Data creazione pagina: 29/07/2013 1:38

- Titolo: Capitolo 2 - Nona e Parin.


Quando ero piccolo ero praticamente sempre a casa dei miei nonni, in via Pastrengo. Nona era amorevole come solo una vera nonna sa essere. Sentivo che mi voleva bene. Non era molto alta ed era rotondetta, in carne, ma non troppo. Il suo viso era morbido e profumato di sapone, per quella sua abitudine a lavarsi facendo uso di uno straccetto che usava come una spugna per il viso, insaponandosi e risciaquandosi con quello. Era piacevole baciarla sulle guance morbide, nonostante le rughe degli anni. Un tempo era stata rossa e ricciolina naturale di capelli, come quasi tutti quelli della sua famiglia ed aveva gli occhi azzurri. Portava dei piccolissimi orecchini pendenti, come si usava ai suoi tempi. Vestiva come tutte le vecchie di allora, con abiti semplici, dai colori non vistosi e, siccome era sempre affaccendata in qualche lavoro domestico o nell’orto, portava sempre ël faudal, un grembiule per non sporcarsi. Anche i capelli, ormai grigi, li portava come tutte le signore anziane. Li tirava pettinandoseli sulla nuca, raccogliendoli così, col pocio1, come del resto anche la mia nonna materna, Nin Daviso, Neta e tutte le nonne degli altri che conoscevo. La crocchia sulla nuca era tenuta insieme da quelle forcine a due punte fatte di corno, come i pettini. La plastica non era ancora molto diffusa, ma stava arrivando e ci avrebbe sommerso. A volte le forcine tendevano a staccarsi, a volte con il mio aiuto e Nona fingeva di arrabbiarsi. Con lei mi trovavo bene come a casa mia, forse anche meglio, perché sentivo di essere bene accetto, amato disinteressatamente. Mi piaceva quello che cucinava, i sapori di quei pranzi più rilassati di quelli a casa mia. Quando era completamente rilassata, cioè non doveva cucinare, lavare, andare nell’orto, sferruzzava seduta su una sedia in cucina, vicino alla finestra, oppure sulla sislonga2. Produceva praticamente tutto quello che si può produrre con la lana ed i ferri: dalle calze, ij scapin3, alle maglie, mutandoni e berretti. La lana veniva sempre riciclata. Un plover4 infeltrito e ristretto veniva disfatto, la lana raccolta in gomitoli e pronta per altre creazioni a seconda delle esigenze del momento. Fu giocoforza che imparassi anche io, piccolissimo a lavorare “ai ferri” la lana. In realtà questa attività non era considerata molto virile, ma a un bambino era concesso anche fare cose del genere. Anzi devo dire che dopo la padronanza dei diritti e rovesci, con i quali potevo fare, al massimo delle sciarpe, mi cimentai anche con l’uncinetto. Facevo questi lavori la sera, quando li facevano mia nonna ed anche mia madre. All’epoca volevo imparare tutto quello che c’era da imparare. Questa attività non era pericolosa e me la lasciarono fare. In realtà non sarebbe stato nemmeno “maschio” giocare con le bambole, però io ne avevo una. Si trattava di un bambolotto di sesso maschile. Almeno lo si intuiva dai capelli corti. Le bambole moderne sessuate erano di là da venire. Dunque un bambolotto maschio poteva probabilmente confacersi ad un bambino. Mi arrivò in una notte di Natale, insieme ad altri giochi posti ai piedi del letto, ed io lo accettai come tutto il resto, anche se prediligevo aerei, pistole e locomotive, almeno per quanto mi ricordi dei tempi in cui conservo memoria delle mie preferenze.
In sostanza imparai molto piccolo a “fare maglia”, con l’unico scopo di vestire il bambolotto il cui nome riconosciuto divenne Pippo. Non conservo memoria di chi scelse questo nome, se io o qualcuno degli adulti. Siccome però tutta la mia abilità riusciva soltanto a produrre sciarpe di lana, fu Nona a vestirlo. Lo vestì con abiti di lana e con abiti cuciti. Fece persino un cappotto rosso per l’inverno del bambolotto.
