanza della festività del Natale consisteva nel significato religioso di Gesù Cristo, che scelse di incarnarsi -incarnarsi, che strana parola; i grandi parlavano anche ëd onge ëncarnà13- in mezzo a noi, per redimerci. In realtà noi si aspettava il Natale per i regali, altro che ‘d bale.14
I rosari estivi alla Madonna fin nelle sperdute e più lontane frazioni del paese allargarono i nostri orizzonti. La sera dopo cena, ci si ritrovava davanti alla chiesa e di lì si partiva allegramente a piedi, per raggiungere le borgate, dove si recitava il noioso rosario. I preti forse pensavano che fossimo genuinamente interessati alla preghiera. In realtà ci interessava la gita notturna, senza il fiato dei genitori sul collo. Ci interessava semplicemente stare fuori la sera. Ci interessava, perché c’erano anche le ragazze che cominciavano ad attrarci, inavvicinabili di giorno, ma a portata di mano durante i lunghi trasferimenti a piedi, complice il buio. Facevamo gli scemi, nulla di più, ma tanto ci bastava per la nostra stupidità adolescente. Il rosario era un noioso ma inevitabile corollario a tutto questo.
Poi c’era l’oratorio. La tanto attesa gita di pasquetta. Giorno in cui pioveva sempre, ma liberi o quasi, via da casa. D’estate la vacanza a Ussolo, in valle Maira, che chiamavamo “campeggio estivo”, chissà perché visto che dormivamo nella scuola del paesello di montagna. Ma questa è un’altra storia, di adolescenti.
L’oratorio era per giocare e divertirsi, ma, come non mancava mai di puntualizzare don Giuseppe, “oratorio” significava innanzitutto, letteralmente, “luogo di preghiera”. Tutte le occasioni erano buone per fare una puntata in chiesa per una preghiera. Una preghiera prima dei giochi, una nel mezzo, nell’intervallo, una alla fine. Era la pubblicità di allora, nei nostri divertimenti, con un unico committente.
Pregare e cantare. Si doveva imparare il latino, così a memoria, senza capirne il significato, per poter servire le funzioni. Solo noi maschi. Le femmine, come non potevano celebrare le messe, così non potevano servire alle funzioni, fare, come facevamo noi, le chierichette. Cantavano, con le loro voci soavi ed angeliche, accompagnate da suor Maria Ada che suonava l’organo. C’era un organetto anche in una sala dell’asilo. La sala dove si mettevano i nostri cestini delle merende. I cestini venivano posti su una mensola, sopra gli attaccapanni dove mettevamo i vestiti con cui si raggiungeva l’asilo, ad un’altezza per noi irraggiungibile. Lassù c’erano i nostri cestini, con le nostre merende, ma non eravamo padroni di far merenda quando ci piaceva. Merenda si faceva ad orario, dopo naturalmente una preghiera. Ma l’organo era raggiungibile e invitante. Era assolutamente vietato toccarlo, ma come le suore si allontanavano per andare ad aprire ad un nuovo arrivato, subito tentavamo di suonare ma quasi sempre venivamo colti in fragrante. Non so perché invece di punirci non tentassero di insegnarci a suonare. La musica era una cosa scritta e andava letta per essere suonata a modo. La scrittura della musica era molto diversa da quella delle parole. Perché nessuno ci insegnava a leggere quei segni musicali? Mia madre diceva sempre che le sarebbe piaciuto che io imparassi a suonare la fisarmonica. Ma un po’ perché eravamo poveri, un po’ per l’avversione di mio padre per la musica, non ebbi mai in regalo nemmeno una piccola armonica a bocca, che altri miei amici invece avevano.
Ma, nonostante il gran pregare, l’oratorio era divertente. Soprattutto la domenica. Mio padre mi dava all’inizio cinquanta lire, tutte per me, da spendere all’oratorio. C’erano vari giochi a pagamento. Calciobalilla, bigliardino, tennis da tavolo o ping-pong. Nel salone in alto c’era un vero bigliardo, quello con gli omini bianchi e rossi al centro, riservato ai ragazzi più grandi. C’era quella che chiamavamo “edicola”, dove si vendevano, oltre ai giornaletti a fumetti consentiti -quelli con il titolo con la “k” erano al bando, proibiti perché immorali. Diabolik, Kriminal ecc., che mostravano disegni di donne nude, ma circolavano lo stesso, non so come, in mezzo agli altri e ce li scambiavamo fra di noi, ma non all’oratorio-, caramelle ciclés e gelati. Con le mie cinquanta lire centellinate fra monetine da dieci e da cinque lire, riuscivo a passare domeniche discrete. Il ghiacciolo costava quindici lire. Attendevo a comprarlo fino a quando non potevo farne più a meno, vinto dal fatto che tutti i miei amici lo stavano già succhiando. Sì perché il ghiacciolo si doveva succhiare, per farlo durare più a lungo. Succhiandolo si scolorava leggermente e perdeva sapore. Finito il ghiacciolo e terminate le cinquanta lire, fra monetine da dieci infilate nel calcioballla o nel bigliardino -per farsi degli amici occorreva pagare qualche partita, nella speranza di essere a mia volta invitato da altri, per altre partite; ma in questo centrava molto anche l’abilità al gioco- per placare la sete in quei caldi pomeriggi estivi, non rimaneva che il rubinetto addossato al muro del cinema, nel cortile dell’oratorio.
