Data creazione pagina: 29/07/2013 1:56

- Titolo: Capitolo 5 - Come eravamo.


C’era allora la consapevolezza di essere poveri, e come tali tutti si comportavano. Beninteso nessuno si sentiva così povero come quei barboni che, di tanto in tanto, passavano per le case chiedendo l’elemosina. Ma c’era nella gente la convinzione della precarietà della condizione economica. Una malattia, la perdita del lavoro, erano considerati guai sempre in agguato, che avrebbero potuto, all’improvviso, rendere estremamente aleatoria, la relativa sicurezza della vita della gente comune, basata su uno stipendio da lavoro dipendente o sul reddito da lavoro autonomo. Questa etica della povertà, assieme all’insegnamento costante dell’idea della “voglia di lavorare”, era una delle prime cose che venivano insegnate a noi bambini. Non era difficile comprendere l’idea di povertà con il conseguente insegnamento che necessariamente ne derivava. Difficile fu comprendere appieno quella faccenda della voglia di lavorare.
In fondo gli adulti che si occupavano di noi, erano reduci da una vita di miserie. C’era stata la guerra, il cui ricordo era ancora vivo alla loro memoria, insieme agli stenti, ai soprusi, ai disagi, ad essa collegati. Non si stancavano mai di parlarcene, quasi ad ammonirci che la vita avrebbe potuto non essere sempre così “rose e fiori”, come lo era per noi, in quei primi anni. I nonni poi avevano ricordi anche di guerre precedenti: la Grande Guerra del “quindici-diciotto”, come la chiamavano, il cui scopo sembrava essere nobile negli intenti, la liberazione del suol patrio dallo straniero, a cui testimonianza restavano le canzoni degli alpini, affusti di cannoni ed elmetti davanti ai cimiteri, ma i cui effetti, sulla povera gente erano sempre gli stessi: sacrifici di giovani vite umane, stenti e miserie fra la popolazione; la guerra d’Africa, dovuta alle mire imperialistiche del passato regime. Tutti avevano ricordi di parenti non più tornati da quelle avventure forzate, che mai si sarebbero sognati di intraprendere. Sullo stesso pianerottolo dei nonni, viveva Banin detto l’African, per aver partecipato alla guerra d’Africa del ‘trentasei. A testimonianza di questa sua avventura rimaneva, nella baracca di legno che noi chiamavamo enfaticamente garage, dove io giocavo “alla casa” con una delle sue due figlie, un candido casco coloniale dalle larghe tese. All’ultima guerra, una faccenda molto complicata da comprendere per un bambino, aveva partecipato lo zio Luigi, papà dei miei due cugini. A casa si raccontava spesso l’episodio del suo ritorno, dopo anni di prigionia, anche lui in Africa, per un’altra avventura. Mio padre, allora poco più che un ragazzo, uscito a fare compere, lo incontrò per il viale, ma entrambi i fratelli non si riconobbero, per i tanti anni trascorsi dall’ultima volta che si erano visti. Mio padre era cresciuto dalla fanciullezza all’adolescenza, mentre il fratello era stato via di casa, per i lunghi anni della guerra. Mio padre cresciuto, non rientrava nel ricordo di zio Luigi, nell’idea che conservava di lui. Lo zio Luigi, cotto dal sole africano, provato nel fisico da guerra, stenti, fame, prigionia, non corrispondeva all’immagine che mio padre aveva del fratello partito per la guerra. Sicuramente mio padre non si aspettava, proprio per quel giorno, un giorno come tanti, il suo ritorno. Fu così sorpreso, tornando a casa dalle sue commissioni, di trovarci proprio lo sconosciuto incontrato per il viale di tigli. A quei tempi gli sconosciuti, in un paese piccolo come il nostro, non passavano certamente inosservati! Ancor più sorpreso quando realizzò che lo sconosciuto era suo fratello! A perenne ricordo di questa sua coatta lontananza da casa, lo zio Luigi aveva sul braccio, la parola “MAMMA”, grossolanamente tatuata in colore blu, fatta probabilmente con mezzi di fortuna, in condizioni igieniche che non oso nemmeno immaginare. Diceva di esserselo fatto fare perché disperava di non rivederla mai più.
L’ultima guerra era una faccenda complessa della quale non capivo le sottigliezze delle alleanze, non capivo chi fosse il nemico. Non era semplice come nei films che vedevamo al cine parrocchiale. Lì tutto era lapalissiano e comprensibile. Gli indiani erano nemici delle giacche azzurre. I barbari erano nemici dei Romani. Si capiva sempre quali fossero i buoni, e quali fossero i cattivi. Ma dai racconti sull’ultima guerra emergeva un guazzabuglio inestricabile di intrighi e alleanze. Il problema vero era che esistevano troppe parti in causa. Fascisti, tedeschi, americani, partigiani. Come legare fra loro tutte queste fazioni per la comprensione di un bambino? Poi le alleanze non furono sempre le stesse durante tutto il corso della guerra. Prima eravamo alleati con i tedeschi, poi i tedeschi diventarono i nemici assieme ai fascisti, che erano degli italiani. Fascisti e tedeschi cercavano i partigiani per ammazzarli. Gli americani con i loro alleati sono venuti a liberarci, ad aiutare noi e i partigiani. Ma per farlo bombardavano paesi e città, distruggendo le case della povera gente, costretta a fuggire in piena notte in cantina o nei rifugi improvvisati in grotte scavate in riva al Sangone. La gente aiutava i partigiani e temeva tedeschi e fascisti. Mi ci vollero anni e le scuole per dirimere la questione. Solo dopo potei correttamente interpretare i racconti degli adulti su quel periodo. L’io bambino non riusciva a comprendere chi fossero i cattivi, o forse sarebbe meglio dire che era difficile trovare i buoni, lì in mezzo. Tutti ammazzavano e commettevano le peggiori nefandezze. Solo gli adulti possono commettere e concepire orrori come quelli della guerra. I bambini non riuscirebbero. Gli adulti sono bambini corrotti, mediante l’educazione e l’esempio da altri adulti. Se si prendessimo dei bambini, allevati da se stessi, per colonizzare un altro pianeta, questi non concepirebbero mai una guerra. Non condivido affatto il pessimismo espresso da William Golding ne Il signore delle mosche, dove i bambini, naufragati soli senza adulti su un’isola, finiscono per ammazzarsi fra loro, proprio come fanno gli adulti, perché il male, secondo Golding, è insito nella natura stessa dell’uomo: l’uomo produce il male. Il male è nel nostro sistema culturale. I bambini, forse, realizzerebbero la società felice e perfetta. L’utopia. Il problema sarebbe solo quello di dare loro l’amore necessario nelle prime fasi della vita, senza che questo amore sia mescolato ad altri sentimenti deleteri. Il problema vero è che l’amore, allo stato puro, non esiste su questo pianeta. Esso è sempre frammisto ad altri sentimenti negativi. Rancore, invidia, egoismo, accompagnano l’amore come erbe cattive si accompagnano ai raccolti. Forse è giusto che sia così, per l’evoluzione spirituale delle persone. Nella pace e nella felicità perpetua le persone si annoierebbero. Forse si inventerebbero le guerre per divertirsi. Le persone, tornando con i piedi per terra, non sono mai solo del tutto buone o del tutto cattive. Buono e cattivo coesistono in varia misura nella stessa persona. La misura è mutevole in base alle circostanze e alle opportunità.
La contraerea tedesca era accampata nei campi ëd Gonsi, poco lontano da casa dei miei nonni. Essi erano lì per contrastare l’opera dei bombardieri alleati. Apparentemente, ma anche realmente, costoro difendevano i miei antenati dai bombardamenti. Mio padre, all’epoca un ragazzino, andava in campagna a raccogliere legna da ardere, a estrarre le suche1. Alla lunga, i soldati tedeschi lì accampati, lo presero a benvolere ed il cuoco a volte gli dava pane e minestra in cambio di uova o verdure dell’orto.
D’altra parte, si racconta di una retata per cercare i partigiani, ad opera dei tedeschi, proprio nella cascina ëd Mason, di fronte alla abitazione dei miei. I tedeschi forse avevano ricevuto una soffiata, perché i partigiani erano effettivamente nascosti ën t’ël pajè 2 di quella cascina. Tutti gli abitanti furono fatti schierare ën t’ël aira 3, compresi i miei nonni ed i loro figli. Se fossero stati trovati i partigiani, tutti quanti sarebbero stati tutti fucilati immediatamente, perché usava così per tutti i sospettati di aiuto ai partigiani, ai sovversivi. I miei nonni raccontavano questa storia, come di una volta che ebbero davvero paura di morire tutti. Caso volle che c’era un tale, un masoé4 ‘d Mason, che parlava tedesco, e seppe convincere i tedeschi che non c’era nessun partigiano. O forse, semplicemente non era giunta l’ora per loro. Altrimenti io non sarei qui, adesso, a raccontare questa storiella.
D’altra parte gli alleati, con le loro bombe facevano danni e vittime. Ancora oggi, a più di cinquant’anni dalla fine del conflitto, si rinvengono le loro bombe inesplose: non devono avere davvero fatto economia! Io, una teoria l’avrei sull’opera umanitaria dei salvatori americani, tanto osannati per averci liberato.
Innumerevoli furono i racconti di allarmi aerei nel cuore della notte, che costrinsero i miei nonni ed i loro figli a lasciare il loro tiepido letto per fuggire nei rifugi, o anche solo in cantina. C’era allora questa moda, dove i rifugi erano lontani, di andare tutti in cantina. E’ evidente perfino ad un bambino l’inutilità di fuggire in una cantina! Se per azzardo del caso la casa fosse stata centrata da una bomba, i rifugiati sarebbero stati sepolti da un cumulo di macerie molto più grande, di quanto sarebbe stato se fossero rimasti nelle loro stanze. Oppure no. Chi può dire come si dispongano le macerie di una casa distrutta da una bomba.
L’episodio più toccante per il suo esito, fu quello occorso a mio padre. Suonò l’agghiacciante sirena dell’allarme aereo proprio durante la messa domenicale. Mio padre ed un suo coetaneo si precipitarono verso casa. Mio padre proseguì per via Fornasio, mentre il suo amico preferì tagliare attraverso la scorciatoia di un vicoletto chiamato la viëtta 5. Entrambe le vie portavano pressappoco allo stesso punto. Avrebbe potuto imboccarla anche mio padre, col solito risultato che io non sarei qui ora a raccontarlo, perché lui non avrebbe potuto raccontarmelo, ne mettermi al mondo. Il suo amico fu centrato in pieno da una bomba aerea.
Oltre a portare via i giovani dalle loro case, instaurare il terrore fra la popolazione, le guerre producevano miseria. Correvano parole strane fra gli adulti, che impiegai parecchio a comprenderle appieno. Tessera e razionamento. Borsa nera. Polizia annonaria. La nostra nazione fu soggetta ad embargo da parte degli alleati. Così cominciarono a scarseggiare le risorse. Prime fra tutte, e più sentite fra povera gente che già non sguazzava nel lusso nemmeno prima di questo evento straordinario della guerra, le risorse alimentari. Il grano, quindi il pane, la pasta, lo zucchero, l’olio il caffè. Questi generi di prima necessità per la gente, furono razionati. Con la Tessera ne toccava un quantitativo esiguo per ogni persona. Lunghe code per l’approvvigionamento, fino a che il bene terminava, e chi si trovava ancora in fila tornava a casa con le mani in tasca. Si raccontava di commercianti disonesti che imboscavano, nascondevano le merci per poi rivenderle a prezzi esorbitanti, arricchendosi in questo modo disonesto sulla pelle della povera gente. La Polizia Annonaria avrebbe dovuto vigilare su tutto questo.
Date queste premesse, dei recenti avvenimenti bellici, c’era il culto del cibo, l’avversione per qualsiasi spreco. Questi valori ci furono trasmessi, inculcati a viva forza. Ancora oggi che non esistono più le necessità materiali di allora, sono presenti in me. Di questo credo dover ringraziare tutti coloro che me li hanno fatti apprendere. Stimo che anche oggi siano da considerare virtù perfettamente “ecologiche”, che ben si adattano alle esigenze del mondo del duemila, solo che, purtroppo, non li coltiva più nessuno.
Sapendo queste cose, sarà più facile comprendere se allora si viveva con la fissazione del cibo, la sacralità del pane e di tutti gli alimenti che andavano consumati senza sprecare nulla. Si può capire la tendenza a “riciclare” ogni oggetto, ad usare cose che oggi butteremmo senza nemmeno pensarci una sola volta. Esisteva una coscienza davvero ecologica, tanto quanto oggi è tanto ricercata e fasulla, spontanea ed interessata allora, che affondava le sue radici nella coscienza contadina che la sopravvivenza nostra come specie, dipende dalla sopravvivenza della natura, intatta ed incontaminata. Una specie di magica paura del sovvertimento dell’ordine naturale delle cose. Il consumismo di oggi ha distrutto quei valori ingenui ma forti, ed è davvero triste constatare gli sprechi e gli inquinamenti di oggi. Sia chiaro che l’inquinamento ambientale c’era allora come oggi, ma non erano inquinati gli animi umani di quelle care persone, che non sono più qui ora. Anzi, proprio in quegli anni “cinquanta”, le grandi potenze conducevano innumerevoli esperimenti atomici nell’atmosfera, causando con ciò stesso più morti di cancro, negli anni successivi, di quanti ne abbia causati la guerra. Tutti i miei nonni, alcuni miei zii, sono morti in questo modo.
Attorno alla casa dei nonni c’era una grande quantità di terreno. In un condominio di oggi tale terreno si utilizzerebbe al massimo per farci delle aiuole di fiori, o prati all’inglese, che produrrebbero tanto lavoro di tosatura, una grande quantità di rifiuti organici, sotto forma di erba tagliata e rami di rose potate. Il tutto da buttare nella spazzatura. Allora si fecero degli orti. Un piccolo appezzamento di tre metri per quindici suddivisi tra tutti i condomini. Ognuno coltivava in quell’orticello verdure per il sostentamento della famiglia. Oggi, nei condominii di adesso, gli orti sono considerati “indecorosi”, così come si considera indecoroso, non ho mai capito perché, nel mio pragmatismo, stendere i panni ad asciugare in bella vista sui balconi. Allora l’unica cosa davvero indecorosa era lo spreco. Pensare di avere tutta quella terra infruttuosa, ëd gerb6, sarebbe stato addirittura immorale. Pensare poi di produrre erba da tagliare ogni settimana, senza avere conigli o altri animali da nutrire, per buttarla nelle immondizie, sarebbe parso folle, da manicomio. Anzi a quei tempi non esisteva nemmeno un servizio comunale di raccolta rifiuti. In fondo ad ogni appezzamento di orto, era stato predisposta una fossa coperta, dove venivano gettati tutti i materiali organici a macerare, in attesa di concimare, nella stagione opportuna, l’orto stesso. Ciò che non era destinato alla fossa organica, lo era per il potagé. Il resto veniva riciclato, aggiustato all’infinito. Rifiuti veri e propri, nel senso che oggi si dà a questa parola, praticamente non ne esistevano.
Al termine dei lavori di costruzione della casa dei nonni, rimasero tutti gli assi delle impalcature e delle gettate di cemento, le travi più grosse di sostegno. La maggior parte di questo legno si trasformò nei garages, baracche di legno ricoperte di lamiera, che contenevano biciclette motorini, attrezzi per l’orto e altre cianfrusaglie che non stavano bene in casa. I pezzi più piccoli, non utilizzati per le baracche si trasformarono in panche, carretti, mensole. Tutto il resto nel potagé. Non si buttarono nemmeno i chiodi infissi in quegli assi. Ne’ se ne comprarono di nuovi per la costruzione delle baracche e degli altri ammennicoli. Furono estratti i vecchi chiodi usati dai muratori e pazientemente raddrizzati. Parin era un esperto in questo genere di cose. Possedeva degli appositi attrezzi per questo scopo. Lo strumento principe era il martello da carpentiere, con le ungie7. Poi esistevano le tenaglie, per i chiodi difficili da estrarre con le “unghie” del martello da carpentiere e un pezzo di rotaia del treno, che serviva da ancuso, da incudine, per la successiva operazione di raddrizzamento del chiodo estratto. Il chiodo estratto e raddrizzato, tornato come nuovo, pronto per essere riutilizzato, veniva riposto insieme agli altri recuperati in precedenza, in una vecchia latta di acciughe, a seconda della grandezza del chiodo stesso. Tutta la faccenda del recupero chiodi poteva richiedere un bel po’ di tempo. Oggi, che il tempo è danaro, ci si interrogherebbe sulla convenienza dell’operazione. Di fatto oggi non si recuperano ne’ si riparano cose molto più preziose dei chiodi. Ma Parin, pensionato, l’unica ricchezza che aveva, a quel punto della sua vita, era proprio il tempo. Oggi con mezzi veloci, computer, internet, tutte cose che dovrebbero aiutarci, di tempo ne abbiamo sempre meno, pur con tutto l’aiuto delle tecnologie, e non ci guardiamo nemmeno più in faccia.