Parin era un uomo di altri tempi e come tale vestiva e si comportava. Era alto e magro e aveva due lunghi baffoni scuri, che la nonna di tanto in tanto gli spuntava con le forbici, mentre stava seduto di fronte alla finestra della cucina. L’operazione comprendeva il taglio dei peli che spuntavano da naso ed orecchie. Se li lisciava spesso, i suoi baffi, arrotolandone le estremità in una curva verso l’alto. Nonna tagliava anche i capelli a Parin. Nella credenza nel tinello c’erano dei rasoi a mano, come quelli che usavano i barbieri per i tagli a spazzola. C’era anche quel rasoio che usavano nei film western, che si affilava su un apposito strumento con una striscia di cuoio. Anche questo uno strumento dei barbieri. Mia nonna aveva sempre tagliato i capelli ai suoi figli.
Per il mio taglio di capelli venivo portato dal barbiere in via Fornasio. Era un signore d’origine veneta di poche parole. Io, come gli altri bambini, venivo seduto su una seggiola da bambini, più alta di quelle sulle quali sedevano gli adulti, in modo che il barbiere non dovesse chinarsi. Sul davanti c’era una testa metallica di cavallo, completa di briglie di cuoio, che avrebbe dovuto divertirmi. In realtà piansi le prime volte che mio padre mi portò a compiere questo rituale del taglio dei capelli, nonostante il cavallino che, secondo tutti gli adulti, avrebbe dovuto piacermi. Intanto per salire lassù in alto dovevano prendermi sotto le ascelle ed alzarmi. Poi l’operazione era complicata dal fatto che avrei dovuto collaborare, cercando di infilare le gambe nello stretto spazio fra la seggiola e la testa del cavallo, una per lato. Non è agevole coordinare i movimenti con un’altra persona che ti sta alzando di peso per metterti o toglierti su quella seggiola da barbiere. Anche il taglio dei capelli sembrava un rito perché c’erano tantissime operazioni che si susseguivano sempre con lo stesso ordine. Prima di tutto si era avvolti in un lenzuolo, che pizzicava il collo, che veniva prelevato in un armadio. Non era mai il lenzuolo del cliente precedente, che veniva scosso con vigore e poi rimesso nell’armadio. Insomma era tutta scena. Non si voleva far vedere d’usare il lenzuolo del cliente precedente, ma era certamente un lenzuolo già vissuto a sera –e chissà quante settimane durava la replica!. Noi andavamo sempre di sera, quando mio padre tornava dal lavoro. C’era sempre una lunga fila di gente in attesa a quell’ora. Questa faccenda del taglio mio di capelli era affar suo, non se ne occupava mai mia madre. Una faccenda da uomini. Come se non bastasse, il barbiere infilava poi ancora del cotone nel vano tra collo e lenzuolo. Poi mi pettinava. Poi iniziava a sfoltire con forbici dentellate, che facevano male come se strappassero i capelli. In effetti, forse, era proprio ciò che facevano. Veniva in seguito il taglio vero e proprio, con le forbici appuntite che si muovevano e scattavano senza posa. Nel fare tutto questo il barbiere mi girava intorno e mi piegava la testa da una parte e dall’altra, spingendo e tirando. Lui stesso osservava di tanto in tanto la sua opera, piegando il capo da ogni lato, facendo smorfie con la bocca. Mentre faceva il suo lavoro fumava. Il locale stesso era pieno del suo fumo e di quello dei clienti in attesa. A quei tempi tutti gli adulti fumavano. Sigarette di basso costo, puzzolenti oltre ogni sopportazione. Alfa e Nazionali, tutte senza filtro. Alcuni facevano le sigarette da se’ stessi, usando le cartine ed il tabacco che tenevano in un pacchetto o in una tabacchiera di peltro. Uno di questi era mio padre stesso; un altro lo zio Luigi. Occorreva molta abilità per arrotolare e poi leccare la cartina, per ottenere una sigaretta decente. Spesso la cicca arrotolata in modo così artigianale, si spegneva e i grandi continuavano le loro attività e i loro discorsi, con quel mozzicone spento che sembrava incollato alle labbra. Si muoveva al ritmo dei loro discorsi e non si staccava mai. Quando si ricordavano lo riaccendevano con l’accendino a benzina e pietra focaia, oppure con il cerino, tenendo comunque le mani a coppa intorno alla sigaretta, a ripararsi dal vento.
