Data creazione pagina: 29/07/2013 1:49

- Titolo: Capitolo 3 - Gli spostamenti, le strade i mezzi.


Il trasloco da via Leonardo da Vinci a piazza Alfieri fu un avvenimento importante per me, e probabilmente per questo me lo ricordo bene. Quasi tutte le nostre poche e povere cose, almeno quelle che vi potevano stare, furono caricate sul carretto di Parin, e spostate con questo mezzo spinto a mano da una casa all’altra. Le cose più ingombranti e non smontabili, come l’armadio e il bufet, furono trasportate a mano dagli uomini, tanto si trattava, come ho già detto, di poche centinaia di metri. Ma per alcune di quelle cose credo che per loro fu dura. Il potagé era la cosa più pesante in assoluto, superando certamente il quintale. Seguiva subito dopo per ordine di pesantezza, la lastra di marmo del tavolo di cucina, che non doveva essere appoggiata da nessuna parte se non sul suo naturale supporto di legno -il tavolo stesso- e non poteva assolutamente essere trasportata con il carretto, se no së s-ciapa 1. Il bufet di cucina e l’armadio della camera da letto, in legno massiccio e non smontabili, simbolo della compattezza e robustezza delle cose costruite in quel tempo, furono le cose più difficili da traslocare, soprattutto nei giri delle scale, per il loro peso ed il loro ingombro. Allora non esistevano, o almeno non si usava fra la gente comune di ceto povero servirsene, le ditte specializzate ed attrezzate in traslochi, e il tutto veniva eseguito con l’aiuto di parenti, amici e conoscenti. Ma la gente di passaggio per la strada si faceva in quattro per aiutare le persone viste in difficoltà. Così un trasloco non era mai un fatto strettamente privato, ma un affare sociale: chiunque fosse sul luogo senza altro da fare, dava una mano.
- Fe-ve San Martin Cichin? 2
Io seguivo il nonno tenendomi attaccato ad un lato del carretto e aiutavo a spingere all’occorrenza, per quanto potesse aiutare un bambino di tre anni, ma così mi disse di fare Parin. Non c’erano altri mezzi di trasporto per eseguire il trasloco giacché erano pochissime le auto in circolazione all’epoca. Conseguenza naturale di questo era che le strade erano relativamente più sicure anche per noi bambini.
Giunti a destinazione occorreva trasportare a mano le cose in casa. C’erano delle piccole cose anche per me. Stessa cosa al punto di partenza, la vecchia casa, dove mi venivano affidate cose leggere e non fragili da portare sul carretto. Ma la sistemazione su di esso era esclusiva di Parin, che con studiata calma da uomo di altri tempi, metteva e toglieva fino a che non fosse completamente soddisfatto dell’operazione. Io ero impaziente di compiere il viaggio e, come tutti i giovani di tutti i tempi, provavo fastidio nel saggio indugiare del nonno. Ma occorre arrivare ad una sofferta maturità, forse, per poter tessere l’elogio della lentezza.
Il carretto di Parin consisteva in una struttura metallica a forma rettangolare con bordi, e un fondo di assi di legno, montato su due ruote di bicicletta. Era un oggetto molto comune a quei tempi. Poteva essere tirato o spinto a mano oppure trainato con una bicicletta munita dell’apposito gancio proprio sotto la sella. Serviva a molte cose allora: dai traslochi alla raccolta della legna o altro. Un ricordo molto vivido perché ripetuto spesso, è che lo usavamo per andare col nonno a prendere le cassette della frutta e verdura al negozio di Vincens, nella casa dove abitai piccolissimo. Le cassette della frutta servivano, opportunamente demolite, ad iniziare l’accensione del poutagè. A me piacevano queste avventure in carretto, soprattutto per i viaggi ‘a vuoto’, cioè all’andata o al ritorno, a seconda dei casi, durante i quali io me ne stavo seduto sopra al carretto, tutto tronfio come un principe mentre il nonno mi scarrozzava. Questo era il massimo dei divertimenti per quel tempo e quella mia età, vuoi per le strade di allora che mi sballonzolavano ben bene data la loro conformazione, vuoi per l’avventura in se’, dove mi figuravo di viaggiare con chissà quale calesse o altro mezzo di trasporto scaturito dall’interazione della mia fantasia con le mie conoscenze del mondo che possedevo allora.
Pochissime erano le strade asfaltate nel paese degli anni cinquanta. Esse erano perlopiù acciottolate, salvo lo stradone provinciale dove vi era il porfido in cubetti. Le strade acciottolate consistevano in strade che avevano sassi della dimensione di una mela o più grandi, conficcate nella terra. Nel centro strada vi erano due strisce di lose, lastre di pietra piatta e levigata dall’uso, che erano il passo carraio, per i rari mezzi di trasporto di allora, perlopiù carri agricoli, trainati da cavalli o dai primi trattori. Poche centinaia di metri dopo la casa dei nonni in via Pastrengo, la strada diventava sterrata. Era la fine del paese.
Un ornamento onnipresente di tutte le strade del paese, ma soprattutto della via Pastrengo, luogo di transito obbligato dalle cascine del paese ai campi circostanti, erano le buse, le cacche di mucca, perché allora gli animali andavano ën pastura, al pascolo due volte al giorno. Le mucche avevano sempre la precedenza ed occupavano nel loro passaggio tutta la carreggiata. Erano accompagnate da un uomo o una donna e da un nugolo di cani che, istigati dagli ordini secchi e cadenzati, urlati in una lingua che sembrava straniera del pastore, correvano senza posa avanti ed indietro per tentare di dare un assetto ordinato alla mandria. Ogni mucca aveva un nome e i pastori le chiamavano e colloquiavano con esse con un’intonazione speciale, musicale e severa, riservata a quel dialogo con gli animali. Tanto che pensavo parlassero il linguaggio delle vacche, ma scoprii in seguito che erano frasi nel nostro dialetto, rese misteriose per un bambino che non ne conoscesse il significato, dalla pronuncia non consueta nei normali dialoghi fra esseri umani.