Si andava all’oratorio alla mattina dopo la messa e poi il pomeriggio. Talvolta alla domenica mattina, c’era catechismo supplementare per diventare “aspiranti”, ad opera dei ragazzi più grandi. Lì tenevamo anche un quadernetto. Il nostro istruttore era Dreija, fratello più grande del mio amico Berto detto droghé. Poi c’erano giochi di squadra organizzati. Guardie e ladri, tattica scalpo, giochi di squadra che si svolgevano sulle rive del Sangone, territorio selvaggio, al quale si accedeva semplicemente scendendo dall’oratorio verso il bosco posto sul pendio che digradava verso il torrente. Giochi di squadra tenuti nel cortile dell’oratorio, nascondino, fulmine, le partite a figurine oppure a biglie con decine di partecipanti. Tutti giochi che poi, ripetevamo in piccolo, nel cortile di via Pastrengo.
A fianco dell’oratorio c’era il cinema parrocchiale. Lì abbiamo incominciato a scoprire il mondo, lì nascevano i nostri eroi. Pionieri e soldati americani, Maciste, Ercole e Sansone. Steve Revees e gli eroi gonfi di muscoli che spostavano templi e cavalli, uccidevano leoni con le loro mani. Pirati e corsari. Tutta la materia prima per la nostra immaginazione ancora non uccisa dalla televisione e dal senso di responsabilità. Per anni questo è stato l’unico cinema del paese. Quando aprirono l’altro cinema, la concorrenza, il parroco iniziò ad affiggere, sulla porta della chiesa, la classificazione dei films proiettati in paese nella settimana. Al cinema parrocchiale i films erano per tutti. All’altro cinema “davano” quasi sempre films per adulti, oppure vietati ai minori di quattordici o diciotto anni.15
C’era la morale perbenista in quei film in cui lottavano il Bene ed il Male, in una lotta all’ultimo sangue. Non c’erano vie di mezzo. I personaggi erano o buoni o cattivi, senza scampo e senza vie di mezzo. Nessuno tifava ancora per i pellerossa americani, perché appartenevano alla categoria dei cattivi. Al contrario si sussultava di gioia alla tromba che annunciava l’arrivo del Settimo Cavalleggeri, le giacche azzurre di Custer, liberandoci dall’angoscia per i poveri coloni bianchi che avevano messo i loro carri in cerchio, per difendersi dallo spietato attacco degli indiani.
Eppure, gli uomini sono tutti uguali. Nessuno ci fece riflettere allora, che forse, anche gli indiani, i pellerossa, sono figli di Dio quanto noi. D’accordo, erano solo dei films, ma pur sempre dei films che testimoniavano di un genocidio avvenuto realmente, per opera dei bianchi su una terra che non era la loro, ma dei nativi. Un genocidio avvenuto, non in nome di Dio, ma in nome del dio danaro. In Good we trust.16 L’emblema del dollaro americano ben rappresenta l’ideologia generalmente accettata da tutti, chiesa compresa.
Avremmo dovuto attendere che ci capitassero fra le mani libri dalla parte degli indiani, films come Piccolo grande uomo, Soldato blu, proiettati in cinema non parrocchiali, ironia della sorte, per capire che il bene ed il male, non erano poi faccende così chiare come il bianco ed il nero. Mentre avrebbero dovuto essere proprio i preti ad insegnarci che gli uomini sono tutti uguali. Ma non tutti erano dei don Milani. Avremmo dovuto studiare antropologia culturale, per venire a conoscenza delle nefandezze commesse dai bianchi, su tutto il continente americano. Leggere i fustiganti rapporti del frate Bartolomeo de las Casas, in America latina al seguito di Cortez, per scoprire che abbiamo crudelmente distrutto civiltà socialmente e tecnicamente più avanzate della nostra. Per scoprire le brutali uccisioni perpetrate dai bianchi in nome del vangelo. ...la spada e non il libro hai nella mano.17 Esseri umani nativi del posto trattati come bestie. Resi schiavi venivano usati nelle miniere fino alla morte, senza preoccuparsi di nutrirli e curarli, tanto erano in molti. Una volta deceduti, li si sostituiva con schiavi più freschi. Più conveniente economicamente. Sarebbero dovuti passare secoli dopo la scoperta dell’America, affinché il papa riconoscesse che erano esseri dotati di anima. Cinque secoli prima che il papa Giovanni Paolo II, durante un suo viaggio in America latina, chiedesse scusa agli indigeni.