Non c’era pezzo di legno che, prima di finire nel potagé, non venisse esaminato da Parin, per l’azione del recupero chiodi.
Il recupero stesso delle cose in generale, sembrava non avere mai fine. La legna recuperata, finita nel potagé, diventava cenere, che a sua volta serviva ancora per altri usi. Messa in un sacchetto di tela, la cenere veniva usata da nonna per fare la lëssiva8, il bucato. Le cose lavate avevano un vago sentore di fumo, che io erroneamente attribuivo all’onnipresente toscano del nonno. L’odore si sentiva anche nel letto, fra le lenzuola appena messe. Mi addormentavo con quell’odore nelle narici, quell’odore che c’era solo nel letto destinato a me nella loro casa. Quell’odore di fumo mi dava la consapevolezza, anche nel dormiveglia, di dove mi trovassi a dormire, visto che a volte dormivo a casa, a volte dai nonni. Il sentore di fumo mi dava quella felicità in più, derivata dalla consapevolezza di essere lì, con loro vicini, al sicuro ed amato. Sì, in generale gli adulti erano severi e dogmatici con me bambino, ma i nonni erano più tolleranti in quanto nonni. Forse, ad una certa età, con i nipoti, le persone tornano ad essere più vicine all’infanzia di quanto non lo fossero quando si trovarono ad essere a loro volta genitori. Nella seriosità del loro atteggiamento verso me, si percepiva l’amore. Ho passato molto tempo da bambino con loro. Mi erano molto cari. A volte ho chiamato mama, mia nonna. Lei ne era felice. Mia madre un po’ meno!
C’erano le stagioni fredde, in cui si viveva praticamente in casa, il che significava in cucina, l’unica stanza riscaldata, con rapide escursioni all’esterno, inbaccuccati fino all’inverosimile. Il potagé era il centro caldo ed accogliente nelle fredde giornate invernali. I nonni, rilassati per abitudine contadina, in questa stagione, e per la loro quiescenza senile, dopo i pasti raccontavano storie vecchie, di masche9, di guerra, di antiche tradizioni contadine, della loro povera gioventù. Raccontavano delle loro serate invernali della gioventù, quando tutta la famiglia, nel senso più ampio possibile, insieme con il vicinato, si riunivano nelle stalle, luogo reso caldo e accogliente dalla presenza di molti grandi mammiferi, mucche, asini, cavalli, porci, capre e pecore, in uno spazio ristretto, a fare la vijà10. Alla loro epoca, queste riunioni serali erano un momento di vere relazioni sociali rilassate e divertenti. La stagione invernale era, per i contadini, la stagione del riposo: in quel periodo dormiva anche la campagna ed i lavori da fare erano pochi, meno faticosi. Si spanava la meglia11, si intrecciavano canestri con i rami ëd sales12, le donne sferruzzavano e cucivano. Nel frattempo si raccontavano storie, si spettegolava, si giocava a carte, si cantava, si beveva vino in compagnia. I giovani andavano raminghi a fare la vijà, dove c’erano le ragazze che li interessavano. Molti, soprattutto i più giovani, finivano per restare a dormire, su un giaciglio di paglia, nella stalla calda. Noi si rivivevano in piccolo queste antiche vijà dei tempi andati, nella cucina dei nonni, in modo domestico, senza l’odore ne’ il calore delle mucche. Si giocava a carte dopo cena, in quella cucina illuminata con la lampadina da “trenta candele”, che dava una luce fioca, intima. A volte Parin, con le mani unite insieme a novanta gradi, creava sul muro l’ombra della crava, la capretta ruminante. Apriva leggermente a metà le quattro dita della mano sinistra, distesa e racchiusa dalla destra, simulando la bocca che masticava. I pollici erano ij cornet13. Questo gioco già conosciuto era sempre divertente, perché per quanto ogni volta Parin mi spingesse a provarci, l’ombra delle mie manine non dava lo stesso effetto. Occorrono le mani nodose e un po’ rigide per il tanto lavoro di un vecchio per proiettare l’ombra di una capra perfetta. Ci riesco adesso. Ma i miei figli hanno la televisione che cattura il loro sguardo e la loro attenzione, riderebbero annoiati di un vecchio che proiettasse l’ombra della capretta, fatta con le mani, sul muro della cucina.
Anche le carte avevano un loro fascino particolare. Avevano un odore forte, particolare, che era proprio delle carte da gioco molto vissute. Toccate da tante mani che sapevano di sudore e di tabacco. Parin si inumidiva il pollice con la lingua, prima di maneggiarle. Erano carte piemontesi molto consunte. Non erano mai state nuove. O meglio, lo erano state, ma molto tempo prima di entrare in casa dei nonni. Probabilmente provenivano da qualche osteria, dove giocatori incalliti, e forse nemmeno molto sobri, le avevano inumidite con la loro saliva. Così, nel tempo, salive diverse ed unto di tante mani, unite all’odore particolare delle carte da gioco nuove, avevano conferito a quell’odore caratteristico delle nostre carte da gioco. Ma la magia delle carte,comprendeva il mistero dei disegni e dei quattro semi. Cheuri, fiori, piche, quadër, da l’ass al des, dal fant al re14. Per alcuni giochi andavano tolte le carte di valore alto: otto, nove dieci. Per altri giochi le carte basse, le lëcce15, due, tre quattro e cinque. Più tardi, giocando con altri vicini nel cortile, scoprii che a seconda della provenienza regionale dei giocatori, non solo le carte da gioco erano diverse, ma anche le regole variavano leggermente a seconda della regione d’Italia. In alcuni mazzi c’erano i cavalli o cavalieri, che nel mazzo piemontese non esistevano e addirittura, i semi conosciuti erano sostituiti da bastoni, coppe, denari e spade. Ma a parte questo, i giochi erano fondamentalmente gli stessi. Mentre noi utilizzavamo il dieci per il suo valore a briscola, altri usavano il due e il tre come “carichi”, togliendo addirittura dal mazzo i dieci.
A l’osto ‘d Pinot16, i grandi giocavano con delle carte più grandi e strane, con diavoli e angeli, i misteriosi tarocchi.
Scopa, briscola e tre sette erano i giochi che imparavo e giocavo, grazie all’infinita pazienza dei nonni, in quelle fredde serate invernali, nella accogliente cucina della loro casa, riscaldata dal potagé, e illuminata dalla discreta lampadina che rischiarava soltanto il tavolo dove si giocava, lasciando il resto della stanza in una penombra discreta. Per giocare, dopo cena, si stendeva sul tavolo sparecchiato, la cuèrta da stirè, una vecchia coperta di lana tipo militare, usata anche per stirare sullo stesso tavolo. Non si poteva giocare a carte sul tavolo senza la coperta, perché altrimenti le carte si sarebbero rovinate sul legno del tavolo, dato che, non essendo cedevole, non sarebbe stato agevole infilarci le dita sotto per sollevarle. Era una cosa vietatissima rovinare le carte, conferendo loro pieghe indesiderate, dovute a movimenti maldestri. Le carte logorate dall’uso, avevano una loro naturale incurvatura lieve nella parte più corta, dovuta alla forza con la quale i giocatori le tenevano strette in mano, sistemate a ventaglio, ora chiuso, ora riaperto, con un semplice scorrimento del pollice. Tali movimenti erano dovuti all’intento di tenere le carte nascoste agli avversari ed alla necessità di vederle per decidere la carta da giocare in base alle esigenze del gioco. Quando gli entusiasmi dei primi giochi dopo cena si andavano smorzando, e nascevano i primi sbadigli, si passava alla costruzione di fragili castelli di carte, che cadevano quasi sempre prima che fossero davvero terminati, secondo le intenzioni. Poi, quando gli sbadigli si facevano più intensi, passandosi dall’uno all’altro perché gli sbadigli, si sa, sono contagiosi, si riponevano le carte nella loro scatola, consunta almeno quanto le carte, ed iniziavano i preparativi per andare a letto. Occorreva scaldare un po’ il letto, per smorzare il trauma del passaggio dalla cucina calda alla gelida camera da letto. Dopo un po’ di tempo il corpo caldo avrebbe riscaldato la nicchia nelle lenzuola protette dalla trapunta17. I metodi per il riscaldamento del letto erano diversi. Il più comune consisteva nel riempire un contenitore di rame apposito di acqua caldissima, richiuderlo e inserirlo nel letto alcuni minuti prima di coricarsi. La botticella veniva poi spinta, nell’atto di coricarsi, al fondo del letto, per riscaldarsi le estremità, che erano le più restie a tenere il calore. Affinché non ci si scottasse i piedi, il contenitore di rame veniva infilato in un sacchettino di tela che ne mitigava il calore metallico. L’acqua calda, poiché non esistevano scaldabagni, veniva fornita dal potagé. Lateralmente la stufa aveva un contenitore stagnato che veniva costantemente tenuto pieno di acqua, per tutte le esigenze di acqua calda della famiglia: dal lavarsi, al lavare i piatti, al riscaldamento del letto appunto. Quando la capienza della apposita vaschetta non bastava, la stufa poteva riscaldare pentole e pentoloni d’acqua posti sopra il piano di cottura.
Un altro metodo di riscaldamento del letto, consisteva nel riporre ël preive18. Questo aggeggio, più potente, veniva usato prevalentemente per riscaldare i grandi letti di tipo matrimoniale. Esso consisteva in una intelaiatura in legno a forma semi ellittica, che, aprendosi a croce, creava una specie di cupola vuote tra materasso e coperte, al centro della quale veniva posto l’oggetto riscaldante, evitando che esso, entrando in contatto con lenzuola e materasso, le incendiasse. La parte riscaldante dei nonni era una resistenza elettrica ricoperta da una esile protezione di alluminio. Ma esistevano anche preivij che usavano un vero proprio braciere come scaldaletto. Le braci della stufa venivano prelevate mediante una apposita paletta d’acciaio a manico lungo, ed immesse in un apposito contenitore di metallo, generalmente anch’esso di rame, posto poi al centro dello spazio della cupola formata dalla intelaiatura di legno.
A casa nostra in piazza Alfieri questi accorgimenti non erano veramente necessari, in quanto, trattandosi di due minuscole stanzette, provvedeva il solo potagé a scaldare l’ambiente, purché si lasciasse aperta la porta della camera da letto. Ma io ho sempre avuto la mia bottiglia d’acqua per scaldarmi i piedi in inverno. Questo mi faceva sentire quasi in colpa, giacché i grandi, in ogni occasione, ripetevano che lor, a mia età19, dormivano sulla paglia o su un materasso di foglie secche. Come se fosse stato a causa mia anche questo, accaduto prima che nascessi! In seguito avremmo avuto stufe a kerosene e poi termosifoni, per scaldare ogni angolo della casa, ma mai più le mie notti furono così belle come allora, quando il freddo della stanza da letto mi costringeva a fare in fretta a spogliarmi per indossare il pigiama ed infilarmi rannicchiato sotto la trapunta, completamente ricoperto, testa compresa, con solo un piccolo spiraglio sopra la nuca per l’aria da respirare. Il mio letto non sa più oggi di quel lieve odore di fumo, di pulito di liscivia.
Cena, giochi a carte e poi a letto presto. Anche se le trasmissioni televisive nacquero con me, nello stesso anno e nella mia città, io non sapevo nemmeno cosa fosse. In piazza Alfieri non avevamo neppure la radio a tenerci compagnia, ma i nonni sì che l’avevano. Una grossa radio con il mobile di legno, che doveva riscaldarsi, una volta accesa, prima di emettere suoni intelligibili. Ricordo le serate di fine inverno a casa dei nonni ad ascoltare il festival di Sanremo. Canzoni nuove, completamente sconosciute, che lì per lì non dicevano nulla, ma che poco a poco imparammo quasi a memoria, a forza di ascoltarle.
-Con le pinne, fucile ed occhiali...
-Sul cucuzzolo, della montagna. Per la valle noi scenderemo, con ai piedi un paio di sci.
-Con ventiquattromila baci...
Ricordo una elezione di Presidente della Repubblica, lo scrutinio dei voti dei parlamentari, con mia nonna che esultava ogni volta che sentiva il nome di Pertini. Non vinse Pertini, ci vollero parecchi anni prima che toccasse a lui davvero, ne’ ricordo chi vinse quella volta.
Ricordo il preciso momento, quando una soleggiata mattina di fine autunno, in una edizione del Giornale Radio, annunciarono l’attentato al Presidente americano J.F. Kennedy. Ricordo che pregai, perché nel frattempo le istituzioni mi avevano insegnato che esisteva un Dio Buono che ascoltava le preghiere, affinché si salvasse. Non potevo sapere allora che, degli uomini cattivi, avevano fatto tutto il necessario affinché non potesse salvarsi. Parlarono di un Oswald, uno squilibrato, che fu assassinato di lì a poco. Ci dissero poi che un americano indignato, che amava il suo Presidente, aveva fatto giustizia del suo assassino. Ancora non potevo, nella mia ingenuità di allora, non potevamo sapere, “tutto quello che ancora può far la CIA, santi dell’occidente, per gli USA e così sia...”20. A casa nostra in piazza Alfieri avevamo, appeso al muro in cucina, un altoparlante, con interruttore, che accendendolo, se eravamo fortunati che i nostri vicini di sopra, i Daviso, avessero la radio accesa, potevamo sentirla anche noi, giacché un filo lo collegava alla loro radio. Questa cosa mi sembra la quintessenza della parsimonia di quei tempi. Una sola radio per due famiglie. Oggi i rapporti sono mutati :più apparecchi radio e tivu per una sola famiglia, più telefoni cellulari, più computer. Il mondo è davvero molto cambiato.
Accendevamo la radio quando sapevamo per esperienza, che i Daviso l’avessero accesa. Principalmente all’ora dei pasti e dopo cena. Ricordo la sigla di Radiosera, una famosa sinfonia di Mozart21. Anche la radio mi creava dei problemi di comprensione. Al giornale radio ripetevano spesso la parola “portavoce”, della casa bianca, ufficiale, eccetera, ed io non capivo cosa potesse essere. Finii per identificare il portavoce con quella scatola che faceva uscire le voci, attaccata al muro, insomma una cosa del genere, anche se spesso non quadrava con il discorso alla radio: a volte pareva proprio una persona. Principalmente ascoltavamo notiziari, che personalmente reputavo molto noiosi. Io preferivo la musica. Classica, moderna, di ogni tipo. Ma mio padre spegneva immancabilmente quando questa iniziava. -Mi soporto nen cole gnaulade.22 Si riferiva soprattutto alla musica classica, al “miagolare” dei violini. A nulla valevano le proteste di mia madre e mie.