-Daila da lì, Bianchina! 3
-André Italia!4
I pastori stessi contribuivano al mantenimento dell’ordine con vigorose bastonate sulla schiena e sul sedere delle povere bestie, grandi e grosse ma molto timorose dell’uomo e del cane. Per il loro spostamento sembravano conservare tutte le loro evacuazioni, in modo da lasciarle per strada. Non ci faceva schifo l’odore caratteristico, ma stavamo attenti a non calpestarle, soprattutto quando erano “fresche”, perché c’era anche il pericolo di scivolare, oltre ad imbrattarsi le scarpe. Quando erano vecchie e secche diventavano inoffensive. Potevano allora staccarsi dal suolo, e, anche se pestate o prese a calci, non sporcavano. Di consistenza molliccia, appena sganciate si spiaccicavano appiattendosi al suolo. Era sempre un evento da osservare il passaggio di una mandria, anche se non sorprendente, ma qualche cosa da osservare attentamente. Esso veniva preannunciato dal suono delle campane legate al collo degli animali. Queste campane di diverse dimensioni e fogge, avevano un suono inconfondibile, dovuto all’andatura caracollante dei bovini. Esse servivano soprattutto quando le vacche in estate venivano portate all’alpeggio sulle montagne, per non smarrirle, ma venivano lasciate per un certo periodo al loro collo anche durante gli spostamenti in pianura. Si intuiva l’arrivo di una busa, dall’alzarsi della coda dell’animale e dal contrarsi dell’ano. Altre volte gli animali urinavano. Il tutto senza mai smettere di camminare, forse soltanto un lieve rallentamento. Il guaio era trovarsi ai lati della strada al passaggio della mandria. Non che fossero animali pericolosi, anche se a volte ti sfioravano con le loro pance dondolanti, o ti annusavano solo un attimo prima di proseguire continuando a guardarti con i loro grandi occhi buoni. Non ti venivano mai addosso, ma si scansavano quasi con una sorta di pudore a sfiorare gli umani. Ti scansavano all’ultimo momento, così che pareva sempre ti venissero addosso. Il vero pericolo consisteva nel trovarsi in prossimità di una evacuazione: gli spruzzi potevano raggiungere le scarpe, i pantaloni o le gambe, se era estate.
Delle volte una mucca si alzava sulle zampe anteriori muggendo, tentando di salire sulla schiena di un’altra che muggiva a sua volta. Alcuni animali avevano una specie di grembiule proprio sotto la pancia. Interrogando i grandi sul comportamento di queste mucche e sui grembiuli, si ottenevano solo risposte vaghe, il che significava che non era cosa.
Ma non erano soltanto le cacche di mucca a decorare le nostre strade. Anche i cavalli, che trainavano i carri agricoli lasciavano la loro firma. Era però molto diversa da quelle delle mucche. Quest’ultima era costituita da un mucchietto di pallottole più dense, più solide. Si sarebbero potute distinguere anche ad occhi chiusi dall’odore diverso.
In inverno entrambi i tipi erano fumanti appena depositati, per il contrasto tra il calore interno dell’animale e la temperatura esterna.
Le pecore poi, lasciavano dei pallini scuri e tondi, che erano duri. Le capre avevano escrementi ancora diversi, riconoscibili perché più grandi e non tondi come quelli delle pecore.
Date queste premesse, le strade erano polverose con tempo asciutto e fangose, se così si può dire, con la pioggia. Cadere per strada - e ai bambini succedeva allora come oggi- voleva dire quasi immancabilmente sporcarsi di qualche genere di merda.

Quando un bambino faceva qualche cosa di sbagliato, o mostrava fastidio per un ordine ricevuto che interrompeva il corso del gioco, tipo andare a prendere un po’ di legna, subito saltava fuori la storia che mi, a la tua età, ‘n mandavu già ‘n pastura, altroché bale! 5
Come se io avessi avuto colpa di quel che era successo ai miei da piccoli, e non viceversa. Magari mi avessero mandato ën pastura, sai che divertimento !

Mio nonno aveva un altro mezzo di trasporto, molto affascinante per me :una carriola tutta di legno. Aveva la ruota cerchiata di ferro e questo faceva sì che producesse viaggiando, un rumore molto gagliardo, un rumore importante, quello del metallo sul selciato della strada. Ricordo ancora oggi quel rumore. La usavamo per spargere la ghiaia sul cortile, fatto che accadeva abbastanza spesso allora, e per andare a prendere il letame alla cascina di fronte, letame che serviva per concimare l’orto. In occasione del trasporto letame non mi ci faceva salire dopo il primo carico. In compenso però a volte mi faceva fare qualche giro in cortile, tanto la carriola era a portata di mano sotto il balcone del primo piano, dalla parte verso la casa gemella. Quello lo consideravamo una sorta di ripostiglio riservato a noi, visto che sotto quel balcone stava la finestrella della nostra cantina.
In un primo tempo il letame veniva scaricato in una fossa di cemento in fondo all’orto, dove venivano buttati anche tutti i rifiuti della cucina che così fermentavano, producendo concime biologico da usare per l’orto. La fossa aveva un gran tanfo, specie in estate, ed era piena di vermi, anche quelli buoni per l’orto.
Parin aveva una bici che teneva in garage. Quando la usava, si metteva le mollette di metallo per impedire che i pantaloni si sporcassero con il grasso della catena. Sul manubrio aveva un curioso portapacchi con la molla. Poteva contenere al massimo un giornale. Non ricordo di averlo visto spesso andare in bici, forse perché quando nacqui io cominciò a sentirsi troppo vecchio per farlo. Ricordo che ad un certo punto iniziò a camminare con una canna, forse un vezzo per recitare la parte del “vecchio”, forse una necessità.
Mio padre aveva un motorino, un ciclomotore Motom con motore di cinquanta centimetri cubici a quattro tempi. Lo usava per andare al lavoro, a pesca o per andare dai parenti. Veniva a trovarci nei fine settimana quell’anno che andammo con mia mamma e mia cugina Luigina in villeggiatura a Meana. Esso produceva un rumore particolare, sferragliante di valvole e punterie, un rumore caratteristico che si distingueva da quello della moto del più giovane dei fratelli Daviso nostri vicini, o da quello della lambretta di zio Ernesto. Quando mio padre entrava nell’androne del portone di piazza Alfieri o imboccava la via Pastrengo, se ero a casa dei nonni, subito mi rendevo conto che stava arrivando, data la peculiare particolarità di quel rumore. Non un potente rombo di moto come la Gilera di Giuseppe Bergese, che smontava e rimontava praticamente sempre sul marciapiede del cortile, o di quella di Mario Daviso, data la piccola cilindrata, ma un rumore davvero caratteristico, da motore a quattro tempi, diverso anche da quello dei motorini di pari cilindrata ma a due tempi. Un timbro di voce gagliardo, distinguibile come le voci umane.