Una volta commesso il genocidio, milioni di esseri umani uccisi nel volgere di pochi decenni, ci si rese conto che mancava la manodopera nelle colonie. Ma ancora una volta, la soluzione dei popoli cristiani dell’Europa fu pronta e semplice. Rapire uomini e donne all’Africa, per condurli, in condizioni disumane, nelle colonie. Altro genocidio costato, si stima, cinquanta milioni di anime al continente africano. Morti durante il viaggio per fame, sete, ferite, per le condizioni bestiali in cui erano stipati sulle navi, malattie infettive. Perché hanno preferito lasciarsi morire.
Il genocidio dei pellerossa delle pianure americane, avvenuto nel secolo scorso ad opera dei soldati americani, che contavano nelle loro file anche immigranti italiani, è stato solo l’ultimo atto di questa tremenda strage. Una curiosità è che uno dei pochi superstiti degli uomini di Custer, a Little Big Horn, era una staffetta inviata a cercare rinforzi, un uomo di origine italiana di nome John Martini.
Nessuno dei preti di allora ci ha mai parlato di tutto questo. Eppure moralmente e istituzionalmente, per il ruolo che si erano scelti, avrebbero dovuto farlo. Invece ci proiettavano nei loro cinema delle storie non eticamente corrette. Ci hanno ingannati doppiamente. Prima per non averci detto la verità, poi per averci indotto a pensare che la nostra morale perbenista cristiana poggiava su solide basi moralmente sane.
D’Artagnan, Re Artù, Napoleone. Altri eroi per altre fantasie. Guerra e Pace, il capolavoro di Tolstoj, in versione cinematografica, ci faceva fare raffronti con la storia studiata a scuola. Ci faceva piangere e fantasticare su amputazioni in tende da campo, facendoci fremere al pensiero che come maschi saremmo dovuti un giorno essere soldati. Mio padre raccontava spesso le sue avventure sul servizio militare, fatto per fortuna, in tempo di pace.
Erano storie di sentinelle, nelle notti gelide di Tarvisio, sotto bufere di neve. La consegna delle sentinelle era quella di non far passare nessuno, se non accompagnato dal capoposto, unica persona conosciuta dalla sentinella stessa. Ufficiali di qualsiasi grado, anche generali o l’Ufficiale di Picchetto, che in altre circostanze avrebbero dato ordini indiscutibili al soldato di sentinella, avrebbero dovuto essere fermati, anche con la minaccia del fucile carico della sentinella.
-Alto là! Chi va là? Fermo o sparo.
Questa frase, ripetuta per tre volte, avrebbe dovuto essere seguita da un colpo sparato in aria, se l’intruso non si arrestava davanti alle intimazioni della sentinella. Se questo non fosse bastato a fermare chi si stava avvicinando, sarebbe dovuto seguire un colpo sparato nella direzione dell’invasore, allo scopo di fermarlo, per sempre.
Gli ordini, da militare, non si discutono. Non ci si poteva accordare, di volta in volta, o valutare se fosse davvero il caso di sparare, finendo per ammazzare un essere umano. Non c’era nemmeno da pensare: si doveva seguire quella trafila. Si diceva ci fossero in giro ufficiali “cattivi”, che mettevano alla prova le sentinelle, per vedere se avessero eseguito alla lettera la consegna della sentinella, mettendo a rischio la propria vita. Se la sentinella aveva il cuore tenero, e si rifiutava di ammazzare un cristiano, finiva in galera a Peschiera, carcere militare. Perché violare questa consegna di sentinella era mancanza grave. Per le violazioni minime, si andava dalla consegna semplice alla C.P.R., ovvero camera di punizione di rigore, giorni scontati reclusi in una cella in caserma, su un tavolaccio di legno, a pane ed acqua. Così, si raccontavano storie di ufficiali morti, tentando di stuzzicare i soldati di guardia.
Mio padre invece, raccontava spesso di quel soldato che, sentendo un rumore durante il suo turno di guardia, aveva sparato ad una capra del capitano, i cui figli, allergici al latte di mucca, necessitavano del suo latte.
I turni di guardia erano stressanti: due ore di guardia, quattro di riposo. Si finiva per fare due turni in una notte gelida. Il servizio complessivo di guardia durava ventiquattro ore, fino a che un altro gruppo sarebbe montato a sostituire la guardia del giorno precedente.
Tutta la vita della caserma era regolata dai suoni della tromba, dalla sveglia, all’adunata, al rancio, alla corvè, al cambio della guardia, alza ed ammaina bandiera, libera uscita, silenzio, allarmi notturni, campi in tenda, con trasporto dei pezzi del cannone ed i muli. Mio padre imitava tutti i suoni di tromba con la bocca.