La nostra prima radio, arrivò insieme al nostro primo frigorifero. Già, non avevamo nemmeno il frigorifero. Oggi ci si domanderebbe come diavolo conservassimo gli alimenti. Non erano molte le cose da conservare: i negozi erano molti e vicini. Si comprava lo stretto necessario, evitando gli avanzi. Questa fu un’altra delle ragioni per cui si doveva mangiare tutto ciò che c’era, un’altra delle origini delle nostre cattive abitudini alimentari. Le cose più deperibili come formaggi e salumi, venivano conservate in cantina, dentro una gabbia di sottile rete metallica su intelaiatura di legno, per evitare che i topi facessero man bassa. Ma siccome la cantina era un luogo buio, disagevole, senza luce e pauroso, si faceva in modo, per ovvi motivi di scomodità, di avere il meno possibile da conservare nella gabbia appesa in cantina. L’avvento del frigorifero fu una vera rivoluzione per le nostre abitudini alimentari. Bevande fresche, ghiaccio, possibilità di tenere più scorte e per maggior tempo in casa. Non ricordo se la radio fu un omaggio per la grossa spesa del frigorifero, o che i miei si fossero dati alle pazze spese. Era piccola, rispetto alla radio dei nonni, ed interamente di plastica, azzurra e bianca, con onde medie, lunghe e corte. I suoni della musica e del parlato erano intervallati da lunghe e potenti scariche elettriche, soprattutto quando c’erano dei temporali, ma non solo. La nostra cultura musicale non migliorò, nemmeno con la radio, proprio nostra, se era presente mio padre. Però potevamo accenderla indipendentemente dai capricci dei Daviso. E potevamo ascoltare la musica se non c’era mio padre.
La televisione la scoprii dai vicini dei nonni. La vedevo da Carlo Portigliatti, proprio sopra dei nonni; oppure dai Verdi, Mondo23 e Alfio, figli del sartor24, miei vicini coetanei in piazza Alfieri. Oppure dai Calundari, abitanti la casa gemella, vicino ai nonni. La vedevo in cascina quando andavo a prendere il latte da Mason.
Tutta questa gente “telemunita” dovevo tenermela buona se volevo vedere l’unico programma che interessava: la TV dei ragazzi. Non era facile tenerseli buoni, poiché tutti parevano accorgersi che ero più interessato al loro televisore che a loro stessi, e se ne approfittavano. Se hai una debolezza la gente se ne accorge subito, e ne approfitta: mezza parola, un piccolo litigio infantile e mi negavano la possibilità di andare a vedere la TV. Così finiva per pesare a me stesso, essere sempre ospite in casa d’altri, per poter fare ciò che gli altri potevano tranquillamente fare a casa loro. Alla lunga la soluzione più economica era andare alla fattoria. Quando sentivo che nelle case degli altri suonava la sigla del programma per i ragazzi, io partivo per andare a prendere il latte, e vi restavo delle ore, anche dopo essere stato servito. Rin Tin Tin, orso Yoghi, Lassie erano i nostri eroi, nel mio caso rubati alla ricchezza degli altri.
La televisione a casa nostra arrivò che avevo ormai quindici anni ed avevo già perso interesse alla TV dei ragazzi.
Mentre girovagavo da una casa all’altra, prendevo nota dei diversi odori delle case, odori buoni e meno buoni, interrogandomi sul come fosse possibile che fossero così diversi, ma sempre gli stessi in ogni casa. Non dipendeva evidentemente dal cibo cucinato, che tuttavia aveva comunque un suo peso nella formazione dell’odore di una casa, ma non era il fattore determinante, visto che in una casa non si cucinano ogni giorno le stesse pietanze. Sembrava dipendesse dalle persone. Anche le persone avevano odori diversi, che conservavano in modo costante nel tempo. Ma cos’era che determinava il profumo di una persona? La risposta mi sembrava dovesse essere ancora una volta il mangiare, visto che alcuni odoravano perennemente di formaggio, altri di aglio o di cipolla, fragranze forti. Possibile che gli altri mangiassero sempre ogni giorno gli stessi cibi. C’erano persone poi che si portavano attorno miasmi sgradevolissimi. Certamente ci si lavava meno di quanto non ci si lavi oggi. Nelle case della gente comune, la maggior parte delle case, non esistevano servizi igienici come li conosciamo oggi. Il lavandino in cucina era l’unico posto dove scorreva acqua in cui fossero possibili le normali abluzioni per la pulizia personale. Giornalmente ci si lavava con acqua fredda, all’acquaio in cucina, la faccia, le mani, i piedi. Il bagno completo era una faccenda complessa, settimanale, del sabato. Per questa occasione veniva portata in cucina la tinozza di acciaio stagnato. La si riempiva di acqua scaldata sulla stufa o sul pipigas25, e a turno ci lavavamo tutti in quella stessa acqua, che veniva buttata una sola volta alla fine, quando eravamo tutti lavati, nel lavello in cucina, una pentolata alla volta, fino a che la tinozza quasi vuota, potesse essere sollevata da mio padre, il quale finiva di svuotarla in cortile e la rimetteva nella buschera. Io venivo denudato e lavato da mia madre. Il procedimento aveva un ordine prioritario che consisteva nel lavare bene prima la faccia e per ultimo le vergogne. Perché, diceva mia madre -a va nen bin lavè prima ‘l culetu e poi la faccia, coma fa Valeria, la mama ‘d Enzo Ribotti. Erano persone ed usanze che mia madre conosceva, perché andava da loro a fare lavori domestici, come stirare, spolverare, eccetera.
Io però mi domandavo, visto che acqua, spugna e sapone erano sempre gli stessi, che senso avesse questo ordine di cose, visto che la faccia di chi veniva dopo veniva immancabilmente lavata dopo il “culetto” di chi si era lavato prima.
Durante il lavaggio delle cosiddette vergogne, avevo le mie prime erezioni dovute allo strofinio della spugna, e mia madre ci rideva su, passando nuovamente la spugna, dall’alto verso il basso dicendo: -Tira giù ‘l pirilo!
Io intanto pensavo se per caso, in quel momento, i due fratelli Verdi, Mondo e Alfio, tre o quattro muri più in là dalla parte del lavello della cucina, non stessero per caso osservandomi con quel loro apparecchio che dicevano di avere in casa, capace di osservare attraverso i muri, secondo il principio della super vista come Nembo Kid26. Dal mio punto di vista la cosa era credibilissima. Loro, di famiglia di commercianti appartenevano alla categoria dei ricchi. Lo testimoniava il fatto che avessero giocattoli per me impensabili, costosi. Poi c’era quella faccenda della cinepresa. Tonin ël sartur ci aveva fatto assistere alla proiezione di un filmato relativo all’abbattimento di una vecchia casa in via Roma. Si vedeva una gru che con una pesante palla colpiva le mura della casa, radendola al suolo fra un polverone enorme. Alla fine ci aveva mostrato il filmato al contrario. La pesante palla metallica si allontanava dai muri e la polvere e le macerie tornavano miracolosamente al loro posto. Io avevo tre o quattro anni, non avevo praticamente mai visto filmati di nessun tipo e mi sembrava che un uomo che avesse un marchingegno simile, che ricostruiva le case, potesse ben avere qualcosa per guardare attraverso i muri! I fratelli Verdi non erano i soli a burlarsi della mia ingenuità di bambino. C’era un altro ragazzo più grande il quale, come mi vedeva per il viale con mia madre, subito dava in escandescenze dicendo ai suoi compagni: -Guard-lo lì. Ciama i Carabiniè.27 Capivo che era tutto uno scherzo, poiché tutto, anche il suo cercare di trattenermi per un braccio nell’attesa dell’arrivo dei Carabinieri, e il mio divincolarmi nel tentativo di sfuggirgli, veniva fatto ridendo. Me ne lamentavo poi con mia madre, la quale mi rassicurava dicendo: -A schersa.28 Tuttavia ero un po’ preoccupato per la faccenda di un possibile intervento dell’autorità costituita: io allora mi sentivo sempre in colpa per qualcosa. Così mi facevano sentire i miei genitori talvolta. Mi vennero persino sensi di colpa per i pensieri, che non ero sicuro potessero davvero essere completamente privati e soltanto miei. A volte gli adulti sembravano leggerti nel pensiero. Così, pensai, che i Carabinieri, come si occupavano di altri crimini commessi dagli adulti, avrebbero potuto occuparsi delle mie marminele29, dette, fatte o anche solo pensate. E’ molto facile turbare la serenità di un bambino di tre anni. Anche solo una concomitanza di eventi apparentemente slegati fra loro possono farlo. Sembrava che tutti volessero approfittare del fatto che ancora non capivo bene come funzionavano le cose del mondo, per potersi burlare di me. Avevo una curiosità ed una voglia di imparare come solo i bambini hanno, eppure, pur mettendocela tutta certe cose proprio non mi entravano. Ad esempio c’era spesso chi sembrava sul punto di raccontarmi una storia. Chiunque sa quanto piacciano le storie ai bambini. Ora so che piacciono anche agli adulti. Allora iniziava la solita tiritera: -Dove nen di “quello che avevo appena detto”, përché la storia a l’è bela, fa piasì contela, voësto che ‘t la conto? Al che io rispondevo -Sì! E l’altro: -Dove nen di “Sì”, përché la storia a l’è bela…Ma pensavano davvero che i bambini fossero stupidi? Era logico questo modo di fare? Poteva andare avanti all’infinito, la storia non arrivava mai, fino a che, chi aveva più giudizio smetteva. Non rispondevo più alla domanda.
Ebbi poi qualche dubbio sul fatto che potessero vedermi fare il bagno, come avevano affermato, pensando che fra la nostra cucina e la loro casa c’era l’appartamento di Neta, una signora anziana che viveva lì. Mi veniva un sorriso divertito, pensando che magari, volendo guardare me fare il bagno del sabato, si trovassero a vedere le nudità di Neta.
Quando era il turno di lavarsi di mio padre e mia madre, io ero cacciato fuori nel cortile o spedito a messa o dai nonni. Non ho mai visto le nudità dei miei e per me loro erano asessuati e senza le parti anatomiche vergognose che pur io posseggo.
Naturalmente in via Pastrengo, nella casa dei nonni, e anche in quella di mia cugina Luigina, che erano case di recente costruzione, il rito del bagno era diverso, essendo case munite di vasca da bagno. La faccenda avveniva comunque sempre a porte chiuse. Questi locali erano sempre muniti di chiavistelli. Quello che avveniva lì dentro era vergognoso e privato. Per questo si chiudeva la porta. Non essendoci scaldabagno, il boiler, i miei nonni scaldavano l’acqua per il bagno in estate, quando il potagé era spento, con una resistenza elettrica a serpentina che si immergeva nella vasca riempita d’acqua. In inverno era sempre la stufa a provvedere l’acqua calda.
Ma anche la stufa dava il suo bel lavoro. Ho raccontato già come andassi con mio nonno a procurarci le assicelle per ancaminé30 ‘l potagé. La stufa andava accesa il mattino presto, possibilmente prima del levar del sole, përché dopo à ‘s trobula31. La prima operazione era quella di togliere la cenere del giorno precedente. Quando non fosse rimasta accesa, come nei periodi più freddi dell’inverno, grazie alla matonela ‘d carbon 32, che teneva la brace tutta la notte, la si ripuliva completamente, prima di innescarla nuovamente, con carta, assi di cassette di verdura e piccoli pezzi di legno. Poi occorreva continuamente mettere legna dentro. Siccome il grosso della legna stava, non in casa, ma in cantina, o nella legnaia a casa nostra, nel pieno inverno occorrevano parecchi viaggi per approvvigionarsi della legna sufficiente per un giorno. Spesso bisognava, nei giorni meno freddi, spacé ij canon33. Bisognava smontare tutta la sequenza di tubi che costituiva la canna fumaria e portarli fuori per ripulirli della caligine, nera e grassa che si appiccicava all’interno. Poi c’era l’approvvigionamento della legna. Una volta l’anno veniva il fornitore, che chiamavamo ël magnin, per via del fatto che a forza di maneggiare carbone, era nero egli stesso. Svuotava il suo camion di legna in mezzo al cortile. Nel giro di breve tempo, con tanto lavoro e la partecipazione di tutti, me compreso, si portava la grande quantità di legna, vingt, trenta mirija34, in cantina o nella legnaia. Mio padre e Parin erano gli unici che accatastano accuratamente la legna, lavoro che richiedeva una certa perizia. Tutti gli altri, compreso io eravamo solo manovali trasportatori. All’inizio era entusiasmante aiutare a fare un lavoro, ma alla lunga, molto prima che l’immenso mucchio di legna si riducesse sensibilmente, diventava noioso. Cercavo di chiedere, per riposarmi di tutti quei viaggi, di fermarmi ad accatastare, ma non ero ritenuto adeguato per questo compito. Così mi toccava continuare a trasportare. All’inizio era l’entusiasmo, poi si doveva procedere perché un “ometto” «deve aver voglia di lavorare quando occorre». C’erano tutt’intorno esempi dei più disparati lavori, ma erano tutti lavori manuali. Dagli adulti che mi circondavano, dalle convinzioni di quei tempi, mi sembrava di capire che avevano pieno diritto di essere chiamati lavori solo quelli. Riuscivo a comprendere il lavoro di una segretaria in ufficio, solo considerando che doveva fare la dattilografa o la stenografa. Non avrei mai potuto includere nella categoria dei lavoratori, inventori o insegnanti, presidi o sindaci, sindacalisti o scrittori di storie. Per sindaci e sindacalisti, mi riesce difficile ancora oggi considerarli lavoratori, ma piuttosto “mangiapane a tradimento”. Mi è così restata questa assurda convinzione, che un lavoro, per essere tale, deve essere un lavoro manuale, fisico. I lavori più intellettuali che ho svolto, pur essendo dei lavori con ogni crisma di riconoscimento, come il lavoro di disegnatore meccanico, mi hanno sempre fatto sentire un poco in colpa. Come se stessi rubando il pane con un lavoro che non implicava fatica muscolare.
Nella casa adiacente in piazza Alfieri, c’era il fornaio, il cui laboratorio emanava un delizioso profumo di pane e altre leccornie. Il pane era venerato come un Dio. Non se ne sprecava nulla. Si mangiava ad ogni pasto ed era la parte più consistente del nostro nutrimento. Dalla prima colazione, spezzettato e ammollato nella sopa ‘d cafélàit35, alle varie merende, alla cena infine. -Compagna con ël pan!36 Era l’imperativo. -Quandi mi i ero cit, ciamavo a mia mare «cosa a jè ‘d merenda?»; «ëd soma d’ai», ën rispondija.37 Così esordiva mio padre, quando mi sentiva chiedere cosa ci fosse per merenda a mia madre. Questo culto del pane sarebbe stato molto importante per la mia vita adulta. Avrebbe lasciato il segno, come si usa dire.
Oppure c’era, ën t’la cort ëd Cirilo38, in fondo al nostro androne, la bottega del falegname. Anche il profumo resinoso del legno mi affascinava, ma i macchinari per lavorarlo, seghe elettriche e pialle, facevano un po’ paura. Da questo falegname acquistavo fogli di “compensato” per i miei primi lavori al “traforo”, che mi portò un anno a Natale Gesù Bambino. Anche Nando Daviso, il padre della famiglia sopra noi, pensionato mi iniziò ai lavori di falegnameria o intarsio. Seduto su una seggiola sul suo balcone, lavorava con scalpelli raspe e carta vetro, pezzi di legno, fino a farli diventare mestoli, cucchiai o forchettoni per cucinare. Mi insegnò a progettare, disegnando a matita sul legno grezzo, la futura forma dell’oggetto. Quando mi regalò tutta l’attrezzatura assieme ad un grosso cucchiaio di legno ancora grezzo, da finire, forse aveva già progettato la sua fuga con un’altra donna. Ormai più che sessantenne, lasciò sua moglie Nin ed i figli ormai grandi, per tornarsene in Veneto, sua regione d’origine. Dai discorsi di Nin con mia madre che stirava in cucina, capii che si era affigliato ad una setta chiamata i Testimoni di Geova. Tornò Nando, per morire a casa. Io non terminai mai il cucchiaione di legno, ma mi rimase l’eredità dei sui attrezzi: uno scalpello da legno a forma tondeggiante, e una raspa da legno. Non terminare i molti lavori iniziati, sembrava e sembra essere una mia caratteristica. Ancora non sono riuscito a fare mia, nonostante gli insegnamenti e gli esempi, la famigerata “voglia di lavorare”.