Nel 1957 o giù di lì, mentre andavamo in montagna a Meana, feci una invenzione che avrebbe reso ricco me e tutta quanta la famiglia. Peccato che un bambino di tre anni non venisse preso in considerazione e così, adesso le royalty se le becca qualcun altro. Per andare a Meana, dato che gli unici mezzi di trasporto che avessimo erano il Motom di mio padre e la bicicletta di mia mamma, mio papà chiamò Tosco ‘l muliné6, il quale possedeva un autocarro telato, sul quale caricammo pipigas, un tavolo e qualche sedia, il bacile per lavarci, il mio pitale ed altri ammennicoli per dormire, come reti, materassi e cuscini. Facendo due più due, ebbi l’illuminazione e dissi ai miei, visto che la casa dove vivevamo non era nostra, che se avessimo comprato un camion, avremmo potuto caricarci le nostre cose e vivere dove ci pareva, un po’ qui, un po’ là, senza stufarci mai, sempre in villeggiatura. Mi zittirono con già, vivoma parej dij singher!7 Ed altri dopo di me crearono i camper che girano ora per tutto il mondo.
Quell’anno venne in montagna con noi anche la mia cugina Luigina, ed ero molto felice per questo. Ma un giorno mi fece arrabbiare, così le ruppi una delle mie zappe di legno sulla schiena. La mia mamma, invece di consolare me per la perdita della zappa, prese le parti a Luigina, sgridando me. Gli adulti erano spesso imprevedibili. Per tutta la settimana mi minacciò di dirlo al mio papà, quando fosse arrivato al sabato con il motorino.
Un giorno la mia mamma volle andare alla stazione per vedere gli orari dei treni per il ritorno a casa. Le masserizie le avrebbero portate papà e ël moliné, con il camioncino. Chissà poi perché non si poteva tornare tutti come eravamo venuti, che era più divertente. Quando arrivammo nei pressi della stazione, occorreva attraversare i binari per andare ad informarci sugli orari. Mia madre mi trascinò quasi di peso sull’impiantito di legno, quando sentimmo un fischio fortissimo proveniente dalla galleria buia, proprio a valle della stazione. Eravamo appena approdati dall’altra parte che passò il treno. Io non ebbi il tempo di spaventarmi per questa faccenda che stavamo per essere investiti dal treno, che c’era proprio mancato un pelo, anche perché successe tutto così in fretta che non me ne resi conto. Ma quell’uomo in divisa, col cappello rosso, il capostazione, sgridò mia madre per il rischio che aveva corso, con na masnà cita8, e mi resi conto della relatività e della gerarchia. Fino ad allora avevo sentito soltanto adulti sgridare i bambini. Forse c’era un poco di giustizia. La mia mamma poi raccontò a tutti lo spavento che si era presa, ed il pericolo che avevamo corso.

Nei fine settimana, al sabato oppure la domenica, talvolta entrambi i giorni, andavamo in fondo al viale, sullo stradone di porfido, a prendere la corriera per recarci al paese di mia mamma. Lì c’erano anche le rotaie a destra e vi passava il trenino per Giaveno. Il trenino non era proprio un treno vero, come quelli che avrei preso più grande per andare al mare con parin Tonino e magna Rita, ma non era nemmeno piccolo come il tranvaj che si prendeva in città, dopo la solita corriera, per andare a trovare gli zii testé nominati. Era formato da una motrice e tre o quattro vagoni trainati, che dentro erano con i sedili come la corriera ma di legno, ma molto più figo perché faceva il rumore sferragliante proprio come i treni veri, con il ta-tan ta-tan, delle ruote sulle giunte delle rotaie. Ho viaggiato pochissime volte sul trenino per conservarne un vivido ricordo, ma so che era meglio, una avventura più bella della corriera.
A proposito dël tranvai, si raccontava la storia del campagnolo ingenuo che, arrivato in città e avendo visto i tram, si era inginocchiato accanto ad un tram fermo, per tentare di vedere se vi fossero nascosti sotto dei cavalli, unico mezzo di trazione da lui conosciuto. Forse da questa storia, il detto andé a cheuje le buse daré dël tranvai, che significherebbe fare cose senza alcuna speranza di riuscita –probabilmente ciò che sto facendo io in questo momento.
Non era facile prendere la corriera giusta, perché non tutte andavano o facevano fermate dove si voleva scendere. Bisognava prendere per Cumiana o Pinerolo, che non fossero “diretti”. A volte si prendeva una corriera che ci portava fino ad Orbassano, poi si scendeva lì alla stazione delle corriere e se ne prendeva un’altra che finalmente ci portava a destinazione. Andavamo tutti in ghingheri -in ghingheri per me significava lavato di fresco, con la banana9 in testa appena rifatta ed i vestiti della festa- alla fermata sullo stradone con ore di anticipo rispetto al passaggio previsto, se no perdo-ma ël pullman10. Così l’attesa era snervante e vedevo passare altre corriere, altri trenini, che non facevano al caso nostro, perché andavano da altre parti. Ogni volta che ne spuntava una all’orizzonte subito domandavo se fosse il nostro, ma occorreva attendere che fossero abbastanza vicine affinché i miei potessero leggere la scritta posta in alto sul davanti.
-No, a l’è diret.11
-No, a ‘s fërma a Orbasan.12
Infine finalmente: -Sì, a l’è al nost.13
Le corriere della Satti -anche il trenino era della stessa società che gestiva i trasporti intercomunali- erano blu ed azzurre, dalla forma arrotondata come quelle che si vedono ancora oggi nei filmati sul terzo mondo, in Africa o in sud America. E’ curioso che le cose da noi dismesse quarant’anni fa siano rispuntate nei paesi poveri. Talvolta la corriera era composta di motrice e rimorchio. In quel caso insistevo sempre affinché ci sedessimo sul rimorchio, nella prima fila di sedili, dove c’era una grossa ruota con su scritto “Freno: non toccare”. Lì mi immaginavo di guidare io stesso il rimorchio, anche se non potevo toccare la ruota che per me era la guida del veicolo, ma la finzione era molto ben fatta visto che mi sedevo al posto corrispondente a quello del guidatore. Altre volte il rimorchio non c’era o era occupato ed il mio posto preferito era davanti, dove potevo guardare l’autista.