Le ultime operazioni erano la sfumatura sulla nuca, fatta col rasoio a macchinetta che lasciava capelli di pochi millimetri di lunghezza, sfumati a zero sul collo e il taglio delle basette e la riga dritta sul collo, eseguite, queste ultime, con il rasoio a serramanico, opportunamente affilato sul cuoio. Il resto era ancora scena. Pettinarmi con la riga a sinistra fatta con il pettine inumidito sotto il rubinetto; spazzolarmi togliendo i peli residui sul volto e sul collo; profumarmi il collo e la faccia con lo spruzzatore che nebulizzava e faceva bruciare gli occhi se non li chiudevo. Dulcis in fundo una passata di borotalco sul collo, per asciugare il profumo. Infine l’essere risollevato ancora per uscire dalla sedia a cavallino. La tortura rituale era terminata.
Per la sua anzianità ma anche per la statura imponente, mio nonno era l’autorità in famiglia. Era un uomo dal portamento fiero, di uno che abbia vissuto la propria vita con un senso trascendente le materialità della vita stessa, uno che, se avesse potuto ricominciare da capo, avrebbe fatto tutto allo stesso modo. Aveva mani nodose e scure, da lavoratore di campagna. Sul dorso delle mani e sulle braccia spiccavano in rilievo grosse vene. Io mi sentivo molto al sicuro, tenendo la mia manina nella sua. Ero orgoglioso del mio Parin. In verità Parin significherebbe letteralmente “padrino” e mio nonno non era padrino mio, ma di mio cugino, nato quattro anni prima di me, ma mio nonno ci teneva che lo chiamassimo tutti così noi nipoti. I grandi lo chiamavano invece con rispetto Parotu, compresa mia nonna. Parotu era il pater famiglias, l’autorità indiscussa della famiglia allargata di tipo contadino, anche se la nostra famiglia si era trasformata, all’epoca della mia nascita, in famiglia operaia. Il mio vero padrino di battesimo era il fratello più anziano di mio padre, che per non fare confusione con mio nonno, che solo poteva fregiarsi del titolo Parin in assoluto, -senza articolo determinativo, non c’era necessità, non ci si poteva confondere, c’era soltanto uno e un solo Parin o Parotu- lo chiamavo parin Tonino.
Parin si vestiva come un uomo dei films western, con pansot o gilè a tutte le stagioni, foulard al collo e cappello nero di feltro a larghe tese. I pantaloni avevano una curiosa fibbia nella parte posteriore, proprio sotto la cintura. Gli mancavano soltanto stivaletti, speroni e pistola alla cintura per essere un perfetto cow-boy, di quelli che vedevamo al cine parrocchiale. Soltanto il mio amico Claudio Calavita poteva contare su un nonno simile al mio, e anche lui lo chiamava Parin, ma era più basso di statura del mio. Quest’ultimo aveva la cascina ën t’la vietta5, con tante mucche e tante giurnà ‘d tera6, ma era pur sempre meno imponente del mio!
Dal gilè si poteva scorgere pendere una catenella, quella del suo orologio da taschino. Nello stesso gilè, ricco di taschine minuscole, conservava la scatola dei fiammiferi di legno ed il pacchetto di toscani. Mi ricordo l’odore di quei toscani che mio nonno fumava con grande soddisfazione un poco dopo i pasti. Non li fumava mai completamente, ma li spegneva conservandoli in tasca per la prossima occasione. Il suo odore caratteristico era quello dei toscani spenti. A volte per meravigliarmi, si fumava il suo toscano mettendolo in bocca al contrario, con la parte accesa dentro. Un’abitudine dei tempi del servizio militare, all’epoca della prima grande guerra, quando la brace accesa del sigaro aspirato nella notte, poteva essere bersaglio dei cecchini austriaci.