Nell’artiglieria di montagna, dove servì mio padre, c’era un detto: «Dietro ai cannoni, davanti ai muli, lontano dagli ufficiali.» In pratica, era la filosofia del volare basso, del non mettersi in posti pericolosi, in vista, la filosofia del militare di leva, che consisteva e consiste, nel fare meno fatica possibile ed evitare i luoghi pericolosi. Le rispettive parti opposte dei muli e dei cannoni, sono ovviamente pericolose, così come lo è la prossimità degli ufficiali, sia in tempo di pace che di guerra. Vicino agli ufficiali si può venire colpiti più facilmente, in quanto essi, riconoscibili, erano presi di mira, anche perché dei soldati senza capi non sarebbero che una masnada in fuga; in tempo di pace, vicino agli ufficiali si possono ricevere più ordini e punizioni, che non lontano da essi.
Infine c’era lo spauracchio delle iniezioni fatte nei muscoli pettorali, così dolorose da dare diritto a tre giorni di riposo branda.
Tutto questo era un altro spauracchio della vita, come la morte, un’angoscia per qualcosa che verrà certamente, delle forche caudine sotto le quali sarebbe stato inevitabile passare. Ma erano molto lontano nel tempo, per me bambino, queste cose militari, quasi lontane come il duemila. Ed oggi, mentre le racconto, devo voltarmi indietro di trent’anni, per rivedere l’ora mia di fucili, marce, allarmi notturni, rancio immondo, tutto scandito, non già da un trombettiere in carne d’ossa, come all’epoca di mio padre, ma da un disco tutto rigato e scricchiolante come una friggitoria.
Nella credenza di Nona, c’erano fotografie di tutti i suoi figli militari. Vecchie foto sbiadite con una freccia fatta a penna, che indicava dove fossero in mezzo ad un’intera compagnia.
C’era anche un manuale del geniere guastatore, con calcoli sulle parabole di tiro dei proiettili di artiglieria, ed un altro sull’alfabeto morse, con il quale avrei tentato di imparare a trasmettere, dopo che, a scuola, ci fecero costruire i primi telegrafi servendoci di bulloni, filo di rame e batteria da 4,5 volt. C’erano tantissimi misteriosi tesori da esplorare negli armadi dei nonni, cose che suscitavano in me meraviglia e stupore, di fronte alle antiche povere cose a me sconosciute.

Quando, finito l’età della scuola materna, l’autunno seguente ci avviammo alla scuola, nutrivamo molte speranze di imparare qualcosa di nuovo. La scuola elementare era vicinissima alla casa dei nonni. In vista in linea d’aria a poche decine di metri dal balcone, per raggiungerla occorrevano circa duecento metri di strada, poiché l’ingresso era sulla via Roma.
C’erano stati grandi preparativi per l’inizio della scuola, tutti molto eccitanti. Il grembiule nero con il colletto bianco; la cartella dall’eccitante odore di cuoio nuovo; le matite ed i pastelli colorati, anch’essi con la fragranza dell’odore del legno misto a quello della parte colorata; i quaderni ed i libri, con un fantastico odore di carta e di colla. Per tutta la vita avrei amato questi odori, come il profumo del pane appena cotto, proveniente dal forno a pochi metri da casa mia in Piazza Alfieri. Per arrivare a scuola da casa mia, solo un centinaio di metri in più che dalla casa dei nonni. Ma l’eccitazione si esaurì nei preparativi. La scuola, dopo la curiosità dei primi giorni, si rivelò una delusione ed una noia interminabile. Interminabili le ore dalla campanella d’ingresso a quella dell’uscita. Ritrovammo le stesse astine già padroneggiate all’asilo, una maestra che avrebbe potuto essere la nostra nonna, ma non simpatica ed amabile come lei, ed una cinquantina di compagni, tra maschi e femmine. La prima elementare fu l’unico anno che condividemmo con le femmine, dopodiché intraprendemmo sentieri diversi.
Scoprimmo a scuola che le suore dell’asilo, al confronto con maestre e maestri erano tenere. Perdemmo nella scuola ulteriori diritti che avevamo conservato fino ad allora. Non era permesso parlare, ridere, giocare –se non nell’intervallo- mangiare, bere ed andare al cesso quando ne avevamo necessità. Un giorno, un nostro compagno, Mario, se la fece addosso e dovette essere riaccompagnato a casa dalla mamma per essere cambiato. Noi reagimmo a questa faccenda, prendendo in giro il malcapitato, ma, sapevamo benissimo, che avrebbe potuto succedere a chiunque, e che era una cosa grave, una pesante violazione dei nostri diritti. Mario aveva chiesto alla maestra, come s’usava, alzando la mano ed attendendo il permesso di parlare. Ma la risposta alla sua richiesta -Mi scappa! Posso andare al gabinetto, signora maestra? La risposta fu: -No, al gabinetto si va durante l’intervallo.
Soltanto in un lager nazista, un essere umano può venire umiliato in questo modo, privandolo dei suoi diritti più fondamentali.18 Essendoci questa privazione dell’accesso al bagno, si evitava di bere, quando se ne sentiva la necessità, cosa che è più sbagliata che non evitare di mangiare.19
Ci furono maestri che suscitarono, almeno in parte, il nostro interesse per lo studio. Altri erano molto temuti, ed anche solo una loro supplenza, in un giorno di assenza del nostro/a maestro, era occasione di angosce tremende. Il problema vero fu che in cinque anni di elementari cambiammo decine di insegnanti, e non avemmo continuità con quella figura di riferimento come accadde invece, alle nostre compagne femmine, portate fino in quinta dalla nostra maestra di prima.