Me ne stavo col naso incollato al finestrino, quando c’era posto a sedere, cercando di capire lungo il percorso, di vedere per strada qualche segno, qualche confine che indicasse che finiva un paese e ne cominciava un altro. Questo per me era un grande mistero e continuavo a domandare: -Mama, ’ndova i soma?14
Era per me un grande problema che per lungo tempo non riuscii a risolvere da solo e quella mia domanda era inefficace, perché non era ben posta. Per me un paese, una città erano posti abitati, con delle case. Ma allora i paesi erano piccoli e fra l’uno e l’altro c’erano spazi per me immensi di campagna, senza case, o con rare cascine e questo costituiva per me un grosso problema. Dove diavolo eravamo quando ci trovavamo nello spazio di mezzo senza case? Ma gli adulti rispondevano sempre alla mia domanda su dove ci trovassimo.
-I soma a la giassera.15
Questo posto me lo ricordo bene perché, oltre ad avere un riferimento visivo chiaro - un monticello di terra in mezzo ad un campo, con una porta di legno - aveva una inquietante connotazione emotiva. Lì dentro l’antica ghiacciaia -un buco nel terreno in cui si raccoglieva la neve dell’inverno per conservare alimenti al fresco nei tempi in cui i frigoriferi non erano molto diffusi- una bambina di tredici anni aveva terminato la sua breve vita. Gli adulti ne avevano parlato molto. Parlavano di un tale che aveva abitato vicino a noi, un giovane dell’età dei miei genitori, che aveva violentato e ucciso la bambina ed era stato poi arrestato dai Carabinieri, ël mostro ëd Orbasan16, appunto. La nostra vicina del piano di sopra, Nin Daviso, era venuta più spesso in quei giorni a parlare con mia madre mentre stirava, e si era fermata più a lungo. Io a cercare di capire, fingendo di giocare e non ascoltare, cosa fosse successo e perché. Allora non capivo molto di violenza e di morte, ma capii che occorreva essere sospettosi e diffidenti verso gli adulti. Quella povera bambina si era fidata a seguire nella campagna una persona adulta, probabilmente conosciuta o familiare, con quel che ne era poi seguito. Il mondo non era un luogo sicuro per i bambini. Il cadavere orrendamente massacrato, con la testa spaccata da un sasso che si era accanito su di lei un po’ troppo, tanto da farne uscire il cervello, era stato trovato lì dentro l’antica ghiacciaia in mezzo alla campagna, visibile come un monito a chi, come noi viaggiasse sulla statale. Non capivo cosa volesse dire ‘violentata’, ma la descrizione della morte violenta bastava a fare in modo che quel luogo mettesse i brividi. Nonostante ciò, era inevitabile, passando, posare lo sguardo su quel luogo isolato e lugubre.
-Soma si, soma là, soma a l’Indesit.17 I grandi sembravano sapere sempre dove si fosse ed io cercavo fuori dal finestrino i segni che indicassero anche a me il luogo, ma non riuscivo a venirne a capo. Poi tentavo di chiedere allora -E dopo?18. Anche questa domanda riceveva sempre una risposta, ma non mi aiutava. Ciò che più mi inquietava era che tra due posti ci doveva essere secondo me una linea di demarcazione, di confine, e per lungo tempo ho cercato queste linee sulla strada. Non era facile nemmeno questa operazione, perché se ci si trova su un mezzo che procede abbastanza velocemente e si fissa l’attenzione alla strada sottostante, essa sfugge via velocemente e la visione è sfocata, non è agevole distinguere una linea di confine che potrebbe essere poco marcata, sbiadita dal tempo.
Quando non c’era posto a sedere perché la corriera era troppo affollata, data la mia piccola statura, non avevo modo di vedere la strada. L’unica era sperare di poter osservare l’autista, che guidava la corriera con quell’enorme volante disposto orizzontalmente. L’autista era oggetto di grande ammirazione, per la sua capacità di dominare un mezzo così grande, ma non ci si poteva parlare perché c’era scritto sui cartelli di non parlare al conducente. Poi veniva il bigliettaio, con la sua grande borsa di cuoio a tanti scomparti appesa al collo, piena di monetine e di mazzette di biglietti di tutti i colori. Sfogliava i biglietti con un dito ricoperto da un ditale di gomma poi li strappava, li forava in determinate caselle con la sua pinzetta che lasciava un buco a forma rotonda, quadrata, di stella o di mezzaluna, poi li consegnava ai miei che pagavano. Ma prima bisognava dirgli dove volevamo andare. Quando non aveva il ditale di gomma, per sfogliare le mazzette di biglietti si leccava prima un dito. Erano simpatici e cordiali questi bigliettai che sapevano tutti gli orari e le coincidenze, in caso si dovesse cambiare mezzo. Essi si reggevano in piedi senza tenersi ai sostegni ai quali ci aggrappavamo noi, con perizia e maestria da marinai, nonostante gli sbalzi, le frenate, le curve e le accelerazioni della corriera. Talvolta dopo il bigliettaio veniva il controllore, a vedere che tutti avessero il biglietto, il quale faceva ancora un altro buco con la sua pinzetta. Autista, bigliettaio e controllore avevano tutti una divisa blu, con berretto a visiera, come gli ufficiali dell’aviazione, ma con scritto sopra Satti. Autista e bigliettaio erano a volte un pochino trasandati, con giacca e cravatta slacciata. Il controllore era invece composto a puntino, come un ufficiale. Questo denotava la sua carica più elevata, la sua maggiore autorità. Si vedeva che gli altri due lo temevano un po’. Ma per me il più in gamba di tutti rimaneva l’autista, e il più simpatico il bigliettaio, che si rivolgeva anche a me, scherzava con me. A lungo andare si conoscevano quelli più simpatici e quelli più musoni, che facevano il loro lavoro con esagerata serietà. Che problemi potevano mai avere loro che erano sempre in viaggio ? Mi chiedevo spesso da che parte del percorso avessero la casa questi lavoratori itineranti, e come facessero a raggiungerla, visto che non avrebbero potuto scendere dalla corriera abbandonando il lavoro a metà. Il più simpatico fra i bigliettai era Rossino, alto, biondo, con occhiali scuri, amava scherzare, soprattutto con mia madre. L’ho incontrato e riconosciuto alcuni anni fa, ormai ottantenne, ad un pranzo in casa di amici. Non l’ho riconosciuto subito, ma quando mi disse il suo mestiere alla Satti, allora è stato chiaro, come un tuffo nel passato.