Questo concetto è la pietra basilare di tutto il nostro sistema economico, che su di esso si regge. Devo confessare che ne parlo come un bambino della scuola materna parlerebbe delle disequazioni o della derivata di una funzione o degli integrali, perché è un concetto sul quale mi interrogo fin dall'infanzia, ma che non sono mai arrivato a capire.
Da bambino vedevo che tutti gli adulti ne parlavano per cui dovevo supporre che ci fosse un comune accordo sul nascosto significato di queste quattro parole. A quanto pareva doveva essere un tratto della personalità o del carattere degli esseri umani adulti. Forse, se mi fossi impegnato a fondo, alla fine sarebbe venuto anche a me. Il suo contrario, o meglio, la mancanza di questa dote, dava luogo a quelle persone, out si direbbe oggi, fuori dal sistema. Le lingere39, venivano chiamati quegli uomini con poca voglia di lavorare, sempre in piola40, a giocare a carte, bere e fumare. Sempre a core apress a le fomne41. Così non si doveva diventare. Una cosa era sicura: era una caratteristica di cui erano in larga misura dotati gli uomini e le donne qui da noi al nord, in Piemonte; parimenti scarseggiava nella gente del sud, i meridionali, o, come li si chiamava generalizzando allora, "i napoli". Probabilmente si trattava di una questione genetica, ma per arrivare a questa ipotesi, avrei dovuto studiare ancora. Questa classificazione mi generò confusione in quanto pensai che "i napoli" fosse un sinonimo di immigrati, così non sapevo dove collocare un altro tipo di persone presenti in Piemonte ma provenienti da altri luoghi: quelli chiamati "i veneti" che pensai fossero un sottoinsieme del primo gruppo, una sorta di "napoli del Veneto"; ma pensai altresì che gli adulti facessero delle classificazioni alquanto strane! Siccome comprendere il mondo, per un bambino significa sostanzialmente classificarne gli oggetti per classi d’appartenenza a categorie, la costernazione dovuta a classificazioni misteriose, rendeva il mondo difficile da comprendere.
Come scoprii in seguito andando a scuola, e inoltrandomi nella vita, questa mia prima ipotesi sulla voglia di lavorare si rivelò esatta. Era generalmente vero su tutto il pianeta, che quanto più si andava a nord più il carattere si accentuava e quanto più si andava a sud diminuiva. Ma questa certezza, lungi dal tranquillizzarmi, mi creava altri problemi intellettuali .Se il mio orgoglio era soddisfatto per avere avuto la fortuna di nascere in una latitudine "dotata" rispetto ai meridionali d'Italia ed ancor più verso gli africani, d'altro canto mi restava una punta di stizza verso quei popoli, come tedeschi e scandinavi, che erano per questo aspetto più fortunati di noi. C'era una sola eccezione che però rientrava nel proverbio della conferma della regola: gli esquimesi sembravano comportarsi più come quelli più sotto.
Poi c'era quell'altro problema di come potessero andare le cose in quell'altro emisfero dove l'estate viene in inverno e viceversa. Forse laggiù, visto che tutto era al contrario rispetto a noi, anche i più "vogliosi" erano più a sud. Più tardi avrei dovuto filosofare per sapere cosa poteva essere più a sud del polo Sud.
Quanto poi all'esatto significato del concetto, pareva che consistesse nell'essere disposti a dedicarsi per molto tempo e con impegno ad attività redditizie o comunque utili, ma le caratteristiche salienti di queste attività era la loro noiosità, la ripetitività, e, soprattutto, l'obbligatorietà. Questo punto era per me incomprensibile: la gente adulta -ma anche noi bambini- doveva "avere voglia di essere obbligata a fare" qualcosa. Da quel che avevo fino ad allora compreso sulle parole del linguaggio umano, la volontà era la massima espressione della libertà e anche dell'autorevolezza di chi voleva.
Io, come tutti i bambini, quando esprimevo i miei "voglio" o "non voglio" lo facevo principalmente per affermare la mia libertà di decidere sulle questioni che mi riguardavano. Lungi da me l'idea di usare i miei capricci per imporre le mie scelte agli altri, come del resto facevano correntemente gli adulti verso noi bambini. Ma a me, immancabilmente veniva risposto, ad ogni "voglio": -L'erba voglio non c'è, nemmeno nel giardino del re. Ma quell'erba però, cresceva nel giardino degli adulti.
Eppure guarda come erano strani gli adulti: essi così potenti nei nostri riguardi, sembravano non avere potere su se' stessi, volevano essere obbligati a lavorare!
Le persone con scarsa “voglia di lavorare”, quando non venivano additati come lingere42, ed erano questi i casi più gravi, venivano chiamati, più bonariamente, scapa travaj che mi i rivo.43 Di questi ultimi, avrei scoperto presto, ne è pieno il mondo. Lo zio Ernesto, che amava scherzare su tutto, era l’unico a raccontare storielle anche su questo argomento della “voglia di lavorare”, verso il quale tutti parevano avere una reverenza seriosa. La sua preferita, che spuntava ogniqualvolta si iniziava fra tutti in famiglia un qualche genere di lavoro, era quella di quel capomastro che di mattino presto apostrofava i suoi sottoposti con -Coragi fieuij, dom-se da fé, che pasadoman a l’è già mercol, e noiauti i l’oma pas ëncora fait nen!44. Ovviamente, come si deduce dalla frase stessa, era lunedì mattina, ed era lapalissiano che non si fosse ancora compiuto nulla durante quella settimana.
E questa voglia di lavorare ci riguardava eccome, nel settore scolastico e in altre piccole incombenze in casa.
Da allora fino ad oggi, e sono passati più di trent'anni, la tanto auspicata voglia di lavorare, malgrado tutte le aspettative e la facilitazione di una sana educazione "piemontese", non mi è ancora venuta ed a volte penso di non essere "normale" in questo senso. Non che io passi le mie giornate in ozio, nei bar o nelle sale da giochi, o che viva di espedienti, anzi, devo dire che dedico al lavoro molto più tempo delle normali e per me già troppe otto ore classiche. Ma lo faccio per necessità e non mi sento di dire di farlo volentieri, come farei una battuta di pesca, una discesa sci o una vacanza, perché non voglio ingannare la mia stessa coscienza. Di tutti i lavori che ho svolto nelle mia vita, pochissimi e per poco tempo li ho fatti con l’entusiasmo di una genuina “voglia di lavorare”. Ho sempre avuto la chiara coscienza del fatto che quel tempo, quello dedicato al lavoro, fosse in un certo senso rubato al tempo mio più vero, quello dedicato a me stesso, alla mia cura, alla ricerca di una vera conoscenza, alla vita, al divertimento. Il tempo dedicato al lavoro è sempre stato una parentesi della vita vera, una parentesi che trascorreva più lentamente ed in modo più noioso di quell’altro tempo ad esso contrapposto. Il tempo libero e le vacanze sono per me il trionfo, l’apoteosi della vita. Ma ho sempre avuto l’impressione di non essere il solo a pensarla così, nonostante le ideologie alla moda. In sostanza tutti dicono di amare il lavoro, perché la corrente morale preferisce le persone che fanno questa affermazione, ma in realtà saranno un dieci per cento ad essere sinceri, forse meno. In tutto ciò c’è qualche cosa che non torna. Se io sono sbagliato, sono in buona compagnia. Oppure è la società, così come è organizzata -o disorganizzata- ad essere folle.
Le vacanze quelle sì, le faccio volentieri e da quel che vedo, anche molta gente intorno a me le aspetta come me per tutto l'anno. Ma allora se è così, mi viene il sospetto, che dietro la fantomatica "voglia di lavorare", si nasconda una qualche forma di ideologia.
Se è vero come sembra, che i meridionali non hanno "voglia di lavorare", come mai i vertici della FIAT e di altre grandi industrie del nord ne hanno chiamati tanti per farli venire qui, ed inserirli nelle loro linee di montaggio? Forse non lo sapevano. Ma il fenomeno è durato a lungo negli anni, a partire dal dopoguerra fino ai giorni nostri, e, dopo l'arrivo dei primi, avrebbero dovuto accorgersene. Come mai ancora oggi, si sta attirando qui gente, dal sud del mondo, che sembra abbia ancor meno voglia di lavorare dei meridionali? A meno che...a meno che, questa "voglia" non sia poi oggettivamente così importante, per il sistema economico, quanto lo è per l'ideologia che permea tutte le nostre vite. A meno che ci sia sotto qualcos'altro, forse più importante ancora della "voglia di lavorare", e se è esatto ciò che sospetto, avremo trovato una chiave importante del sistema economico vigente: il desiderio irrefrenabile del possesso dell'oggetto ovvero la voglia di acquistare, di possedere, di avere qualche cosa che l'industria ci propone con il potente mezzo della pubblicità.
A quei tempi lavorava soltanto il mio papà, se si intende per lavoro andare in un posto dove ti pagano, timbri la cartolina, eccetera. La mia mamma, oltre ai lavori di casa, stirava delle camice per i Daviso e andava ad aiutare in una famiglia per alcuni lavori domestici. Solo più tardi trovò anche lei un lavoro alla Plaster, dove facevano i coperchi dei w.c., mobiletti per le medicine, scatole con le gambe per le spazzole delle scarpe, tutti attrezzi in una bachelite dura che finirono per entrare poi nella nostra casa. Non era mica un lavoro sporco. I coperchi dei cessi erano nuovi ed il profumo era quello della plastica.
A dirlo oggi si rischia, ovviamente di non essere creduti, ma, nei primi anni della mia esistenza ignoravo cosa fosse la pizza, che oggi tutto il mondo conosce. Quando la mia mamma lavorava dalla signora Ribotti, un giorno tornò a casa con un involto di carta che aprì all’ora di cena, dicendo che madama45 Ribotti aveva fatto la pizza e glie ne aveva serbato un pezzo da assaggiare. Curiosi eravamo curiosi, ma non perché sapessimo cosa diavolo fosse la pizza, soltanto perché era una novità. I Ribotti erano, dal nostro punto di vista ëd j’ sgnor46, e come tali, erano sempre un poco “più avanti” di noi –esclusa la faccenda del lavarsi, ovviamente-, quindi, senza darlo a vedere, si cercava di imparare, perché, si diceva, impara l’arte e mettila da parte, che i proverbi, in caso dubbio, parevano risolvere la situazione. In sostanza, questa pizza, era una fetta di un miccone, piuttosto spessa, sulla quale era stato spalmato del pomodoro con dell’origano, con alcune acciughe e pezzettini di formaggio, poi passata in forno. Oggi la chiameremmo “bruschetta”, se magari fosse stata, la fetta di pane, spalmata di aglio. Allora non ci entusiasmò più di tanto. Eravamo provinciali ed il destino ci presentò male questa pizza che è un cibo squisito, come la conosciamo oggi.

Ma l’estate, la bella stagione era tutto diverso. Le nostre vite assumevano ritmi diversi. Si passava la maggior parte del tempo fuori casa, dove si ritornava soltanto per il cibo e per il sonno. Alla fine dell’inverno, tutto sembrava rinascere, dalla natura agli uomini. Anche se dopo una lunga estate si desiderava l’intimità e il tepore famigliare di un nuovo inverno. La primavera e l’estate erano stagioni più sociali. Tutto si svolgeva nel cortile, in strada, fra altra gente. Erano stagioni che stordivano di vita ed era ovvio alla fine, si desiderava un nuovo inverno riposante. In estate si andava a letto più tardi ed i cortili risuonavano allegramente di grida dei bambini che giocano, adulti che chiacchierano rilassati fino a notte. In particolar modo erano belle le serate nel cortile della casa dei nonni, per la presenza di tanti bambini. Bambini di tutte le età che schiamazzavano contenti per i tanti giochi nuovi e antichi. Sembrava che ogni giorno, ogni sera nascesse l’idea di un gioco nuovo. Anche i lavori degli adulti si svolgevano all’esterno, con scadenze stagionali diverse, ma tutte ugualmente accattivanti, dopo la reclusione invernale.
Dai nonni era quasi tutto legato all’orto. I Calundari, che venivano dalla Puglia, chiamavano “giardino” l’orto, tanto che quasi mi convinsi ad essere io a parlare un italiano deformato dall’usanza al dialetto piemontese. In realtà avevamo ragione noi. L’orto era quello in cui si coltivavano le verdure, il giardino quello dei fiori. Dalla parte nostra, quella della casa di Nona e Parin, c’era l’uno e gli altri. Otto strisce d’orto, e due appezzamenti comuni di giardino, dove si seminavano fiori. Da l’auta47, l’altra parte di terreno, di pertinenza della casa a fianco, orto e giardino si confondevano, poiché, ogni famiglia aveva un appezzamento abbastanza grande, recintato, in cui coltivava fiori e verdure. Forse era anche per questo che loro davano un nome diverso. Il fatto è che qui, nel cortile della casa dei nonni, sentii per la prima volta parlare l’italiano, per la presenza dei pugliesi e dei veneti, che non parlavano il nostro dialetto. Al di fuori di qui, tutte le conversazioni avvenivano in dialetto piemontese, almeno finché non approdai alla scuola.
L’orto ed i due giardini dalla parte dei nonni erano anche essi cintati, con pali a “T” piantati nel muretto in cemento della cinta esterna, ed in terra dalla parte del cortile, a cui stava attaccata una rete metallica a maglie romboidali. Ma il recinto inglobava tutti gli appezzamenti e i due giardini, non le singole proprietà dei condomini, come dall’altra parte. Le singole proprietà erano segnate da sassi, spezzoni di piastrelle, paletti di legno. Si accedeva all’interno tramite due cancelletti costituiti da intelaiatura in legno e solita rete metallica arrugginita dalle intemperie. Uno sul lato sud della casa, l’altro sul lato nord. Si entrava attraverso ai giardini. Questi luoghi cintati erano metà di frequenti incursioni, da parte di noi bambini. Vuoi perché all’interno c’era un rubinetto dell’acqua al quale potevamo dissetarci negli assolati pomeriggi estivi, vuoi per prendere un pomodoro maturo, nella stagione calda, per placare insieme fame e sete, con il frutto sugoso. Furono i coetanei Calundari, ad insegnarmi il gusto per questi spuntini “ecologici”. Parin non era contrariato, voleva soltanto che lavassimo il pomodoro prescelto, che non fosse ‘sporco’ ëd vërdaram48. A volte si cercava l’acqua per lavare un ginocchio sbucciato o rinfrescarsi la faccia sudata.
Tutti nessuno escluso coltivavano il loro pezzo d’orto, anche se erano più o meno abbienti, avessero più o meno tempo per farlo. Lasciare la terra incolta, sprecare quella risorsa sarebbe parso un peccato mortale. I lavori dei grandi all’orto erano diversi a seconda delle stagioni. C’era la stagione della vanga. Alla fine dell’inverno si rivoltava il terreno con una vanga, appunto e si concimava la terra con la composta ëd l’amnisera49, e o, con la drugia50, che andavamo a prendere appositamente alla cascina di fronte, quella ëd Mason. Vermi grandi e piccoli venivano alla luce dissodando il terreno in questo modo, soprattutto se aveva piovuto nei giorni precedenti. Talvolta raccoglievo questi vermi per mio padre che era ën pëscador51. A volte li raccoglievo soltanto per gioco, per vederli e studiarli. Erano creature curiose. Anche tagliate a metà dalla vanga, continuavano a muoversi ed a vivere, entrambe le metà, a strisciare facendo fremere le loro spire. A volte dopo la pioggia, i vermi uscivano spontaneamente dal terreno, lasciando mucchietti inconfondibili di terra morbida processata dal loro apparato digerente. Parin diceva che i vermi erano utili alla terra per la coltivazione. Il loro metabolismo rendeva fertile la terra e, nello stesso tempo, le gallerie che scavavano, rendevano soffice il terreno, adatto allo sviluppo delle radici delle coltivazioni.
Ma c’erano nella terra anche creature diverse, “dannose”, che si dovevano schiacciare. Le forcioli-ne52, le boie53, le cavolaie. La terra pullulava di minuscola vita animale, sotto forma di insetti, vermiciattoli, larve, millepiedi. C’era l’epoca delle semine, dei trapianti, dei raccolti. Alcune piante, come pomodori, poronin54, non erano seminate direttamente nell’orto, ma in un barattolo di latta sul balcone, ricoperto con un vetro, për scaudè la tera55. Venivano poi messe a dimora nell’orto, trapiantate, quando erano diventate pianticelle abbastanza robuste e la stagione era propizia. Il trapianto delle piante era un momento critico. Andavano innaffiate spesso e tenute al riparo dal sole, se dës no, a ven-u fiape, a marin-o56.