La più grossa soddisfazione scolastica per me fu quando, una giovane maestra, appena diplomata, del paese e conoscente di mia mamma, amica di mia cugina Luigina, venne a farci una delle molte supplenze. Nell’intervallo mi prese da parte e mi sbaciucchiò davanti a tutti, ed io mi sentii fiero ed orgoglioso per avere una conoscenza così importante, come una maestra, sia pure per un sol giorno.
Ma le supplenze più belle furono quelle quando non c’era supplente designata e venivamo intrattenuti dalla bidella Rina Piana, con le sue storie incredibili sul cane di Don Bosco, che attingeva chissà dove, sempre diverse, sempre emozionanti, che ci tenevano col fiato sospeso dall’inizio alla fine. Questo cane dall’intelligenza umana e dalla bontà sovrumana, era protagonista di salvataggi di bambini, di smascheramento di ladri ed assassini, e spesso salvava Don Bosco stesso. Se solo avessimo avuto degli insegnanti capaci a raccontare storie come Rina!
Non voglio parlare invece delle balle che ci raccontarono a scuola, sugli accadimenti della storia soprattutto. In queste avrei, avremmo, creduto per molti anni, fino all’incontro con libri diversi, dai quali emerse poi la verità, o, almeno, qualche dubbio su quello che ci avevano insegnato. Ma questa è un’altra storia.
La morale che si respirava fra le righe, era quella solita della voglia di lavorare. Anche a scuola, chi più si impegna, meglio riesce. Forse mi impegnai davvero, forse non sempre al meglio ed al massimo, ma i risultati non premiavano come promesso. C’erano molte ingiustizie, sia nelle valutazioni del rendimento, che in quelle del comportamento. Spesso, un brutto voto oppure una nota sul comportamento, costituivano un notevole peso d’angoscia da portare a casa. Il fatto di essere costretto a far vagliare tutto questo ai genitori, che sempre credevano alle versioni degli insegnanti e mai, alla mia, mi ha indotto a credere che il mondo degli adulti è terribilmente ingiusto. Ma a questa ingiustizia non c’è scampo, in quanto tutti noi ne eravamo coinvolti, consapevoli od inconsapevoli, e stavamo, purtroppo, a meno di un miracolo, diventando quasi come loro.
La scuola mi piaceva talmente tanto, che in quel periodo ero costantemente malato. Il tutto cominciava con bruciore al naso o alla gola, poi la febbre e il delirio da essa portato. Erano febbri sempre molto alte, dovute, dicevano, alle tonsille, che, alla fine, finirono per asportarmi. Al ricordo di questi episodi di malattia sono associate alcune cose ricorrenti. L’immagine più frequente che subito le influenze di quel periodo mi riportano è quella dei carri dei contadini carichi di fieno, che percorrevano il viale, trainati da trattori o da cavalli dalle zampe possenti, nel loro percorso di ritorno in cascina. Le mie frequenti ricadute, benché allora si ritenesse fossero causate dal freddo o da fantomatici “colpi d’aria”, avvenivano nella stagion dei fior, la primavera, da marzo fino a giugno. Era dunque stagione dei fieni nei campi, ed in seguito avrei scoperto il perché, di quelle frequenti indisposizioni primaverili. Sarebbe venuto il tempo, per la medicina, di parlare di allergie, “raffreddori da fieno”, senza peraltro saper guarire nemmeno quelle. Quando, dopo la cura, iniziavo a sentirmi meglio, non sopportavo più di stare giorno e notte nel letto, e desideravo alzarmi ed uscire. Ma siccome uscire non mi era permesso, per almeno una settimana, dovevo accontentarmi di osservare la vita da quella finestra sulla piazza, che dominava, oltre la piazza, tutto quanto il viale, in tutta la sua lunghezza. Questi enormi mucchi d’erba alti e vacillanti erano un vero spettacolo, allora quando non esistevano macchine imballatrici che producevano pacchi di fieni a cubetti. Occorreva una grande maestria dei contadini per costruirli, e, naturalmente, come tutte le cose a quei tempi, una grande fatica. A volte, dai mucchi di fieno spuntavano solo i forconi usati per ammucchiarli, ma, altre volte, proprio sulla sommità, si godevano il viaggio di ritorno, i lavoranti o i figli dei contadini stessi, come il mio amico Claudio. Il buffo era che i portoni delle cascine erano fatti ad arco, molto alti, ma limitavano pur sempre l’altezza del carico in transito attraverso essi. Questi carichi di fieno erano, manco a dirlo, tutti di misura massima. Passavano attraverso i portoni al pelo, facendo cascare qualche ciuffo d’erba, che, nella parsimonia dei tempi, venivano raccolti subito dopo il transito del carro. Come facessero a caricare ogni volta, fino alla misura massima, valutando solo a colpo d’occhio, rimarrà uno di quei misteri che nessuna scienza sarà mai in grado di svelare.