Andare in città era un’avventura più rara. Si andava da parin Tonino, ma non così spesso come dalla nonna materna. Si andava per fare delle visite in ospedale o dai dottori. Si andava per comperare cose che non si trovavano nei nostri paesi. Una volta siamo andati al cine, a vedere Il diavolo alle quattro. Un’altra volta siamo andati in un posto che sapeva mio padre, a mangiare le lumasse a la parigina, proprio sotto la Mole.
La città era un altro mondo. Non era come i nostri paesi che erano composti di poche case e, in pochi minuti a piedi, li si poteva attraversare da una parte all’altra. C’erano tante case e palazzi che non finivano mai, pur viaggiandovi con il pullman, il filobus o il tram. Tram e filobus erano affascinanti poiché avevano in cima una lunga asta che toccava dei fili posti in alto sulla strada fra le case, e producevano enormi scintille bluastre viaggiando. A salirci sopra bisognava fare molta attenzione perché quando si fermavano, si aprivano le porte da sole e saltavano fuori degli scalini che prima erano ripiegati. Gli scalini, come del resto quelli delle corriere, erano molto alti ed era molto difficoltoso per un bambino arrampicarsi lassù. Di sicuro il mondo non era stato progettato per i bambini. Una volta saliti occorreva togliersi subito di lì in mezzo alla porta perché le porte si chiudevano da sole, così come si erano aperte ed era molto pericoloso. Inoltre tram e filobus che erano elettrici avevano una accelerazione bestiale. Occorreva tenersi saldamente ai sostegni delle rare seggiole in legno. Difficilmente si trovava posto a sedere sui tram, perché in città c’era anche tanta gente che andava e veniva.
I tram producevano un tenue rumore di campanellino, al posto del clacson delle corriere nostre extra urbane. Il giudatore del tram veniva chiamato manovratore, e nemmeno a lui si poteva parlare. Il manovratore non aveva un volante, ma una leva disposta orizzontalmente davanti a lui che ruotava in continuazione. Nemmeno ad osservarlo attentamente, cosa peraltro difficile visto che avevo il mio gran da fare a rimanere in piedi nonostante le bizze delle partenze e fermate improvvise, riuscivo a capire come facesse a condurre il tram dove voleva. Sì d’accordo c’erano le rotaie per questo, ma c’erano anche tanti scambi. Questo mistero sarebbe rimasto per sempre insoluto. Lo è tutt’ora.
In città gli adulti non mollavano mai la mia mano: era tutto molto più pericoloso che al paese. C’erano più auto e altri veicoli, tram, filobus e corriere. C’erano persino, a Porta Neuva, dei calessi trainati da cavalli, per portare le persone. I cavalli di questi calessi sono gli unici grandi animali che vidi in città. Non c’erano le mucche. Solo qualche cane tenuto al guinzaglio per chissà quale utilità, vista la totale assenza delle mucche e delle pecore o capre, e qualche gatto. C’erano i marciapé19, che al paese non esistevano e i portici, dove andavano soltanto i pedoni. Gli uni e gli altri erano lastricati e la mia unica preoccupazione, visto che non dovevo schivare le buse, ma solo qualche rara cacca di cane, era evitare di pestare le linee di giunzione fra una lastra e l’altra. Non era una impresa facile visto che mi tenevano per mano e imponevano gli adulti il ritmo della camminata. A volte stavo per evitare una riga con un falso passo, e mi strattonavano dicendo cosa ‘t fas20, e così finivo per pestarla, cosa che mi faceva una rabbia, con tutta l’attenzione che ci mettevo! Per attraversare le strade c’erano le strisce pedonali, con o senza semaforo, talvolta con il vigile con il casco coloniale bianco. Bisognava sempre fare attenzione in città ad attraversare, che non ci fossero auto, che il semaforo fosse verde o che il vigile indicasse, con bastone e fischietto, che potevamo passare. In ogni caso si passava di corsa. Anche sulle strisce pedonali credevo fosse bene calpestare soltanto la parte bianca, ma neanche qui il gioco mi riusciva sempre bene, per gli stessi motivi.
Si andava sempre velocemente in città perché il posto dove dovevamo andare era sempre lontano ed era sempre tardi.

Ad un certo punto tutti parvero presi dalla passione per le automobili. Papà, lo zio Ernesto e lo zio Anselmo andarono a scuola guida a Orbasan, e presero la patente di guida. Poi tutti quanti ebbero delle Fiat seicento usate. Anche parin Tonino. Tutti con la seicento. In realtà, nel caso di zio Anselmo e parin Tonino si trattava di una settecentocinquanta, ma l’aspetto esteriore era identico. Cambiava solo la scritta posteriore e il motore. Quella di papà era bianca, quella dello zio Ernesto color caffelatte. Sì, la nostra era solo una semplice seicento, ma aveva pure le trombe, vale a dire un cerchio cromato al centro del volante, un extra rispetto al comune clacson, che gracchiava più forte. Grigia quella dello zio Anselmo e verde chiaro quella di parin Tonino.
Con le seicento si allargarono i nostri orizzonti. Andammo in posti nei quali non eravamo mai stati. Il primo viaggio con la seicento di mio padre, un poco mi inorgoglì: mica tutti avevano l’auto a quei tempi. Scoprii presto che non era poi un segno distintivo così valido, l’auto. C’era chi, pur non avendo nemmeno un’automobile, possedeva case e terreni, al contrario di noi, che soltanto un’auto usata possedevamo.