C’erano ij ravanin57, la salada58, ij sciulot59, ël panansëmmo60, ij cocòmer61, fagiolini e rosmarino. Salvia, aglio, cossòt62, che potevano diventare zucche, per il minestrone invernale oppure, opportunamente svuotate, borracce per l’acqua.
A me , come credo a molti bambini, non piacevano molto le verdure, salvo pomodori, ravanelli e sedano. Cicoria e rape mi risultavano amare e disgustose, ma piacevano ai grandi e talvolta si intestardivano a farle mangiare anche a me, in nome di chissà quale concezione di libero arbitrio. C’era però di peggio di quanto ricordato. Mio padre amava insalate di certe radici bianche molto amare, che si bollivano e condivano poi con olio sale e aglio. Una cosa davvero disgustosa per il mio palato di allora. Successe più di una volta che fui costretto a mangiarne, con mio profondo disgusto, mentre egli sciorinava tutto il repertorio che andava dai temp ëd guera63, alla tessera, al pane scuro, che col bianc a i-era mac per ij sgnor64. I grandi erano molto suscettibili di fronte alla mia idiosincrasia alimentare, perché i pasti, oltre che una necessità fisiologica per nutrirsi, erano un vero e proprio rito. Il rito per eccellenza della famiglia riunita. Anzi, sembrava che la famiglia esistesse proprio per svolgere quel rito del pasto. Dopo cena me ne andavo a letto disgustato, se ero stato costretto a mangiare quell’insalata, o affamato se rifiutavo e mi toccava, per punizione, andarmene a letto all’istante, senza cena. Più tardi mia madre mi portava una zuppa di caffelatte, che spesso finivo per vomitare poi durante una nottata di sonni agitati e sogni gastronomici, dalla rabbia verso i miei per l’ingiustizia subita. Non avevo nemmeno sentore, che potesse esserci una qualche autorità che avrebbe potuto rendermi giustizia. Non mi sognavo neppure il telefono, che comparve in casa mia all’epoca in cui avrei fatto il servizio militare di leva, figuriamoci una istituzione come il moderno Telefono azzurro. Così, alla fine, sbollita la mia rabbia, che oserei dire sfiorava l’odio per mio padre, che non esitava a ricorrere a punizioni fisiche esagerate, e trascorsi alcuni giorni dal fatto per poterlo mettere da parte emotivamente ed intellettualmente, finivo per convincermi, grazie anche all’aiuto intellettuale dei miei, che tutti i problemi nascessero soltanto per causa mia, che ero cattivo e disubbidiente. Mi convincevo che la loro opera, a suon di ceffoni e cinghiate, sculacciate col battipanni di vimini, fosse non solo giusta, ma necessaria, perché cominciavo ad intravedere la filosofia pedagogica di mio padre: tutti i bambini sono potenziali delinquenti, che vanno raddrizzati con ogni mezzo, se no a venu ëd lingere.65 Doveva arrivare il fatidico anno duemila, per sentire alla televisione di un padre condannato e confermato in appello, per aver dato un ceffone ad un figlio, sia pure, “per una giusta causa” quale un furtarello ai danni della mamma. Io credo che l’umanità farà un balzo in avanti nell’evoluzione sociale e giuridica quando si presenterà maggior attenzione ai diritti dei più deboli e più indifesi: i bambini.

Quello che non forniva l’orto, lo forniva la natura circostante. Le rocce sulle rive del Sangone fornivano il muschio per preparare il presepio, prima di Natale. Ma anche il cibo veniva dalla natura quasi incontaminata dei boschi e delle rive del fiume. Mio padre portava a casa i pesci. Quando pioveva, nella bella stagione, si raccoglievano le lumache, che poi mangiavamo dopo averle purgate, cotte e lavate accuratamente. Di solito era la mamma a preparare da mangiare, ma nel caso delle lumache, la mamma non voleva saperne, ne’ di pulirle, ne’, tantomeno, mangiarle. Era un’altra faccenda da uomini. Nessuno sapeva preparare le lumache “alla parigina”, come mio padre, che aveva imparato da se’, dopo averle mangiate una sola volta in un ristorante proprio sotto la Mole. A tutt’oggi nessuno ha mai, che io sappia, eguagliato le “lumache alla parigina” di mio padre. Si raccoglievano funghi e famiole66, nella stagione giusta. Mia nonna raccoglieva camomilla ed altre erbe medicinali, per fare decotti e papin67. Oggi la natura non ci fornisce praticamente più nulla, vuoi per l’inquinamento che ha distrutto l’abitat di molte specie, animali e vegetali, vuoi per la densità della popolazione umana, per la quale le quantità dell’abbondanza di allora, non basterebbe più. Figuriamoci la quantità di oggi. Poi leggi e decreti impediscono alla popolazione l’accesso alle risorse naturali. Allora si viveva in modo più simile a quello dei cacciatori raccoglitori.

Durante il mese di agosto, quando molti pomodori erano maturi, troppi per essere consumati dalle famiglie, si faceva la conserva. Tutta l’operazione avveniva nel cortile, insieme ai vicini. I pomodori venivano raccolti, lavati e puliti, messi a cuocere in grandi paireul68 di rame. Un focolare di legna veniva approntato da qualche parte nel cortile di via Pastrengo, e si costruiva un riparo e, al contempo appoggio per il pentolone, con pietre o mattoni vecchi. Talvolta questi focolari erano nel bel mezzo del cortile, tanto, nonostante i vari garages, nessuno aveva un’auto che sarebbe stata ostacolata dal focolare in mezzo al cortile. Si cominciava al mattino presto a cuocere i pomodori con aromi di basilico, sale e altre erbe profumate. Poteva accadere che più famiglie decidessero lo stesso giorno di fare la conserva, e c’erano più fuochi nel cortile. L’aroma del pomodoro cotto con le erbe aromatiche era impareggiabile, appetitoso. Era concesso a noi bambini richiedere frequenti assaggi. Quel giorno, colazione e merenda erano arricchite da pane e conserva di pomodoro fresco.
Poteva accadere che si cuocessero altresì, cogliendo l’occasione dei fuochi accesi e della brace che restava alla fine, pannocchie di granoturco rubate nei campi vicini. Che sapore quella melia abbrustolita. Che sapore quelle giornate diverse, con quegli odori buoni, di cibo e fuoco di legna! C’era un’aria allegra e festosa, quasi come di un ringraziamento per il raccolto, in quelle giornate.
Dopo la lunga cottura dei pomodori, era necessario attendere che si fossero parzialmente raffreddati, prima di passarli nell’apposita macchina che macinava tutto, eliminando buccia e semi, per poi immetterli nelle burnije69, e ricuocerli, nello stesso calderone, lavato e riempito d’acqua, a bagn Maria. Anche questa seconda cottura richiedeva molto tempo. I barattoli venivano separati fra loro con stracci ed asciugamani, onde evitare che si rompessero, sbattendo fra loro durante la bollitura dell’acqua.

Si facevano anche delle gite a piedi, a cui partecipavano diversi residenti del condominio. Erano gite verso la campagna o sulle rive del Sangone. Si andava in campagna a raccogliere fiori ed erbe utili. Al Sangone, nei pomeriggi di calura estiva, si andava accompagnati dagli adulti, per permettere a noi bambini di rinfrescarci facendo il bagno in qualche pozza. Ricordo una gita alla quale parteciparono quasi tutti i bambini del cortile di via Pastrengo, accompagnati da Nona e madamin Gina. Ci divertimmo un modo a sguazzare in quelle pozze d’acqua fetida, mentre gli adulti chiacchieravano, e mia nonna sferruzzava. Assolutamente vietato era, anche più cresciuti, andarvi da soli, a fare il bagno. C’era pericolo ëd nijè70. Naturalmente vi andammo lo stesso, nonostante i divieti, a fare le nostre prime esplorazioni sessuali, rigorosamente, almeno all’inizio, solo fra maschi, oltre ai bagni illegali. Confrontavamo i nostri rispettivi attributi in stato di eccitazione per la trasgressione di essere lì, nudi, in un luogo appartato, ma alla luce del sole estivo. Avremmo portato, le nostre prime ragazze a fare una passeggiata. Osavamo soltanto, a causa dell’educazione sessuofobica ricevuta, tenerci per mano.
Altre volte andammo in riva al Sangone perché certi giochi si potevano fare soltanto lì. L’esplorazione delle innumerevoli grotte, scavate in alto sulla riva, facevano parte di cacce al tesoro fantastiche, rimasuglio di qualche film sui pirati, o del libro letto da poco, L’isola del tesoro di Stevenson. Alcune di queste grotte, per lo più scavate dagli adulti all’epoca dei bombardamenti nella seconda guerra mondiale, erano profonde e paurose. Ci avventuravamo in esse con torce improvvisate di rami secchi e bottiglie di plastica, le quali bruciavano bene, ma con un tanfo tremendo alla diossina. Tornato a casa, nel mio letto fantasticavo, novello Tom Sawyer, di smarrirmi in qualche labirintica grotta con la mia fidanzata di allora, che non sapeva di esserlo, ma lo sapevo io e tanto bastava. Non c’era al mio paese l’indiano cattivo, ma la fantasia vi suppliva a sufficienza. Da lui e da mill’altri pericoli difendevo impavido l’amata, in attesa che il resto del paese venisse a cercarci. Non troppo presto però.
Proprio sotto la discesa della piazza Alfieri, stava una grande grotta, con l’ingresso in muratura di mattoni posti ad arco, sul sistema romano. Era molto profonda ed alla fine si restringeva molto, rispetto all’ampio ingresso. Una leggenda paesana voleva che quella grotta facesse parte di un antico sistema di fortificazioni militari, della sorta di quelle della cittadella di Torino, quelle di Pietro Micca. Non so quanto ci fosse di vero in tutto questo, ma, stando alle descrizioni del nostro amico droghé, che abitava qualche decina di metri più in alto di quella famosa grotta, pare che le cantine di quella casa fossero un vero labirinto, che si estendeva sotto tutta la piazza. Non bisogna dimenticare che proprio sulla piazza stava l’antico castello medioevale, ora abitato dal nostro medico. Insomma, quando eravamo in tanti, ci avventuravamo per un po’ in quella caverna oscura, ma mai così lontano da rischiare di perderci.
Sull’onda delle avventure di pirati e navigazioni, un giorno andammo, Camola, Alfonso ed io, al torrente con l’intento di costruire una zattera di tronchi. Partimmo con le biciclette, armati di accette e di una grossa fune che avevo trovato nella baracca in cortile. La fune doveva servire per legare i tronchi fra di loro, per formare la zattera. L’idea era tagliare i tronchi di gaggia per il legname, cosa che non fu facile, anche perché, a metà dell’opera ci venne il dubbio che fosse illegale tagliare gli alberi. Alla fine concludemmo che, anche se fosse stato contro la legge, la faccenda avrebbe riguardato il nonno di Alfonso, guardia ‘d Gonsi, guardia forestale. Sicuramente, decidemmo, il nonno in questione, non avrebbe potuto farci nulla, visto che suo nipote era implicato nella faccenda. Così procedemmo fino alla fine, ma quando la zattera fu costruita era ormai tardi. Ne risultò una imbarcazione piuttosto pesante, che avrebbe richiesto più acqua di quanta ce ne fosse in quel tratto di torrente, in quel periodo di secca, per la navigazione. Tornammo a casa abbandonando lì la nostra opera. A casa mi resi conto di non aver riportato la fune nella baracca. Il giorno dopo ero a letto con la febbre. Passò molto tempo prima che potessi tornare a cercare la fune e la zattera, che non trovai più, perché nel frattempo, c’era stata una piena. Vissi per qualche anno nel terrore che qualcuno mi chiedesse conto di quella fune, cosa che in seguito poi accadde, dato che, se spariva qualche cosa in casa, ero, chissà perché, il primo a cui si domandasse.
Nel cortile di via Pastrengo c’erano due posti in cui la gente si raccoglieva seduta nei giorni e nelle sere estivi. Dalla parte nostra, una vecchia pilija71in cemento e mattoni, lunga circa tre metri, a sezione quadrata di sessanta centimetri, venuta da chissà dove, forse un residuato dei bombardamenti, coricata per il lungo, parallelamente alla strada, fungeva da sedile e tavolo a seconda delle esigenze. Dall’altra parte invece, era stata costruita una panca in legno con schienale, con le vecchie assi dei muratori, proprio sotto all’unico albero del cortile, un pioppo che sarebbe in seguito diventato la nostra palestra per le arrampicate. Proprio lo schienale della panca di legno sarebbe stato il trampolino per salire sull’albero, quando avremmo avuto l’età ed il fisico adeguati a questa impresa.
Tutto il terreno, orti e cortile, era cintato con il solito sistema dei paletti metallici e della griglia di fil di ferro, con maglie romboidali. Vi si accedeva attraverso un unico cancello, per entrambe le case, dalla parte della via Pastrengo, che rimaneva sempre aperto, per comodità.
Anche se non vi erano confini precisi tra le pertinenze delle due case nel cortile, c’era però una sorta di linea immaginaria tra di qua e di là. Essa era molto sentita soprattutto fra noi bambini. Non appena sorgeva una piccola disputa nei giochi, subito, per ripicca, i bambini dell’una o dell’altra parte, rinfacciavano a quelli dell’altra parte, che essi non erano nel loro diritto a stare qui: che se ne fossero subito andati dalla loro parte. Una sorta di piccola guerra per questioni territoriali. Del resto anche gli animali hanno conflitti di questo tipo, un conflitto naturale, quasi biologico, quello per il territorio.
Una volta Parin assistette alla mia cacciata da parte di quelli da l’auta. Si inorgoglì e mi mise di là del piccolo giardino dei fiori, sfidando chi mi aveva cacciato. -Adess vëduma chi ca ‘t manda via.72
Rimasi soddisfatto e annichilito nello stesso tempo, per la difesa di mio nonno. Se nell’immediato la difesa faceva valere un mio diritto, era sempre un motivo di scherno, ricorrere agli adulti per farsi valere all’interno del gruppo dei coetanei. Come quella volta che, giocando in piazza con Mondo Verdi e Berto’l droghè, intervenne a mia madre perché essi facevano i prepotenti con me. Mi sfotterono per anni, per essere andato a pioré da mama73. Tuttavia conservo quel ricordo di Parin, mio difensore, come uno dei ricordi più toccanti che ho di lui, assieme ai viaggi in carretto, il giocattolo regalatomi alla fera d’Orbasan74.