L’altra immagine legata alle guarigioni da quelle sindromi influenzali, è quella di Maria Gilletta, una compagna residente pure lei sulla piazza Alfieri, dall’altro lato, di fianco alla chiesa, che mi portava i compiti da fare a casa. Posso ancora sentire il suo odore di femmina, diverso da quello dei compagni maschi, un odore che esercitava una certa attrattiva. Maria doveva aver preso sul serio quel dovere di farmi fare i compiti, che divenne, maestra di scuola da adulta. Mi piaceva un sacco il pensiero di avere questa compagna speciale che si occupava di me nel momento del bisogno. Le femmine sapevano farlo molto bene.
Ma prima di arrivare al momento di fare compiti e guardare i carri dalle finestre, la dolce convalescenza, pausa dai problemi della scuola e della vita, si doveva attraversare la crisi grave della febbre, del delirio notturno di incubi non riassumibili a parole, dell’immancabile visita a domicilio del nostro medico, delle conseguenti terapie, quasi sempre iniezioni. Il peggio comunque era la prima notte, dove il sonno era agitato da sogni paurosi, grande senso di colpa (per cosa non so, ma il senso di colpa era il filo conduttore di quegli anni), impediva di riposare e, nello stesso tempo, non si riusciva a rimanere lucido e sveglio, per tener lontani quegli incubi paurosi. Poi la voce del medico in cucina. Per la visita, al mattino, mia madre mi lavava, rifaceva il letto grande e mi ci faceva coricare per agevolare la visita del dottore, impraticabile nel mio lettino con le sbarre. La mamma aveva aperto le persiane della finestra e del balconcino, facendo entrare la rassicurante luce del mattino, che scacciava, almeno per questa volta, le paure dei delirii notturni. Ël dotor puzzava terribilmente di fumo di sigaretta. Durante le visite non fumava, ma nel suo ambulatorio, quando andavamo per vedere se potevo tornare a scuola, l’aria era praticamente irrespirabile. C’era una spessa nebbia azzurrina stagnante. Con la sua voce roca da milioni di cicche, chiedeva a mia madre -Cosa a ‘s sent?20, non a me, il diretto interessato. Poi palpava, batteva l’addome con le nocche, auscultava con lo stetoscopio, si faceva dare un cucchiaio da mia madre e mi estraeva con quello, la lingua tutta, facendomi venire un conato di vomito. Non capisco perché non gli abbia mai vomitato addosso.
Alla fine, il risultato era sempre lo stesso: antibiotici, che, in quegli anni significavano iniezioni intramuscolari, antifebbrile, sciroppo dolciastro per la tosse. Va detto, ad onor del vero, che dopo l’inizio della terapia, si stava meglio, probabilmente per merito degli antipiretici. La seconda notte non c’erano più i fantasmi spaventosi della prima notte. Dopo la prima esperienza cosciente di tutta la trafila, che comprendeva l’uscita di mia madre per l’acquisto dei farmaci e la chiamata ëd la levatris21, per infliggermi la tortura dell’iniezione sulle chiappe, implorai il medico che non prescrivesse le iniezioni, ma con nessun risultato apprezzabile: quelle non mancavano mai.
La bussata seguente, recava l’immensa mole ëd la levatris, che, dapprima armeggiava con mia madre in cucina per bollire sul pipigas tutto il suo armamentario di siringhe ed aghi. La tremenda paura per le ponture, oggi potrebbe apparire insensata, ma allora non esisteva l’usa e getta per niente, tantomeno per Pic Già fatto?, e quegli aghi bolliti un attimo prima, avevano probabilmente profanato migliaia di culi, e dire che erano solo spuntati era una visione ottimistica: era come farsi infilare un chiodo nelle chiappe. Ma tant’è, a nulla valeva il mio spostarmi da una parte all’altra del letto per impedire all’enorme signora armata di siringa spruzzante verso l’alto, di profanarmi il didietro. Mia madre da una parte, l’altra dall’altra, mi beccavano e mi denudavano la parte. La tortura era lunga, se consideriamo dal momento in cui la levatrice aveva bussato, la bollitura, l’inseguimento, il massaggio col cotone ed alcool, prima e dopo ed il dolore dopo, dovuto al liquido iniettato. Non era come l’iniezione al petto da militare, ma insomma, per un bambino…e queste esperienze mi facevano temere per quelle future iniezioni militari, dato che il babbo, ogni volta, non mancava mai di sottolineare sosi a l’è gnente, speta che ‘t vadi soldà!22
Dopo la tortura, la megera mi dava delle pastiglie di zucchero che aveva soltanto lei. Parevano dei sassolini colorati. Pasticche con la crosta come i confetti da sposa, di zucchero duro, di colori e forme diverse. Non li ho mai visti da nessuna parte in vendita. Li aveva solo la levatrice. Chissà dove si riforniva?