Quando doveva fare qualche lavoro si vestiva con gli abiti da lavoro blu stinto da molti lavaggi con la lëssija7, pantaloni e giacca, indossata quest’ultima sopra il solito gilè. In tasca teneva un portamonete a ferro di cavallo che si apriva in due come un libro. Lì Parin teneva gli spiccioli e le chiavi di casa.
Ai piedi aveva sempre un tipo di pantofole marroni con la cerniera lampo, a meno che dovesse andare in qualche posto importante, caso in cui indossava le scarpe. Anche mia nonna indossava sempre queste pantofle, e tutti gli anziani in genere. Per i lavori nell’orto però si metteva ij soc, zoccoli con la base in legno e tomaia in pelle attaccata alla base con i chiodi a testa larga da ciavatin8. Ij soc, mio nonno se li confezionava da se’, quando i precedenti erano frusti.
Tutti gli adulti facevano un gran parlare di come, ai loro tempi, si andasse in giro perlopiù scalzi, al massimo con ij soc, e di come le scarpe fossero un lusso di pochi. Si raccontava di come dei giovani andando ad un ballo in un altro paese, facessero tutta la strada scalzi, per non consumare le scarpe, e poi se le infilavano all’ultimo momento, giunti sul luogo della festa. Questa tiritera delle scarpe e dei soc era sempre a uso e consumo mio, quando facevo i capricci per non voler indossare qualche cosa che non mi piaceva.

Mio nonno era sempre stato un lavoratore della campagna e, non avendo terra sua, la affittava come si usava ai suoi tempi. Originario dei Brass ëd Carignan9, aveva cambiato spesso luogo in varie zone della nostra pianura padana. A quei tempi i contratti - niente di scritto, tutto sulla parola - duravano un anno e si potevano o rinnovare o rescindere. Il tempo di termine del contratto era la naturale fine della stagione agricola, novembre. Se il contratto si scioglieva l’afitor, colui che affittava terra e casa, doveva traslocare. Il trasloco avveniva l’undici di novembre e per questa ragione i traslochi si chiamavano San Martin.
A Teit ëd l’Eira10 aveva incontrato mia nonna Ninin. Erano stati a Teit Cavalon, frazione di Piobesi, a Castagnole, dove nacque mio padre e a Rivasecca, vicino a Buriasco e infine al nostro paese, che sarebbe stato l’ultimo spostamento per mio nonno.
Nel paese si stabilirono nella ca dël Lou, casa del Lupo, così chiamavano il proprietario in quei tempi in cui tutti avevano uno stranom, un soprannome. Era l’ultima casa del paese, sempre in via Pastrengo e, di fronte ad essa dalla parte dei campi, sarebbero poi state costruite le future case popolari, in un terreno incolto espropriato dal comune di proprietà di una certa tota11 Tina. Sulla parete della casa c’era il nome del nostro paese ed un cartello stradale che ammoniva ad andare a venti chilometri all’ora, e lì sono rimasti fino a qualche anno fa, quando la ca ëd ël Lou è stata ristrutturata.
In quella casa, non molto grande, Parin aveva quattro mucche e un cavallo con tombarel12, con il quale faceva dei trasporti. Il cavallo dovette poi essere ucciso perché si infortunò. Ci deve essere un dio che si occupa di perseguitare i poveri e gli sfigati. Finì la sua carriera lavorativa tra la fornasa13, dove trasportava l’argilla per la costruzione dei mattoni, e la Diatto, una azienda a cui a volte, gli adulti si riferivano anche come ‘materiale ferroviario’. I luoghi di lavoro erano abbastanza lontani da casa, quindi tutti andavano al lavoro in bicicletta, fino ad un mattino di inverno, in cui fascisti e tedeschi sequestrarono loro le biciclette. Poi il viaggio avvenne a piedi. Ai loro tempi, fra bicicletta e camminate, la gente arrivava ovunque, era soltanto questione di partire per tempo.