Mio padre, almeno all’inizio, non era poi un autista provetto e ci ballonzolava ben bene, tra partenze, cambi marce, curve e frenate. Ma a sentire lui, pareva che avesse lui stesso inventato l’auto, la patente, il modo giusto di guidare ed il codice della strada. Lo zio Alfonso sì che guidava bene, perché aveva fatto l’autista. Lui aveva fatto praticamente di tutto e non c’era cosa che non spesse fare. Andammo a trovare parenti lontani, ma, soprattutto, nella bella stagione, sempre a fare dei pic-nick nei prati sulle nostre colline. Si partiva al mattino presto con vivande e bottiglioni di vino, che poi immergevamo nei torrenti di montagna, pareij a sta fresc21, e si saliva verso le montagne. Di bottiglioni ne avevamo parecchi, anche pieni d’acqua perché, immancabilmente, ad un certo punto della salita, alla seicento bolliva l’acqua del radiatore. Mio padre era sempre il primo della fila, perché nelle curve bisognava strombazzare e nessun altro poteva farlo meglio di lui. Spesso risalivamo la valle del Sangone fino a Forno di Coazze. Si cercava un luogo adeguato, pianeggiante, ombreggiato e soleggiato, poi si stendevano delle coperte e si tiravano fuori cibi portati un po’ da tutti. Tra chiacchiere e passeggiate, dormite sulle coperte sul prato si mangiava e beveva praticamente fino a sera. Alla fine del pasto saltava fuori il caffè tenuto caldo nel termos, già zuccherato fino alla nausea. Si andava a funghi e si giocava a carte sulle coperte. Spesso si giocava tutti a bocce su qualche stradina sterrata.
Col passare del tempo comparvero i primi tavolini pieghevoli, con le sedie all’interno, anch’esse pieghevoli. A volte mio padre si portava le canne per pescare le trote che abbondavano nell’alto corso del torrente. Una volta, nel tentativo di seguirlo da vicino, saltando dopo di lui, da un masso all’altro, mi scontrai con la sua canna, finendo a mollo nella pozza sottostante. Mi cambiarono dalla testa ai piedi con abiti di ricambio un po’ di tutti, non so con quale risultato visivo, ma fui all’asciutto. Di trote nemmeno l’ombra, ma fu perché avevo io disturbato la quiete del torrente.
Poi lo zio Ernesto cominciò ad affittare una camera per il mese di agosto e noi andavamo a trovarlo. Una volta che lo zio Ernesto partì con la Vespa, feci il diavolo a quattro per viaggiare anche io con lui, in piedi sul pianale, come mi aveva già portato per il paese. Ma non ci fu nulla da fare, con tute le curve, a l’è trop pericolus22. -Ma mi ëm ten-o23. Andai in auto. Negli anni seguenti anche noi villeggiammo in questo modo, affittando anche noi una camera, nella quale si faceva tutto. Voglio dire mangiare e dormire, lavarsi nel catino sul treppiede. Al gabinetto si andava tutti sul balcone. A volte ci si lavava alla fontana nel cortile, che era costantemente aperta e gettava acqua a temperature prossime allo zero. Così passai un’altra estate con la mia cugina Luigina, che si stava facendo grande e tentò di insegnarmi a ballare i walzer, con scarso risultato. Per la danza ero proprio negato. Luigina e la sua amica di Moncalieri, anche lei villeggiante nel caseggiato, spesso bisbigliavano fitto fitto, e non volevano farmi partecipe. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo alla mia cugina, ma ultimamente era proprio cambiata. Anche fisicamente. La domenica le due ragazze, con la scusa del gelato per me, volevano andare alla locanda che c’era in paese, dove era apparso da poco il juke-box. Poi parlottavano con degli sconosciuti, ma io non dovevo dire niente agli adulti di tutta questa faccenda. Dovevo giurare e rigiurare, altrimenti non mi avrebbero più portato a prendere il gelato. Non ne capivo la ragione di tutta questa segretezza, ma facendo i miei calcoli, mi conveniva assecondare Luigina e la sua amica. Io avrei preferito fermarmi a guardare la tampa dël Magnin24, nella quale c’erano delle trote di allevamento, piuttosto che annoiarmi lì. Si sarebbe potuto benissimo prendere il gelato ed andarsene, ma le femmine sono strane.
A volte andavamo nella stalla dei padroni di casa a prendere il latte. C’era calore ed odore di mucca. Ma, al di fuori delle vacanze, continuavamo le nostre escursioni domenicali di coperte e tavolini sul prato. Intanto questo nostro campeggiare era diventato una moda molto diffusa e l’alta val Sangone non era più un luogo tanto ameno e sempre più popoloso. Qualche turista dimenticava di portarsi a casa i rifiuti e le montagne cominciarono ad assomigliare sempre più a delle pattumiere a cielo aperto.

Con l’automobile non terminò del tutto la stagione delle corriere, perché in città si andava sempre con quelle.
Ma il mio viaggio più lungo fu quello fino in riviera ligure, per le vacanze al mare con parin Tonino.
Al mare con Parin Tonino. Si partiva che era ancora buio e lo sarebbe stato ancora per lungo tempo. Ma non mi pesava alzarmi: tanta era l’eccitazione del viaggio e della vacanza che non avevo dormito affatto. Mi alzavo non appena mio padre si avvicinava al letto per chiamarmi. La sveglia era sempre compito di mio padre, che era sempre il primo ad alzarsi al mattino, sia che si trattasse di andare a lavorare, sia che fosse festa, che si andasse a pesca o in qualsiasi occasione. Va detto che il mio papà non aveva molto tatto per chi, diversamente da lui, stava ancora dormendo e avrebbe dovuto essere svegliato. Erano risvegli bruschi, netti passaggi dal sonno alla veglia. Papà ti parlava come se fossi stato sveglio da ore e fossi perfettamente in grado di capirlo al volo. Non considerava affatto che, tra il sonno e la veglia esiste una fase di transizione, durante la quale, la persona svegliata sta cercando di capire perché è terminato quel sogno appagante, chi è e che cosa fa al mondo, chi è che lo sta coinvolgendo in fatti da persone sveglie che necessitano di una comprensione vigile.