Tutto quello che aveva a che fare con i medici, mi metteva doppiamente in balia degli eventi. Già lo ero di fatto, per essere un bambino indifeso, ma, ancora di più lo si diventava quando si era in balia di istituzioni come gli ospedali. Ho avuto talmente tante e precoci di queste esperienze, che, in seguito, da adulto, me ne sono tenuto prudentemente lontano, alla larga.
Non conservo ricordo diretto del mio primo contatto con questo tipo di istituzione, perché ero troppo piccolo, meno di due anni d’età, ma se è vero che esiste un lato inconscio della mente, da qualche parte conservo questa tremenda esperienza. Tremenda è dire poco se si considerano le implicazioni, psicologiche e simboliche di quel che mi fecero. Qualcuno decise che la pelle che ricopriva il mio piccolo pene era troppo stretta per motivi igienici, così me la tagliarono. Praticamente una piccola circoncisione, non così piccolo da essere incosciente ed insensibile, come per tutti i circoncisi, che, immagino, saranno tanti, ma non abbastanza grande da capire il motivo di questa tortura. Non credo occorra dire altro su questa incresciosa faccenda.
Il secondo contatto, se così si può dire, con gli ospedali e la situazione medico ospedaliera, all’età di cinque anni, per appendicectomia. Dopo vari episodi di dolore addominali, divenne indispensabile ricorrere a questo intervento. In questo caso ricordo perfettamente l’anestesia, con l’etere versato nella cosiddetta “maschera” ed la subitanea perdita della conoscenza. Tremendi i postumi della “sbronza” da etere. Nausea, vomito, inappetenza.
Due anni dopo, se ne andarono tonsille ed adenoidi, che la natura aveva posto lì, sicuramente per qualche scopo, ma la moda medica, in quegli anni, era quella, anche se, in seguito, hanno invertito la tendenza, dopo aver fatto molti danni. Tutti questi interventi infantili furono probabilmente facilitati dal fatto che, il figlio del negoziante di generi alimentari, era diventato proprio in quegli anni, chirurgo in forza al vicino ospedale d’Orbasan.
Il quarto contatto, fu dovuto ad incidente di gioco, pressappoco all’epoca della quarta elementare.
Facendo uno di quei giochi di gruppo tipo fulmine o qualcosa di simile, la mia clavicola destra ebbe uno scontro con una fronte molto dura, tanto da procurarsi una frattura gravemente scomposta, che richiese un vero intervento chirurgico. Quel pomeriggio ero in casa con nonna, come sempre quando i miei erano al lavoro. Questo successe prima che la scuola tirasse fuori la novità del “doposcuola” per i figli dei lavoratori, che avrebbe raddoppiato le ore di tortura scolastiche. Nona spaventata, non sapendo che fare, chiamò la nonna di Luigi, una signora “veneta” che a buta a post ij nerv23. Se non fosse stata scomposta prima, certamente lo fu in seguito alle manipolazioni di costei. Il dolore quella volta fu insopportabile, dal momento dell’incidente fino alla fasciatura, il giorno successivo alle Molinette. Non fu una passeggiata. Passai una notte d’inferno, senza riuscire a dormire. Poi, al mattino venne il solito medico, che prescrisse il ricovero per supposta frattura. Poi la camminata fino alla fermata dell’autobus. La camminata da Porta Nuova alle Molinette. Ogni scossone mi dava fitte lancinanti e mia mamma mi faceva camminare velocemente. Saremmo andati dal culo a prendere per quella volta, per quella emergenza, un taxi? Comandavano gli adulti, e noi, anche feriti a morte, si obbediva e si taceva.
Dopo la fasciatura, in attesa dell’intervento, che fu una settimana dopo, il dolore divenne sopportabile. Ricordo una gran paura dell’anestesia e dell’intervento stesso, mitigata da una bella e simpatica infermiera del reparto. Cominciavano a piacermi le donne. O forse mi erano piaciute sempre. Durante l’attesa dell’intervento la paura divenne terrore, ma, anche le cose brutte, alla fine passano. Dopo l’anestesia in endovena, non ebbi tempo di accorgermene che mi ritrovai a sera, con un sonno terribile, con tutti i parenti che cercavano di tenermi sveglio, perché avrebbero dovuto ingessarmi.
Mi fecero un busto completo, dal quale fuoriusciva libero solo il braccio sinistro. La mano destra spuntava dal busto all’altezza delle ultime costole inferiori, e riusciva pure a fare qualche cosa. Il problema era che essere chiusi per così tanto tempo, in un busto di gesso, dava un prurito tremendo. Grattandomi con un ferro di calza, scoprii quanto puzzassi la sotto, dopo tanto tempo senza potermi lavare.