I giochi sociali di via Pastrengo, erano più divertenti di quelli in piazza Alfieri. Prima di tutto per il maggior numero di bambini, ma anche per la maggior quantità di spazi diversi, a noi accessibili. I giochi in piazza Alfieri li ricordo più come giochi solitari, di fantasia. Gli unici due bambini, i Verdi, erano più grandi di me ed iniziarono prima ad essere assenti per impegni scolastici. Così passavo il mio tempo giocando e parlando con i miei soldatini di plastica, indiani cattivi e cow-boys, giacche azzurre e cavalli. Il mio rifugio e il posto dove tenevo i giochi era il sottoscala sul terrazzo, tra la puzza dei gatti. Il terrazzo con i suoi piloni erano montagne rocciose dove stavano in agguato gli indiani. Questi giochi erano alimentati dai rari films visti al cinema parrocchiale, uniti alla fantasia allora molto fertile, come in tutti i bambini credo. I Verdi, influivano su tutta l’evoluzione dei miei giochi perché avevano sempre giochi nuovi, che io non potevo permettermi nemmeno di sognare. Ci fu il periodo dei soldatini serie “seconda guerra mondiale”. Lì i buoni erano gli americani e gli inglesi, tutti grigioverde, ma con elmetto diverso. I tedeschi erano i cattivi e avevano un elmetto riconoscibile. Diverse e riconoscibili anche le bombe a mano che lanciavano. Ad ananas quelle americane, cilindriche con manico quelle tedesche. Facce e mani erano dello stesso grigio verde dell’elmetto della divisa, non colorati e raffinati come indiani e company. A volte, i Verdi, arrivavano con carri armati ed aerei, a volte con palombari e sommozzatori, che richiedevano per giocare una tinozza o un secchio di acqua, se no non c’era gusto. I due fratelli avevano anche i pattini a rotelle che a volte mi prestavano ed era bellissimo sul battuto di cemento andare verso la discesa. Inutile dire che li desiderai molto anche io, ma non li ebbi mai. La scusa era, questa volta, che eran pericolosi, avrei potuto farmi male. Imparai ad andarvi, quel poco che potei quando me li prestarono. Poi, nel letto di notte, immaginavo di potervi andare tutto il tempo che volevo, con dei pattini miei, sul selciato in cemento. Poi, l’immaginazione si trasformava in sogno. Altri giochi di questo cortile, tornei di scherma con spade di legno. La materia prima per spade, fucili, archi e frecce, qui non mancava mai. Erano i supporti con intelaiatura in legno, degli scampoli di stoffa del negozio del sartor, che, una volta esauriti, venivano accatastati nel cortile a disposizione di chi ne aveva necessità. Erano troppo belli, lisci e lunghi per finire nelle stufe. Meglio figuravano come spade, lance e fucili immaginari. Con un solo chiodo e una traversa vicino all’elsa diventavano spade di “crociati”. Con un pezzo di cartone, delle stesse pezze di stoffa, tagliato e forato, poi infilato sull’elsa, diventavano spade da “moschettieri” o da pirati. Oppure diventavano frecce o lance. Con un berretto in carta di giornale, le armi così ottenute, magari un mantello fatto con uno straccio o un asciugamano, diventavo pirata o moschettiere, parlando da solo con compagni e lotte immaginarie, a voce bassa appena sussurrata, perché, se gli adulti ti sentivano, subito si sarebbe spezzata la magia del gioco e dell’immaginazione. Gli adulti facevano di tutto per portarti alla cruda realtà, tentando in ogni modo di uccidere la mia fantasia. O almeno così pareva a me. Oppure loro non credevano alla realtà del mio mondo.
L’unica femmina bambina in piazza Alfieri era Lucia, la nipote del padrone di casa. Era più giovane di me ed era una lagna. Appiccicosa. Se ti stava addosso non ti mollava più. Per un certo periodo avevo l’incubo di andare a mangiare perché mi stava appresso anche allora. Veniva in casa con me ed assisteva ai miei pasti. Un vero tormento. Noi si mangiava ad orari fissi, mezzogiorno e diciotto e trenta la sera, non appena fosse tornato mio padre dal lavoro. I suoi di Lucia erano commercianti. Avevano una merceria proprio sotto casa nostra, quindi pranzavano e cenavano più tardi, dopo la chiusura del negozio. Lucia aveva così tutto il tempo per assistere ai miei pasti. Trovava da ridire su tutto, da buona piccola ricca. Non appena bevevo acqua vichi75 mista a vino e mi restava sul volto l’impronta colorata in rosa per il vino, con la forma della metà del bicchiere, come un baffo rivolto all’insù, subito esordiva: -Puliëdte i barbis!76, non lasciandomi il tempo materiale per farlo dopo aver posato il bicchiere. Una vera piaga, tanto che entrò, come una ossessione in una delle mie prime espressioni artistiche. Un disegno risalente all’epoca scolastica, che raffigura la mia famiglia seduta a tavola per il pasto, con le stoviglie, la panciuta bottiglia con la macchinetta77 per il vichi, e l’onnipresente Lucia alle mie spalle a controllare ogni mia mossa.
Era difficile capire le donne. Avrei dovuto comprenderlo fin da allora. Tutte le donne, mamma compresa sono state problematiche per me. Esse sfuggivano ad una logica razionale. Io non avevo armi per affrontare l’assenza di logica e l’irrazionalità. Giocare con loro non era divertente come giocare con i maschi.
Nel cortile di via Pastrengo, dove stavano i nonni, ve n’erano parecchie. Tre pressapoco della mia età, solo nella famiglia Calundari. Le due figlie di Banin. Le due figlie dei Santo, famiglia di origine veneta. La sorella del mio amico Marcello Marini, neonata. Arrivò poi ancora Luisa, figlia di secondo letto di Vittorio Carli, un tale vedovo risposato con una signora napoletana dall’oscuro passato, che possedeva una moto con sidecar. Oltre a molte altre, sia della famiglia Calundari che di altre, molto più “vecchie”, che erano “maestre” di quelle giovani. C’erano in questo cortile anche molti bambini di tutte le età. Ma talvolta era giocoforza fare i giochi noiosi delle femmine, per la momentanea assenza, o anche solo per la minoranza dei maschi. Con le femmine si giocava per lo più “alla casa”. Un gioco che consisteva nel simulare la vita domestica di una famiglia, dove loro, le bambine, facevano le mamme che accudivano la casa e i figli -i loro bambolotti- e noi maschi, dovevamo fare i mariti, il cui compito principale era sostanzialmente andare a lavorare, andè fora ‘d le bale78. La “casa” era in pratica il garage della famiglia, quello di assi di legno nel cortile. Compito di noi bambini maschi era quello di andare via con la bici, che “era” un motorino, per esser più grandi. Si metteva una cartolina illustrata piegata in due su una delle forcelle, fissata con una molletta da bucato. La cartolina batteva sui raggi della ruota in movimento, simulando il rumore di un ciclomotore. Tornavamo “a casa dal lavoro”, quando ce lo dicevano loro, perché in sostanza questo gioco lo conducevano loro. Questo, quando andava bene, che non erano arrabbiate con noi. C’era anche il caso che uno di noi faceva il cane, ossia doveva stare lì, davanti alla “casa”, accucciato a fare la guardia. Ancora non sapevamo che, proprio loro, le donne, ci avrebbero fatto giocare questa commedia della casa per tutta la vita. Come il welfare state, il gioco della casa era per sempre, dalla culla alla bara. Loro, le ragazze, si esercitavano a tenerci sotto controllo con la finzione, sotto scacco, in eterno. Noi, intanto non sapevamo di stare coltivando ed esercitando la nostra pazienza e rassegnazione. Per tenere testa ad una donna ci vogliono doti che possiedono solo in pochi. In sostanza, per poter restare nell’eterna commedia, occorre che la commedia duri in eterno. Tutto si basa sulla logica delle routine quotidiane. Svegliarsi, lavarsi, mangiare, andare a lavorare, a fare le spese, preparare da mangiare, mangiare e dormire. Poi un altro giorno, tutto d’accapo, tutto sempre uguale. Ognuno il suo ruolo, guai uscire dai ruoli e dai ranghi: la commedia si spezza, il gioco finisce, regneranno caos, anarchia e disorientamento. Chi sei se non sai cosa devi fare? Eccola nuovamente lì, la stessa idea che suggeriva l’ideologia della “voglia di lavorare”: chi sei se non hai un lavoro e un ruolo? Non sei nessuno, in questa società. Allora devi avere un ruolo preciso prima di tutto nella famiglia. Marito, padre, moglie, madre, figlio, figlia e nonno e così via. Solo così potrai avere un ruolo nella società. Ecco perché le istituzioni spendono parole, tempo e denaro per conservare la famiglia così come è: essa è la cellula fondamentale della società consumistica, sulla quale si basa il nostro sistema economico. Sono le donne, in ultima analisi a perpetuare questo modello. Saranno persone, uomini o donne atitpici, artisti, creativi, emerginati, devianti, a distruggerlo, per costruire un mondo migliore. Sarà un bambino o una bambina illuminati, che un giorno dirà: -Basta! Io non ci sto più a giocare ‘alla casa’. Voglio fare qualche cosa di diverso. Giochiamo all’orgia. Giochiamo agli eremiti nel deserto. Giochiamo alla tribù della Gente in armonia con la Natura. Allora sarà gettato un piccolo seme di cambiamento, che germoglierà, col tempo, anche se, probabilmente, colui o colei che l’avranno gettato, non vedranno mai, nel corso della loro vita, nessun risultato apprezzabile. Anzi, addirittura potrebbero essere emarginati, rinchiusi, liquidati.
Io non sono mai riuscito a capire veramente, anche se sono per la parità dei diritti fra i sessi, che cosa volessero davvero le femministe degli anni sessanta e settanta. Credo che dovremmo essere noi maschi a chiedere un poco di emancipazione, un poco di respiro, una tregua allo scacco perenne del gioco “alla casa” in cui ci tengono.
Qualche tempo fa, un amico che veniva dal meridione, mi disse che al suo paese esisteva un uomo molto potente, una specie di boss, al cui passaggio tutti si scappellavano, riverivano, baciavano le mani con timore reverente. Un uomo abituato a dare ordini ed a vederli subito eseguiti, magari se voleva qualche nemico morto. Quando la moglie di quest’uomo lo chiamava dalla finestra, questi diventava umile ed arrendevole e correva immediatamente a fare ciò che la moglie gli domandava, senza farselo ripetere due volte.
Si consideri che è sempre una donna ad allevare e forgiare un bambino. Si consideri che sono i bambini che faranno il mondo futuro, così come sarà. E lo faranno con le idee ed i concetti con cui sono stati educati, da una donna. Neanche a me piace il mondo così come è oggi. Ma non dicano, per favore, le femministe che questo è un mondo creato dagli uomini, per gli uomini, per tenere in scacco le donne. È proprio vero il contrario, almeno nella nostra cultura. Forse nel mondo islamico può darsi che le cose vadano diversamente e siano gli uomini, i maschi a comandare. Ma anche laggiù, sono sempre delle femmine che allevano degli uomini. Spezzino le donne questo circolo vizioso, cambiando prima di tutto se stesse, e quindi il loro modo di allevare i bambini. Soltanto così si potrà davvero cambiare questo mondo!
Tornati alla dimora, ci toccava fare finta di mangiare da quei piattini di plastica riempiti di sabbia o ghiaia del cortile, fingendo di apprezzare le pietanze che dicevano essere. Altre volte si giocava con esse alla “settimana”. Un gioco di abilità in cui si doveva, saltellando su di una gamba sola, recuperare un sasso che si era gettato su un tracciato sulla ghiaia del cortile, che rappresentava i sette giorni. Il tracciato consisteva in sei quadri affiancati tre per due, ed un semicerchio, una cupola sopra le due colonne di quadri, che rappresentava la domenica. Venivano anche tracciate dentro le rispettive caselle le lettere che rappresentavano le iniziali dei giorni della settimana. I giocatori, a turno, lanciavano il loro sassolino personale e riconoscibile per forma o dimensioni e colore. Il sasso doveva essere lanciato una volta in ogni casella-giorno della settimana e restarvi dentro nei suoi rimbalzi, altrimenti si perdeva il turno. Poi era necessario andarlo a recuperare, come ho detto saltellando su una gamba sola, senza pestare le righe e senza toccare terreno con l’altro piede, altrimenti si doveva ricominciare. Il recupero prevedeva sempre il passaggio, nel modo descritto, per tutti i giorni della settimana. In questo che era un gioco loro, le femmine sembravano avere maggiore abilità per vincere sempre. Anche nel gioco dei cinque noccioli, un gioco che richiedeva le abilità di un giocoliere da circo, vincevano le ragazze. I noccioli erano quelli delle pesche, che si trovavano in ogni angolo, ed erano tutti grossi uguali. Erano disposti in fila sul pavimento di cemento del garage o sul marciapiede, dove stavamo seduti con le gambe incrociate, come si sedevano i pellerossa nei films. Si dovevano raccogliere uno ad uno, facendo volare in alto, senza farli cadere, quelli già raccolti in precedenza, mentre allo stesso tempo si recitava una filastrocca.
Quando però a sera, in estate eravamo in molti nel cortile di via Pastrengo, anche le femmine talvolta partecipavano a quei grandiosi giochi con tanta gente, tipo nascondino, fulmine, palla prigioniera.79 In quasi tutti i giochi si faceva la conta con cantilene diverse, per vedere a chi toccasse ste sota80, o, semplicemente per suddividere i partecipanti fra le squadre, o, infine, per scegliere a chi toccasse la prima mossa. La cantilena più comune che ricordi è la seguente:
Ambarabà-Ciccì Coccò,
tre civette sul comò
che facevano l’amore
con la figlia del dottore.
Il dottore si ammalò
Ambarabà-Ciccì Coccò.
Un’altra cantilena da conta faceva:
Pin-pi-ri-petta nuse
Pin-pi-ri-petta pan.
Chi contava, in questo caso, invece di battere sul petto di uno dei presenti alla conta, tutti disposti in circolo, batteva, con la mano chiusa a pugno, sui pugni degli altri e sotto il mento di se’ stesso. Tutte le cantilene venivano dalla fantasia delle femmine, specialiste in questo settore.
Le cantilene venivano sillabate con enfasi, spostando ad ogni sillaba, l’indice dall’uno all’altro dei partecipanti. Il prescelto era quello indicato contemporaneamente al pronunciamento dell’ultima sillaba. La conta e la sillabazione erano soggette a giochi di prestigio atti a barare, per fare in modo che il prescelto fosse quello voluto da colui o colei che eseguiva materialmente la conta. Le femmine, in particolar modo, per le loro superiori capacità verbali -vorrei conoscere qualcuno che sappia spuntarla verbalmente con una donna- erano dei veri bari nel gioco della conta. Una contromisura ideata per prevenire questa truffa era che chi faceva la conta iniziasse a recitare la cantilena mentalmente, o sottovoce, facendo roteare le mani e le braccia orizzontalmente, una attorno all’altra, fino a che un altro partecipante l’interrompeva. A quel punto iniziava la conta vera e propria, proseguendo la cantilena vera e propria, dal punto a cui era arrivata, e iniziando a indicare. Le femmine però riuscivano a barare anche in questo modo, giocando sulle ultime sillabe. Talvolta nascevano dispute tremende per questi disaccordi, sorti ancor prima che il gioco vero e proprio iniziasse. Altre dispute potevano nascere dal disaccordo sull’applicazione delle regole, o sul disaccordo sulle regole. In generale era chi perdeva a sollevare obiezioni di regolarità.
Più grandi scoprimmo il gioco al dottore, dove si esplorava il sesso, nelle sue prime manifestazioni, come rivelazione del corpo dell’altro, soprattutto di quelle parti “vergognose”, che tanta curiosità destavano in noi bambini, grazie proprio all’alone di mistero che i grandi gli avevano costruito intorno, con i loro sensi tabù del proibito, dell’indecente. Dapprima furono incontri e brevi giochi furtivi, appartati nella stanza delle mele81, approfittando di un momento di distrazione degli adulti. In seguito, scoperti da Nona, che aveva subito intuito di cosa si trattasse, diventammo più cauti, riservando questo gioco ai momenti in cui i grandi erano rilassati e, soprattutto, abbastanza lontani. Avrei scoperto, meraviglia e sgomento, sotto un balcone del primo piano, luogo appartato perché gli adulti, per vedere se ci fosse sotto qualcuno avrebbero dovuto inchinarsi o inginocchiarsi, cosa che facevano malvolentieri, il sesso femminile di una delle compagne di giochi. Non solo privo del pene, ma una cavità arrossata come una ferita dovuta ad una mutilazione recente, non ancora guarita e infiammata, intravista mentre la bambina in questione si scostava le mutandine bianche senza abbassarle. Carlo Portigliatti ed io, mostravamo, in cambio, perché a quell’età la curiosità era paga della vista , i nostri rispettivi attributi infantili, non senza un senso di vergogna, non innata, ma imparata dagli adulti, che con la scuola e soprattutto con la religione, avevano instillato in noi. Ci contentavamo della visione e non ci azzardavamo neppure a pensare di poter toccare quella cosa arrossata e “sporca”, per un pudore ed una idiosincrasia innaturale, non genuina, contraria ad ogni buon senso biologico che fa sì, invece, dove non entri in gioco una insana educazione sessualmente repressiva, che gli opposti si attraggano e si cerchino per toccarsi, annusarsi, abbracciarsi, nel tentativo di fondersi. Come accade in quelle civiltà dove il sesso non è tabù, e agli adolescenti è permesso scoprire naturalmente ed in modo sano la sessualità, come quei popoli delle isole Trobriand (Melanesia), descritte da Bronislaw Malinowski.82 Quello fu l’unico sesso femminile che vidi così da vicino e volutamente, in quegli anni giovanili. Mi accadde per caso di vedere di sfuggita e da lontano, di vedere il sesso di una bambina, che al mare, si stava cambiando il costume dopo il bagno. Un sesso esterno, al contrario di quell’altro, aperte volutamente le grandi labbra, che rivelava il suo segreto più intimo.