Non ero colto di sorpresa la mattina della partenza per il mare, giacché ero sveglio da ore, forse non avevo dormito affatto. Colazione, in bagno, tutti i riti quotidiani venivano compiuti comunque, qualsiasi ora fosse. Poi, a piedi, con le valigie, fino alla fermata della corriera. Ne passava una semivuota, dopo mezzora di attesa, dato, per non arrivare tardi arrivavamo con ore di anticipo. C’erano solo assonnati lavoratori a quell’ora della notte, viaggiatori come me, che andavano a Porta Nuova per prendere qualche treno, con chissà quale destinazione. L’appuntamento con Parin Tonino e magna Rita, che abitavano a Torino, era sempre un’ora prima della partenza del treno përché venta pié i post ën sël treno25. Così, a volte, arrivavamo ancora prima che il treno fosse pronto sul binario. Tra le raccomandazioni dell’ultimo minuto, che erano una ripetizione all’infinito delle raccomandazioni delle ultime settimane, mentre i grandi prendevano un caffè dal termos di magna Rita, riuscivo a farmi comprare un Corriere dei Piccoli, per non annoiarmi durante il viaggio, con le avventure del Signor Bonaventura, che vinceva sempre un premio da un milione.
-Ëm racomando, scota l’on ca ‘t diso.
-Fa nen ënrabbié Parin e magna Rita.
-Fa atension ën t l’eva.
-Mangia l’on ca ij’é.26
Eccetera, eccetera, avanti così per più di un’ora, fino a che la voce nell’altoparlante non annunciava la partenza del treno ed i miei scendevano, finalmente, per poi riprendere dalla pensilina, con tutti noi affacciati al finestrino dello scompartimento. Io ero tranquillo con zia Rita e parin Tonino, in quanto essi, senza figli loro, erano più buoni con me che dei genitori veri. Mi sentivo in buone mani, anche se poi, all’occorrenza, parin Tonino, più ridendo e scherzando, ma mimando una voce seriosa, sapeva farsi ubbidire. Era buono, ma non lo si poteva infinocchiare, insomma. La zia Rita era meglio di una mamma. Ma anche lei aveva le sue fisime. Va detto, innanzi tutto, che se ero lì con loro, c’era un motivo serio. La zia Rita riteneva che ero troppo gracilino, inappetente, così andavo al mare per farmi venire appetito, mangiare di più, per non ammalarmi più così spesso come mi accadeva.
In effetti, dopo le vacanze mi ammalavo di meno, ma non è detto che ciò fosse dovuto alla dieta macrobiotica, come si dice oggi, della zia. Probabilmente era dovuto al clima mite della riviera ligure di ponente, ed alla grande quantità di acqua di mare, introdotta per varie vie –naso, bocca-, mentre cercavo di imparare a nuotare infilato in una ciambella salvagente con la testa di oca, che mi faceva fuoriuscire una spropositata quantità di muco, proprio come le lumache che mettevamo in un secchio con sale grosso e aceto, per spurgarle. Così liberato dal muco ero, molto probabilmente, meno incline ad ammalarmi, almeno nei primi mesi autunnali. In primavera però, tutto ricominciava daccapo.
Un’altra fissazione di magna Rita, era che, cambiando clima, si dovesse prendere un purgante. Questa faccenda della purga, con conseguente diarrea, il primo giorno di mare e poi, il giorno del ritorno a casa dopo le vacanze, la consideravo uno scotto da pagare al quale mi sottomettevo per quelle fantastiche vacanze.
Il viaggio era allucinante. Ore e ore in un treno che, da Savona in poi, si fermava a tutte le stazioni. Giunti in vista del mare finalmente, eravamo forse a metà del viaggio, perché, per compiere quei cinquanta chilometri che ci separavano da San Bartolomeo del Cervo, località prescelta, avremmo impiegato più tempo che non da Torino a Savona. Ma non mi annoiavo. Intanto era il più lungo viaggio mai intrapreso nella mia giovane vita. Il treno poi, era molto più emozionante che la corriera, con quello sferragliante ritmo delle ruote sulle giunture dei binari, paesaggi mai visti, gallerie, stazioni ed odori di ferodo, che solo sul treno si sentivano così forti. Giunti in vista del mare poi, quando il treno si fermava in qualche stazione, era concesso aprire il finestrino. Odori nuovi e misteriosi, di fiori e piante mai viste, oleandri, agrumi, bouganville, gelsomini, palme dei datteri. Si era fatta tarda mattinata quando il treno percorreva la riviera e si percepivano già profumi di cibo, di fritto di pesce, che induceva un certo appetito, anche se avevamo già, nel frattempo, fatto un’altra colazione, tirando giù il tavolino che stava ripiegato sotto il finestrino. Pur essendo partiti col primo treno del mattino giungevamo sul posto che era quasi mezzogiorno. Dopo tanta attesa, non si andò subito al mare, ma dalla signora Arimondo, che ci dava la chiave delle due stanze che gli zii avevano affittato per tutto il mese. Parin Tonino si caricò il grosso delle valigie, compresa quella mia, mentre io portavo soltanto piccole cose leggere. C’era anche Linuccia, una nipote della zia Rita, più o meno della mia età. Giunti nella casa, vicino al Santuario della Rovere, una zona un po’ in alto, fra gli ulivi, lontano dal mare circa cinquecento metri o forse più, ci cambiammo d’abito e uscimmo con parin per fare acquisti, mentre la zia si metteva a lavare tutto quanto il pentolame e le stoviglie, disfare le valigie e preparare pranzo. Parin mi comperò degli zoccoli con suola di legno, perché li, al mare, si viaggiava tutti con quelle. La mia impazienza di vedere la meraviglia del mare, la prima volta, da vicino, dovette attendere anche il sonnellino dopo mangiato degli adulti, perché in spiaggia, al pomeriggio a ‘s va nen fin-a dopo quatr ore27. Figurarsi se dormivo con quella bramosia in corpo.
Poi, finalmente giunse l’ora. Si scendeva per strette stradine che miravano dritte al mare, attraversando la ferrovia ad un passaggio a livello.
Ed ecco là, la grande acqua, proprio come mi avevano detto, più del Sangone, più grande del lago grande di Avigliana, una distesa d’acqua, meraviglia delle meraviglie, a perdita d’occhio. Il mistero dell’immensità, di questa stessa acqua che bagna le sponde di tutte le terre conosciute. Poco lontano dalla spiaggia di sabbia, alla quale si accedeva scendendo alcuni scalini, un lunghissimo molo di pietre, a protezione dei bagnanti dalle onde del mare.