C’era in quella faccenda un altro spauracchio. Durante l’intervento chirurgico, mi era stato inserito un ferro che sosteneva la clavicola. Lo potevo toccare, inserendo la mano sinistra nell’apertura del collo. Incominciai quindi a temere il momento in cui gesso e ferro sarebbero stati tolti. Pensavo ad un altro intervento chirurgico. Si rivelò invece una bolla di sapone, una paura per nulla. Il ferro venne tirato fuori e nemmeno me ne accorsi.
Dimesso dall’ospedale, potei salutare i miei compagni dal balcone della casa dei nonni, dalla quale si poteva vedere la mia classe. Nonostante le malattie frequenti, non ero mai stato assente così a lungo, ed avevo voglia di rivederli. Quell’anno avevamo uno di quei maestri simpatici che riuscivano a rendere un po’ più interessanti le ore passate in classe.
Riuscii pure ad imparare a scriverci, con quella mano che spuntava dal busto, e, dopo una lunga convalescenza, tornai a scuola, cercando di recuperare il tempo perduto. Ma a scuola ero considerato uno di quelli bravi, e me la cavavo sempre. Anche se magari ero soltanto un mediocre, non fui mai bocciato, ne’ rimandato a settembre, in tutta la carriera scolastica. Diciamo che ero un furbacchione lavativo: facevo il minimo indispensabile per farmi benvolere dagli insegnanti, in modo che non avessero preconcetti negativi su di me. In fondo, è soltanto questo che occorre fare.
Tolto il gesso ed il mio sostegno di fil di ferro, sarebbe occorsa fisioterapia per la riabilitazione, un osteopata almeno, per ridurre i traumi ai tessuti. Ma allora non sapevamo nemmeno dell’esistenza di queste cose. Non immaginavamo nemmeno che queste cose erano quasi in conflitto con la medicina ufficiale, che, in casi ortopedici, prevedeva applicazioni di calore ed altre sciocchezze del genere.
Tutta la faccenda che riguardava medici, malattie, medicine, guarigioni ed ospedali aveva attorno a se’ un certo alone di fatalità. C’era nell’aria, negli adulti, la convinzione forte, che ci si dovesse affidare ciecamente ai medici, i quali avevano a disposizione gli strumenti per risolvere qualsiasi problema si presentasse. Gli strumenti a disposizione erano sempre, solo, di tipo chimico, da introdurre nel corpo in bocca, nell’ano oppure tramite siringa. Quando, ovviamente, non si trattava di cose peggiori e più invasive come interventi chirurgici. La magica chimica dei medici, che si acquistava –oppure era fornita dal sistema sanitario, ma qualcuno la pagava in ogni caso- in farmacia, avrebbe dovuto “guarire” ogni cosa. Che non fosse proprio tutto così rose e fiori, l’avrei scoperto solo molti anni dopo. I medici, le medicine, tutto il sistema era concentrato sui sintomi delle malattie. I sintomi, quali febbre, tosse, dolori eccetera, cessavano quasi immediatamente, ma la malattia era soltanto quei sintomi? Perché, ad esempio, io mi ammalavo così spesso?

Ci fu un periodo in cui ero innamorato di una compagna che portava gli occhiali all’epoca, e desiderai quasi d’averne bisogno anche io, per ottenere quell’aria un poco intellettuale che hanno i miopi. Così chiedevo a mia mamma: -Mama, starijo bin mi con ij uciaj?24
Fu un amore precoce. Facevamo alcune cose insieme, come andare al cinema. Cioè, io mi sedevo nella fila dietro di lei, della mia “fidanzata”. Solo io ed i miei amici sapevamo che lei era la mia fidanzata, non lei. A quei tempi là, mica era un vanto, avercela la fidanzata, perché, se qualcuno al di fuori della cerchia degli amici per la pelle, che era un’istituzione abbastanza labile ed instabile, si rendeva conto della faccenda, erano prese in giro da fare arrossire. Non era una bella cosa che lei si accorgesse, da discorsi di terzi, di essere la mia fidanzata. Un’altra cosa in cui confidavo, era di portarla a fare un giro sugli autoscontri. Ma soldi ne avevo sempre pochi ed accadeva che, o lei arrivava ed io avevo finito i gettoni acquistati, oppure, anche se riuscivo a portarla con me, finiti i gettoni lei saliva con qualcun altro che ne aveva ancora, mentre io soffrivo le mie prime pene d’amore e gelosia, sulle note de La fisarmonica, di Gianni Morandi. Una volta ci recammo insieme a passeggiare sulle rive del Sangone, insieme a Franco ed un’altra ragazza, che era la sua fidanzata. Le due ragazze erano amiche. In quella passeggiata non ci fu concessa un po’ d’intimità. Un altro ragazzo ci seguiva, non invitato, passo passo. Inutile pregarlo di andarsene. Le rive del Sangone erano di tutti.

Quanto agli occhiali, per fortuna avevo una buona vista e non ne ebbi mai bisogno. Fino almeno al momento di scrivere questi ricordi.