I giochi fra maschi erano più vari, gagliardi, divertenti, anche se spesso competitivi. A parte i già citati giochi in comune, quasi tutti provenienti dall’oratorio, che tutti conoscono, che più si era in tanti, più erano divertenti, c’erano i giochi “sportivi”, dei quali parlerò più avanti.
Biglie e figurine furono, almeno per un certo periodo, i giochi più popolari fra bambini di tutto il paese, non solo del cortile. A seconda della moda uscivamo di casa la mattina con le tasche piene o di biglie di vetro o di figurine. Potevamo in mezza giornata far ritorno con le tasche rigonfie oppure del tutto vuote. Nel lungo periodo però restavamo ën sël nost83. Non so di nessuno che sia diventato un Paperon de Paperoni delle biglie o delle figurine. La fortuna era una dea bendata, che favoriva ora l’uno ora l’altro di noi, anche se esistevano i fortunati come Gastone e gli sfortunati come Paolino Paperino. Io, devo essere sincero, fra tutti i personaggi Disney, ho avuto sempre in simpatia quest’ultimo, e devo dire di avere sempre avuto la fortuna in proporzione. I giochi dove era in ballo la nostra fortuna, in biglie o figurine, erano sì giochi di abilità, ma la fortuna vi aveva la sua parte. Le biglie erano di diversa grandezza e c’era un comune accordo sul valore delle grandi, che erano sempre multipli della biglia piccola standard. Le biglie riconosciute valide erano quelle di vetro trasparente, con all’interno delle eliche di vari colori. Ma erano ritenute valide e quotate anche quelle di acciaio. Le figurine furono, almeno per un certo periodo, collegate al calcio, in quanto raffiguravano calciatori o squadre. Ma ci furono figurine di ogni genere, dai ciclisti ai cantanti, dagli animali alla storia. La destinazione ideata dagli adulti che le avevano create, era incollate ad un album senza essere sgualcite. Ma nei nostri giochi le figurine si sgualcivano e si stracciavano, per effetto dei giochi d’azzardo che consentivano di procurarsene molte. Biglie e figurine erano moneta corrente, fra di noi. Inoltre tutto poteva essere scambiato con tutto, a patto che ci fosse comune accordo sul rispettivo controvalore delle cose scambiate. Un altro diffuso mezzo di scambio erano i giornali a fumetti. Topolini, Capitan Miki, Zagor, Tex Willer, Mandrake, Braccio di ferro e altri di cui non ricordo il nome, costituivano approvvigionamento culturale e fonte per la nostra immaginazione. I fumetti venivano scambiati per il loro valore di copertina. Si sommavano i prezzi dei giornaletti per effettuare un equo scambio.
I giochi più comuni a biglie erano due, come pure quelli a figurine. Il pampalo e il tampin per le biglie. Col palicia e a mare per le figurine. Il gioco a biglie detto pampalo, era fatto tracciando in terra una linea che terminava in un cerchio di dieci-quindici centimetri di raggio. Su questa traccia venivano disposte le puntate, calcolate in valore di numero di biglie. Le biglie grandi venivano disposte nelle prime posizioni, partendo dal cerchio, in ordine decrescente, per “valore” e grandezza. Al centro del cerchio veniva posta la biglia più grande. Per ultime le biglie di valore uno. La biglia, o meglio, ël bijon84 al centro del cerchio era quella che dava il nome al gioco stesso. Quella posta alla confluenza della linea retta nel cerchio veniva detta vice-pampalo. Le biglie grosse, oltre ad avere un valore maggiore, servivano nel gioco come strumento da usare per vincere le biglie messe in palio, puntate dai giocatori, nel gioco. Anche perdendo tutta la posta giocata, ël bijon personale, quello usato per tirare, cercando di far fuoriuscire le biglie dalla loro posizione, non veniva perso. Erano categorie diverse, l’uno strumento per giocare, le altre moneta da puntare, posta in gioco.
Per prima cosa si sistemava la puntata nel modo specificato; poi si tirava a mare85, con la propria biglia da gioco. Tirare a mare consisteva nell’andare più vicino possibile a una linea retta tracciata nel terreno con un bastone. Il più vicino a mare, alla linea, aveva diritto a tirare per primo la propria biglia verso quelle disposte, a modo di posta nel pampalo, nel tentativo di farle uscire dal cerchio o dalla linea. Il primo tiro si effettuava con la biglia in mano, in piedi, dalla linea ëd mare, posta a qualche metro di distanza dal gioco del pampalo. I tiri successivi, venivano effettuati lasciando le biglie sul terreno e colpendole con le dita. A seconda di come si era più abili, o con l’indice che strusciando sul pollice, dava una steccata, una volta liberato dal freno del pollice stesso, con l’unghia sulla biglia, oppure con il pollice piegato al di sotto dell’indice, che si caricava di tensione per poi colpire la biglia da gioco con l’unghia del pollice improvvisamente liberato. Si tirava a turno, a seconda dell’ordine di distanza dalla linea di mare. Quando una delle biglie veniva colpita e spostata dalla linea, l’autore del tiro si aggiudicava quella biglia e tutte quelle che seguivano dalla parte più lontana al pampalo. Il pampalo, che però doveva essere fatto uscire completamente dal cerchio, faceva guadagnare tutta la posta rimasta dietro di se stesso sulla linea. Lo stesso dicasi per il vice-pampalo. Questa biglia però, e quelle immediatamente vicine, potevano avere una sorte strana. Colpite potevano sì staccarsi dalla loro linea sulla quale erano collocate, ma se per caso finivano nel cerchio del pampalo, non erano ancora vinte. Per aggiudicarsele occorreva, colpendole, farle uscire completamente dal cerchio. Chi faceva un tiro vincente inoltre, aveva diritto ad un secondo tiro, prima degli altri in coda per tirare. Se si aveva la fortuna di un tiro vincente già da lontano, si avevano maggiori probabilità, in quanto toccava un altro tiro, questa volta però, da vicino. Si aveva sempre diritto ad ancora un altro tiro, finché si effettuavano tiri vincenti. Così poteva accadere che giocasse una persona sola, e gli altri restassero a guardarlo intascare le biglie senza partecipare al gioco. Se nessuno dei primi tiri da lontano era vincente, toccava tirare a colui, la cui biglia di gioco si fosse fermata più vicino al pampalo di tutte le altre. In questi giochi si era sempre con le ginocchia per terra, sempre sporchi di polvere mista al sudore. Comunque sia le nostre ginocchia erano in qualche modo sempre sbucciate o con qualche crosta in via di guarigione. A volte ci si accapigliava, perché in questo gioco, era come se fosse in ballo il denaro, proprio per le stesse ragioni per cui litigano gli adulti. Soprattutto quando si era in tanti, l’ordine di tiro, in base alla vicinanza alla mare, era sempre controverso. Potevano esserci due biglie pressappoco alla stessa distanza. Se si era saggi si cercava di misurare con stecchi e bastoncini che fungevano da metri improvvisati. Ma potevano volare anche parole grosse o ceffoni. Soprattutto quando la posta in gioco era alta. In special modo le grane potevano indistintamente venire da chi era conosciuto come particolarmente aggressivo, il quale, si sa, doveva vincere a tutti i costi, pena la perdita del prestigio, come da chi stava perdendo molto, per ovvie ragioni. Una biglia poteva essersi mossa ma di poco, tanto da apparire dubbio che fosse o meno, fuori dalla sua riga, fuori o meno dal cerchio.
Il gioco del tampin86 era più semplice, e con vincite più modeste. Si scavava nel cortile, con l’ausilio di una zappa o anche solo semplicemente di uno strumento improvvisato come un sasso acuminato, un piccolo buco, pulendo poi bene la superficie attorno ad esso dai detriti dello scavo, nel quale dovevano essere fatte cadere, per vincerle, le biglie degli avversari. Adatto a giocatori poveri di biglie poiché in questo gioco potevano essere in palio anche solo un a biglia a testa. Per questo gioco valevano le stesse regole di tiro del pampalo. Inizio con tiro a mare, primo tiro da lontano in piedi, tiri successivi con le unghie. Diritto di ripetizione del tiro vincente. Qui non potevano esservi contestazioni sulle vincite, dato che le biglie finite nel buco erano, incontestabilmente nel buco. Poteva però accadere che le biglie colpite troppo forte entrassero ed uscissero dalla parte opposta.

Il gioco detto palicia, con le figurine, consisteva nel porre la posta in ballo di figurine al centro di un grande cerchio, circa un metro, un metro e mezzo di diametro tracciato con un bastone sul terreno del cortile. Le figurine, per essere vinte dal giocatore, dovevano essere fatte fuoriuscire dal cerchio per mezzo del palicia. Il palicia era un disco del diametro di una decina di centimetri, spesso uno o due, ricavato da una vecchia mattonella. Esistevano poi palicia più raffinati in marmo o, addirittura in metallo. In mancanza di tutte queste raffinatezze, si poteva usare un comune sasso dalla forma appiattita. In realtà passavamo più tempo a costruire i palicia -trovare il materiale adatto, arrotondarlo, battendo con sassi o se c’era, con un martello, come novelli uomini neolitici- che non a giocarvi. Possedere un buon palicia era già di per se stesso un segno di prestigio. Spesso accadeva che, trovato il materiale adatto, lavoratolo per un bel po’ di tempo, alla fine, dando l’ultimo ritocco di arrotondamento, esso si rompesse a metà, con grande frustrazione dovuta al dover ricominciare da capo, con un pezzo più scadente. Ormai sapevamo dove trovare le materie prime. Discariche di materiale edilizio di qualcuno che stava ristrutturando case. Scarti di lavorazione del marmo. Compivamo escursioni rapide e silenziose, in quelle nostre “miniere” a cielo aperto, come se stessimo rubando, piccoli uomini neolitici. In realtà stavamo compiendo un’azione ecologica: riciclavamo gli scarti di altri. Occorreva avere più di un palicia, perché spesso accadeva che si rompessero durante il gioco. Non era lecito cambiare palicia durante una partita, ma soltanto alla successiva. Se si sfasciava durante un tiro occorreva terminare la partita con il pezzo più grande rimasto. Mi sono sempre domandato chi avesse creato tutte queste regole.
Le regole del gioco delle figurine, o plance, a palicia, erano molto simili a quelle del pampalo per le biglie. Dopo aver sistemato la posta al centro del cerchio, si tirava il palicia a mare, la solita linea in terra. Il più vicino a mare aveva diritto al primo tiro da lontano del palicia, nel tentativo di fare uscire le figurine dal cerchio. Poteva accadere che la mare fosse il punto più lontano dal cerchio della posta, senza essere una linea materiale. Ognuno allora tirava nella direzione che credeva più opportuna, cercando il punto più lontano. Succedeva così che si effettuavano poi primi tiri impossibili, al di sopra dei garages o del pioppo del cortile, con pericolo grave nostro e di eventuali passanti adulti. Non ricordo però che siano mai successi incidenti per questi oggetti pesanti lanciati a grandi distanze e, talvolta a grandi altezze. Accadeva poi che i primi tiri fossero ulteriormente complicati dal fatto che, chi non era il primo a tirare, di solito inventava nuove regole pignole per complicare la vita al primo tiratore. Si doveva mettere il piede, per tirare, dove prima stava il palicia. Se questo era finito addossato ad un muro, si doveva tirare addossati al muro. Cosa non semplice se si doveva tirare lontano, visto che la mano non poteva prendere sufficiente rincorsa arretrando dietro al corpo, come si fa normalmente per lanciare qualsiasi oggetto, visto che dietro al corpo c’era un muro. Quando c’erano tanti partecipanti il bottino era appetitoso e ci si accaniva come se fosse stato in gioco denaro vero. Perché per noi era in ballo denaro vero, oltre al prestigio. Sempre sudati, per il caldo e l’eccitazione, facevamo tutto in fretta, per l’ansia di intascare il montepremi. Anche le dispute e le controversie venivano appianate in fretta, mediante una sorta di democrazia a partecipazione diretta: tutto era risolto con la convalida della maggioranza degli astanti. Talvolta si discuteva per figurine rimaste con un angolino ancora sulla traccia del cerchio. Se non vi era accordo sulla uscita completa di una o più figurine, queste in linea di massima rimanevano in gioco. Anche qui il tiro vincente dava diritto a ripetizione del tiro fino ad un tiro non vincente. Si tirava sempre mettendo il piede, quello più vicino al cerchio della posta, nel luogo esatto dove stava il palicia prima del tiro. Dopo i primi tiri da lontano, se vi era ancora posta da vincere, si tirava da vicino al cerchio, facendo scivolare di piatto l’attrezzo, mentre roteava, per cercare di buttar fuori il maggior numero di plance87 possibili. Poteva accadere che l’eccitazione dava luogo ad uno stato di tensione tale, da indurre a sbagliare tiri da vicino semplicissimi. Si doveva ancora imparare che ogni abilità richiede di essere svolta in uno stato di rilassamento dinamico. La tensione nelle abilità, nel gioco, a scuola e nella vita è sempre un fattore nocivo.
Un altro modo di giocare a plance, meno popolare del precedente, consisteva nel lanciarle di piatto, tenendole fra indice e medio, contro un muro. Vinceva tutto chi copriva un’altra figurina con quella appena lanciata.

Oltre a raccogliere palline da tennis, materiale per i palicia, e materiali vari per altri giochi o costruzione di attrezzature, si raccoglievano svariati insetti. I più attraenti erano le lucciole, con il loro ventre lampeggiante. Era un mistero come un animale così piccolo potesse avere una luce all’interno. Si raccoglievano per studiarle. Poi si tenevano nella mano, dopo averle catturate al volo, o colpite e gettate in terra. Ricordo anche che tentammo di metterne un quantitativo in una bornija, per fare una sorta di lanterna. Altri insetti che raccoglievamo erano i cosiddetti givo, maggiolini. Erano come degli scarabei in grado di volare. C’erano certi alberi nella via Pastrengo, che se si scuotevano davano un raccolto ricco di questi maggiolini. Anche questi talvolta finivano nei vasetti o nelle scatole per essere esaminati e studiati. Talvolta semplicemente in tasca. A volte nella foga del gioco finivano per essere schiacciati e uccisi nelle nostre tasche. Ma a quei tempi non ci faceva schifo nulla. Un altro insetto era una specie di piccola farfalla, che chiamavamo preive88, per il suo colore nero, con striature in giallo. Studiavamo antenne e zampe, fin nei minimi dettagli. Accadeva anche che fossimo crudeli con gli insetti raccolti. Cose tipo punzecchiarli con spilli o lanciarli in acqua per vedere quanto avrebbero resistito alle nostre torture.
C’era chi raccoglieva di peggio. Ricordo un ragazzo che abitava in borgo Mëlan, il quale aveva sempre dei serpenti in tasca. Piccole e grandi bisce che raccoglieva in riva al Sangone. Questi animali mi facevano un po’ senso, quando questo tizio li maneggiava, e cercava di avvicinarceli al volto per spaventarci.
Ero crudele come tutti i bambini, verso gli animali. O forse ero soltanto io. Ho torturato lumache con spilli. Le ho lanciate lontano con la fionda, pensando a cosa avrebbero provato, esse solitamente così lente, a sperimentare una accelerazione come quella, simile a quella sperimentata da Gagarin durante la sua partenza sul razzo per orbitare intorno alla terra.