Ancora attesa per fare il primo bagno, che durò pochissimi minuti, troppo pochi per l’aspettativa di mesi. Devono essere passate quattro ore per la digestione. Ma se si mangiava ad ogni piè sospinto, non sarebbe mai stata ora di fare il bagno! Dopo il bagno merenda. La zia Rita si vantava di non darci porcherie: solo frutta. In effetti era una dieta sana, ed erano dolci e succose quelle pesche mature, che mangiavamo con la buccia perché la zia le aveva lavate bene. Stuzzicato dall’onnipresente odore di fritto di pesce, a volte domandavo quegli anelli bianchi dei calamari, che avevo mangiato una volta e trovavo deliziosi. Parin Tonino diceva che a pranzo avremmo mangiato bale-na neira28. Mangiammo spesso bale-na neira in quelle vacanze, perché la zia conosceva i trucchi dell’alimentazione degli atleti, ed il fegato sarebbe un ottimo alimento estremamente energetico. Noi, anche se non eravamo atleti, di calorie ne bruciavamo, tra bagni, giochi in spiaggia, corse e passeggiate. Peccato che, diventati adulti, ci sia rimasta l’abitudine ad eccedere a tavola.
Al mattino la zia ci sbatteva un rosso d’uovo con lo zucchero, e poi vi versava sopra il caffelatte caldo, creando così una schiuma dal sapore ineguagliabile.
Erano giornate magnifiche, diverse, al mare. Giochi nuovi, amici nuovi di spiaggia, passeggiate. In spiaggia si praticava una specie di gioco delle bocce, con dei piattelli colorati di plastica. Poi c’erano le fantasiose piste di ponti e tunnel scavate nella sabbia, da percorrere con delle biglie di plastica leggere, mai viste dalle nostre parti. Castelli di sabbia fantastici. Tentai di esportare questi giochi poi, nel cortile di via Pastrengo, ma non riscossero un grande successo. I grandi facevano dei cruciverba sotto l’ombrellone. Per noi si trattava di far passare il tempo che mancava all’ora del bagno. Per gli adulti un passatempo rilassate, che non ricordasse loro il loro lavoro. Già, gli adulti con la voglia di lavorare, in vacanza, in ferie, non volevano pensarci, come se non avessero dovuto ritornare mai più a quell’altra vita. Non essendoci televisori, si usciva anche la sera dopo cena. Anche perché, avendo dormito al pomeriggio, gli adulti erano meno stanchi. Noi facevamo soltanto finta: era assolutamente innaturale questa abitudine di dormire dopo pranzo. A volte si passeggiava in riva al mare, sempre con un maglioncino, perché c’era sempre un poco di vento. Io, piccolo e mingherlino, sentivo subito freddo. Anche perché in quel periodo avevo spesso mal di denti, tanto che dovettero portarmi da un dentista ad Imperia per una estrazione. Non appena sentivo un poco di freddo cercavo di infilare la testolina sotto le braccia calde della zia Rita. Sota l’ala29, come diceva la zia. Come mi vedeva fare questo, Linuccia gelosa, subito si infilava sotto l’altra ala della zia. Si proseguiva fino in fondo alla passeggiata, alla torre saracena, dove terminavano le case e iniziavano i campi. A volte si andava in collina, fra gli ulivi. Qualche volta fino in cima a Cervo, per scale e stradine strette, fin sul piazzale in alto della chiesa, dove si potevano ammirare le lampare delle barche dei pescatori in mare. Correvamo su e giù per quelle scale mentre gli adulti salivano piano, ansimando.
Una sera andammo al cinema all’aperto a vedere I magnifici sette. Una cosa mai vista un cinema all’aperto, dove ci si doveva portare la sedia da casa. Tornati a casa si crollava dalla stanchezza e dal sonno, prima ancora che fossero spente le luci. Al mattino ci si alzava presto e si andava con parin Tonino a respirare l’odio sugli scogli, che faceva bene alle tonsille. Il mare era quasi sempre calmo al mattino presto. Aveva un odore buono, di pesce e di sale, leggero leggero. Se c’era qualcuno in acqua a quell’ora, mio zio diceva che erano tedeschi. Soltanto loro eran così matti da bagnarsi a quell’ora del mattino. Si bagnavano anche di sera, quando era già buio. A noi toccavano soltanto i nostri dieci minuti, fra le dieci e trenta e le dieci e quaranta, e tra le sedici e trenta e le sedici e quaranta, ma ci contentavamo. Anzi, venivamo al mare solo per quei venti minuti di bagno. Forse anche per la magia di tutto il resto. Una mattina vedemmo un polipo sotto il pelo dell’acqua. Poi qualcuno si tuffò a prenderlo con le mani. Molti camminavano sugli scogli con una fiocina, per acchiappare eventuali polipi. Ne volli una anche io, ma era un attrezzo troppo pericoloso. Non era ancora il mio tempo.
Un fine settimana vennero a trovarci dei nipoti grandi di zia Rita. Erano pallidi, ma non si vollero spalmare la crema protettiva come facevamo noi, che peraltro eravamo, nel frattempo, diventati molto scuri, perché essi erano uomini duri. Dopo pochissimo tempo erano rossi come peperoni, pur restando sotto l’ombrellone, ed io mi divertivo un mondo a dare loro delle pacche sulle cosce.
Un altro fine settimana arrivarono mio papà e la mia mamma, accompagnati dal papà di Enzo Ribotti, che possedeva un’auto e veniva a trovare moglie e figli in un paese vicino. La mamma aveva avuto paura sull’Aurelia, con tutte quelle curve ed i precipizi sul mare. La mamma mi comprò poi un gelato, dopo pranzo, prima di andarsene piangendo perché mi lasciava ancora lì. Io, che stavo da dio, al mare con gli zii, non capivo affatto la sua tristezza. Fu l’unico gelato di tutte le vacanze perché zia Rita era per le cose sane. Mio padre si era portato la canna da pesca e prese delle piccole salpe e dei saraghi dagli scogli, che mangiammo a cena.
Il brutto era il ritorno dalle vacanze. Significava la fine del divertimento, di un tipo di vita che non si poteva riprendere a casa, dove tutto si svolgeva in modo diverso, i ritmi erano scanditi da altre esigenze. Ma significava rivedere i nonni e tutti gli amici lasciati al paese. L’anno più bello fu quello in cui venne al mare anche Nona.