Naturalmente costruivamo da noi le nostre fionde. Occorreva un buon pezzo di ramo biforcuto e robusto di grandezza adeguata per il manico. Tagliavamo spelavamo, intarsiavano fronde di pioppi o gaggie. La parte elastica era ottenuta con camere d’aria, principalmente di biciclette, perché erano più a portata di mano. In ogni garage c’era una vecchia camera d’aria di bicicletta che poteva servire allo scopo. Ma erano anche molto delicate. Si rompevano spesso. Molto più robuste, ma difficilissime da trovare le camere d’aria di motocicli o automobili, giacché molto più spesse. Il centro della fionda, dove veniva posto il proiettile, il sasso da lanciare, era solitamente un vecchio pezzo di cuoio, tagliato a forma ellittica o rettangolare con spigoli arrotondati. Sui lati corti venivano praticati dei fori per farvi passare gli elastici. Il tutto veniva assicurato, gli elastici alla forcella e gli elastici al centro in cuoio, con filsela89, strettamente legata e annodata. Talvolta, nelle fionde più raffinate, il manico stesso, la forcella in legno, veniva rivestita con lo stesso spago oppure con lo scupidù90. Tutto ciò che serviva a lanciare qualche cosa, tirare ci affascinava. Le cerbottane riempirono molte giornate della nostra gioventù. Quando c’era il periodo di questa moda, andavamo in giro con quei tubi di plastica che usavano gli elettricisti per fare correre i fili della luce nel muro, e mazzi di fogli di giornali, riviste o vecchi quaderni, tagliati in strisce larghe quattro, cinque centimetri lunghe venti, infilate nella cintura dei pantaloni. Avevamo sempre uno scartoc91 in costruzione. Arrotolare. Mettere la punta in bocca per incollarlo con la saliva. Girare fra labbra e denti davanti. Tagliare il superfluo con le dita, in modo che il diametro della parte più grande dello scartoc sia adeguato al diametro della cerbottana. Infilarsi i proiettili già fatti fra i corti capelli. C’era una necessità pratica se volevamo tenere sempre i capelli un po’ più lunghi di quanto volessero i nostri genitori. Oltre che una moda. Mio padre aveva questa fissazione, e non solo lui credo, che i maschi con i capelli più lunghi, i capelloni, come li chiamavano allora, fossero sporchi, cattivi, pelandroni. Era una idea ben strana, giudicare la gente dalla lunghezza dei capelli. Giudicarla a priori. E poi Gesù Cristo non aveva lunghi capelli come le femmine e barba incolta ? Perché poi la moda dei capelli lunghi non metteva all’indice anche le femmine? Furono le nostre guerre, queste per poter tenere i capelli della lunghezza desiderata, contro il parere dei genitori. Più tardi avremmo rivendicato il diritto di fumare, di fare sesso, eccetera. L’attenzione e le energie migliori della gente, andavano sprecate per queste dispute ridicole, con tutti i problemi seri che c’erano allora nel mondo. In fondo eravamo letteralmente “trascinati per i capelli” in queste diatribe, dai nostri “vecchi”, come presto sarebbe diventato di moda chiamarli, sempre mantenendo un certo rispetto, tuttavia.
Le cerbottane erano di varia fattura. La più semplice era a canna singola. Un semplice tubo di plastica nero oppure grigio. Esistevano però versioni più sofisticate, vendute nei negozi di giocattoli, con mirino, impugnatura e boccaglio a ventosa. Sofisticazioni inutili e, si direbbe oggi, kitch. Esistevano anche le versioni sofisticate di quelle artigianali. Generalmente si trattava di più canne messe insieme con nastro isolante colorato e tappi di sughero, che fungevano da distanziali. Avere cerbottane a canne multiple costituiva un vantaggio dovuto alla potenzialità di un maggior “volume di fuoco”, senza dover ricaricare, in caso di incontro col “nemico”. C’erano vere e proprie battaglie. Questo gioco, nato forse all’oratorio, continuava nel cortile di casa e per le strade. Occasione di litigio era il fatto che molti di noi non accettavano di essere colpiti e, quindi, dover abbandonare il gioco, in attesa che ne ricominciasse un altro. Si barava dicendo di non essere stati colpiti. Per litigare su queste questioni si sospendeva momentaneamente il gioco, una specie di tregua delle ostilità guerresche per, paradossalmente, dare corso alle ostilità reali. Talvolta le battaglie avvenivano nei boschi in riva al Sangone. Qui il panorama era più naturale, selvaggio, ed il gioco stesso appariva più reale. Molti dei giochi dell’oratorio, olimpiadi comprese, avvenivano sulle rive del Sangone, territorio per noi paragonabile al selvaggio west. Tattica, tattica scalpo, guardie e ladri, tutti i giochi a due squadre contrapposte facevano di noi dei guerrieri accaniti. Anche questo era paradossale. Che all’oratorio, luogo gestito dai preti, che avrebbero dovuto insegnarci l’amore universale, si insegnava ai bambini, maschi, l’arte della guerra, per mezzo di questi giochi. Non che non ci piacessero. Anzi erano appassionanti oltre ogni misura, visto come ci scaldavamo nel giocare il nostro ruolo.
Le femmine no, erano da un’altra parte, in un oratorio tutto loro, separato dal nostro, a imparare chissà quali altre abilità a noi sconosciute. E’ curioso che si predichi e si insegni l’amore dividendo ciò che per natura tenderebbe a riunirsi. Come avremmo fatto a conoscerci se non ci vedevamo ne parlavamo mai. E pensare che si intuiva fin da allora, che il nostro destino, a meno che a qualcuno di noi non venisse la “vocazione”, come la chiamavano preti e suore, sarebbe stato quello di unirci, almeno ad una delle femmine, per formare una famiglia.

Molti facevano dei lavoretti a casa, per arrotondare le entrate. Erano perlopiù lavori che si potevano fare seduti, in famiglia, conversando. C’erano vicino a noi, officine dove si stampavano fiori di plastica ad esempio. Un lavoro comune a cui partecipavano tutti e potevano farlo anche i bambini, era assemblare questi fiori di plastica. Gambo, pistilli e petali andavano montati insieme, inserendoli negli appositi fiori ed incastri. Prima di tutto era necessario staccare le parti dalle loro materozze92. Si facevano ad esempio i mughetti. Tutti i gambi venivano separati gli uni e gli altri. Lo stesso dicasi per le campanelle. Rimanevano dei pezzi di scarto, di vari colori, le materozze appunto, e le parti costitutive del fiore. La plastica aveva un odore buono, quasi un profumo proprio di quei fiori artificiali. Oltre ai fiori di plastica c’erano anche i frutti. I fiori servivano per portare al cimitero, sulle tombe dei morti in inverno, quando non c’erano fiori veri. In primavera si lavavano per togliere la polvere accumulatasi in inverno e si riponevano fino all’autunno.
I frutti di plastica servivano per metterli nelle fruttiere da tenere sul bufet, per figura. Oggi sembrerebbe di cattivo gusto ai più questo dettaglio di arredamento.
La signora Dellagiovanpaola, madama Gina93, metteva i manici di legno ai cacciaviti a due estremità, una a croce, una a taglio, che sarebbero finiti nelle scatole in dotazione alle auto Fiat. Faceva questo lavoro in cantina. Passava le sue giornate la dentro, come se facesse le otto ore, forse anche di più, illuminandosi con candele di cera.
C’erano due signore di nome Gina nel palazzo, entrambe nel piano sopra a quello dei nonni. La seconda, la mamma del mio compagno di giochi Carlo Portigliatti, veniva chiamata madamin Gina e in questo modo sapevamo immediatamente a chi ci si riferiva. Non sapevo che differenza ci fosse fra madama e madamin, visto che entrambi si applicavano alle signore sposate. Il termine contrapposto a quello delle signore sposate era tota, signorina. Io avevo ipotizzato che fosse una questione di età. Madama sembrava applicarsi a signore più anziane. In seguito qualcuno mi ha riferito con convinzione, che le madamin diventavano madame in seguito alla morte della loro suocera. Non so se questo fatto sia esatto, ma mi sembra una buona giustificazione di una differenza altrimenti inspiegabile, perché l’ipotesi mia dell’età non mi sembra valida, in quanto occorrerebbe stabilire un limite che segni il passaggio dall’uno all’altro. Limite che non saprei dove situare.
In certi periodi giravamo sempre con la fionda in tasca. Serviva a lanciare sassi. Facevamo del tiro a segno, in fondo al cortile o in un prato, cercando di colpire lattine vuote o bottiglie di vetro. Le bottiglie davano maggior soddisfazione, se andavano in mille pezzi. I sassi da tirare non mancavano mai nel cortile acciottolato di via Pastrengo. Tiravamo però soprattutto agli uccelli. Difficilissimo colpirli in volo o fermi su un albero. Non sapevo nemmeno perché volessimo colpirli. Colpii una volta una rondine. Verso l’autunno, nell’epoca precedente del rientro scolastico dopo le vacanze estive, gli uccelli si radunavano in molti, sui fili della luce in strada, preparandosi alla migrazione. La preparazione alla partenza durava giorni. Accadeva di vedere lunghe file di rondine, una accanto all’altra su quei fili, cosicché fu facile colpirne una. Cadde stordita per il colpo ricevuto in pieno petto. Eccitato la raccolsi ancora viva e stordita nelle mani e la portai su in casa. Nona mi disse che non era una buona cosa fare del male ad una rondine. Mi sentii in colpa, tremendamente in colpa per il mio gesto. Pensandoci mi sento in colpa ancora adesso. La portai sul balcone e pregai che si riprendesse. Era piccola, fragile, tremante di paura. Non aveva ferite sanguinanti e si riprese. La lanciai dal balcone e volò via. Questo ricordo mi riporta ad un episodio più recente, in cui la vittima protagonista era un passero, catturato e ferito da una gatta che avevamo in casa. Era lì tremante e affannato. Assolutamente indifeso. Conoscendo la gatta sapevo che vi avrebbe giocato per ore prima di finirlo. Mi parve che la sua agonia, e quindi la sua sofferenza sarebbe stata troppo lunga e crudele. Stavo trasportando nel cortile un carico pesante con un carrello dalle ruote rigide. Giocai a fare dio, e decisi di por fine alle sofferenze della creaturina schiacciandogli la testa con una ruota del carrello. Una morte rapida. Non lo fu. Con la testa schiacciata, sembrò rianimarsi e tentare di volare via disperatamente, urlando in un modo che non dimenticherò mai più. La sua agonia durò alcuni interminabili secondi, durante i quali forse fu la sua piccola anima a tentare di volare via, ancora impacciata dalle pastoie di un corpo del quale non riusciva a svestirsi. La gatta assistette impassibile all’evento. Solo molto tempo dopo mangiò il passero. Mi ripromisi che non mi sarei mai più intromesso in un evento naturale come quello. Neanche per un buon fine di una morte pietosa. Chi può dire quanto soffra un altro essere? Chi può conoscere quale sia la morte più dolce?

Ci piacevano un sacco le armi, soprattutto quelle da fuoco, anche se non disdegnavamo, in certi periodi, secondo le mode del film appena visto o del fumetto letto, dei primi libri, anche gli archi con le frecce, che costruivamo tagliando rami nel territorio selvaggio che, dalla casa dei miei nonni, si estendeva fin sulle rive del torrente Sangone.
Non serve tirare in ballo Freud, per scorgere l’analogia simbolica, che accosta le armi allo strumento virile che la natura aveva disposto, e che era, anche se allora non lo sapevamo, ancora di misura ridotta. Era soprattutto nei periodi vicino a carnevale che esplodeva la moda e la passione per le armi da fuoco, che si acquistavano nella cartoleria in via Fornasio, insieme ai colpi, ai coriandoli e ai petardi. Intorno a carnevale occorreva ad ogni costo avere almeno una pistola, perché, il fatidico giorno della sfilata, bisognava vestirsi da cow-boys e sparare all’impazzata. I colpi per la pistola erano pochi, ed occorreva economizzare per il gran giorno.
Il papà del nostro amico, che era uno coi soldi, gli aveva regalato un piccolo pony, che, nel giorno della sfilata, avrebbe trainato un calesse, con tutti i cow-boys sopra. Il nostro amico Carlo alla guida. Il fatto è che eravamo in tanti ed i posti sul calesse limitati. Era assolutamente necessario entrare nelle grazie di Carlo e rimanervi fino a carnevale. Non so a quale prezzo di umiliazioni e atti servili, ma ce la feci a salire sul carro. Quell’anno la mia mamma mi aveva anche comprato tutto un vestito ad hoc: cappello a falde, gilè e pantaloni con le frange, oltre, naturalmente alla fondina per la pistola. Il tutto dalla cartoleria che vendeva anche giocattoli. Carnevale è in febbraio, quando l’aria è ancora fredda. Così abbigliato, in modo leggero, eccitato e sudato, naturalmente il giorno dopo ero a letto con l’influenza e venne il dottore per tutta la trafila, ostetrica compresa. Ma avevo avuto il mio momento di gloria, a sparare all’impazzata sulla folla dal calesse.
Sempre a proposito di simbologie falliche, c’è da dire che le nostre pistoline, erano spesso inadeguate, anche rispetto a quelle degli altri. C’era sempre chi aveva di più, più lungo o in maggior numero. Ad esempio c’era Sergio che di pistole ne aveva due: due pistole dorate, in due fondine gemelle, come certi eroi dei magnifici sette, che, in determinate occasioni, sparavano a due mani. Ovviamente nei giuochi per strada, quello le pistole le teneva per se, mica te le prestava.
Ebbi un momento di gloria anche io, ma durò poco, un anno che Gesù Bambino, per Natale, mi portò un fucile. È paradossale in tutti i sensi, credere ancora alla bufala di Gesù Bambino in età scolare, e credere che il regalo di un’arma, sia pure giocattolo, fosse in linea con la sua politica verso i bambini, ma devo confessare di averci creduto. Almeno fino a che, Mondo, il solito Mondo, pose in me il tarlo del dubbio. Lui era sempre un passo più avanti di me! Ebbene ebbi il mio fucile a dodici colpi, nel quale si potevano inserire proiettili concavi di gomma morbida, che, esplodendo il colpo, lanciava questo proiettile ad una decina di metri. Un’arma stupenda. Finiti i colpi, ebbi l’idea di usarlo come facevano nei films, quando erano alle strette, senza colpi appunto, come una clava. Si spezzò proprio a metà, colpendo la schiena di Mondo, ed io rimasi come un cretino, con i miei due pezzi di fucile, sperando che il mio babbo l’aggiustasse, visto che lavorava in fonderia ed il fucile era di ghisa. -A l’è ëndame ‘n tera94, dissi poi a mio padre, perché, in questo caso, non era bene spiegare dettagliatamente come era successo davvero. Non me lo aggiustò mai përché la ghisa a ‘s salda nen95, ma conservai per molti anni i pezzi. Dopo che ruppi il mio fucile, lo zio Vittorio, che adesso però dovevo chiamare anche lui Parin, per via del fatto che quando feci la cresima, col Vescovo, l’abito nuovo, i guanti bianchi, il libretto di madreperla, il rosario anch’esso bianco e tutte quelle cose inutili che entusiasmavano molto la mia mamma, stava dietro di me, mi regalò un suo vecchio flobert, che faceva il tonfo quando lo piegavi in due per caricarlo, ma che non sparava nulla perché era “spompato”.
Da allora ho avuto spesso dei sogni nei quali sarebbe stato necessario sparare, con qualche arma, che però si rivelava inadeguata: o faceva cilecca, oppure sparava ma con poca energia, senza fare danni. È strana questa faccenda. In seguito ebbi altre armi, frutto di vari scambi. Un wincester per dei giornaletti ed anche una pistola Cobra, che era la novità americana, simile alle 38 a canna corta, col tamburo che usciva di lato, come quelle dei gangster e dei detective, ma mai più nulla di entusiasmante come il mio fucile che si ruppe a metà.
L’anno seguente, Carlo aveva perso interesse, per il pony, il calesse e forse anche per il carnevale ed aveva progetti strani. Anche lui era sempre un passo più avanti di noi. Il fatto è che non avevamo i mezzi per seguirlo.