Parin e Nona ebbero cinque figli, tre sopravvissuti. Uno, Mario, morì piccolissimo per disturbi intestinali, e un altro, Matè, morì diciottenne all’epoca delle ultime manifestazioni di quelle epidemie che nei secoli scorsi decimarono l’umanità. Dai tre figli sopravvissuti ebbero tre nipoti: io e i miei due cugini, figli entrambi ëd barba Louis.
Nona teneva nel salone le fotografie degli zii scomparsi e si commuoveva ancora a parlarne, anche se a quei tempi suoi, la morte e la vita erano molto più soggette al capriccio del fato che non nella nostra era degli antibiotici.
I nonni, ma soprattutto Parin, con l’amore ed il rispetto per la terra che soltanto un “senza terra” può avere, mi fecero riflettere su questo fatto della proprietà della terra. Infusero in me un reverenziale rispetto della natura e dei suoi cicli. Molto piccolo domandavo, quando sentivo discorsi di proprietari di vasti appezzamenti, cascine e case, come fosse che tanti erano padroni e noi non avevamo nulla. C’era però qualcosa che mi sfuggiva nel meccanismo delle proprietà. La mia giovane mente non riusciva a capire il motivo della diversificazione delle ricchezze. Siccome ad un certo punto le istituzioni incominciarono, molto presto per altro, a tentare di indottrinarci, si venne inevitabilmente in contatto con la religione Cattolica, che, in teoria almeno, predicava bene. C’era all’inizio questo Dio, immensamente Buono e Giusto, che decise di creare l’universo, la terra, le piante, gli animali e noi stessi. A Sua immagine e somiglianza. Ricordo le illustrazioni a colori dei primi libretti di catechismo. Dio era talvolta quel vecchio con la barba bianca vestito di una veste candida, talvolta quel triangolo dorato, con l’occhio che tutto vede. Essendo buono e giusto ci considerava tutti uguali. Eravamo tutti discendenti di quell’Adamo che aveva commesso la colpa di mangiare quella mela proibita con Eva(!?). Dio li aveva sì cacciati dal Paradiso terrestre, ma aveva anche dato agli uomini tutta la terra e il dominio su tutti gli animali. Qui, a dire il vero, la storia sembra fare già un po’ di acqua. Ma sorvoliamo e andiamo avanti. La terra a tutti gli uomini. Tutti gli uomini sono uguali. Ergo, logicamente ne consegue, data la somma equità di un Dio Giusto, un pezzetto di terra ad ogni uomo. Ma come mai non ha funzionato? I principi erano eccezionali, giusti e sacrosanti, ma qualche cosa deve essere andato storto, nel corso dei secoli. Qualche famiglia deve avere preso per se’ la proprietà che spettava ad un’altra famiglia. Qualcuno ha iniziato ad avere di più, altri di meno. Alla fine qualcuno, come la nostra famiglia, è rimasto senza. Ma la mia mente bambina mi diceva che questo stato di cose era profondamente ingiusto. Tutto questo contrastava, strideva fortemente con ciò che dicevano preti e suore.
Molta gente intorno a noi, lavoratori stipendiati come quasi tutta la gente conosciuta, riusciva ad acquistare o a costruirsi la casa, a prezzo di grossi sacrifici e rinunce. Ma i più erano, come si dice, con ël cul për tera14. D’altro canto c’erano persone molto ricche, che possedevano molte case e molte terre. Se si escludono coloro i quali erano possidenti da più generazioni, ricchezze cioè accumulate con il sacrificio e il lavoro di nonni, padri e figli, con il contributo di una buona dose di fortuna, la maggior parte degli arricchiti aveva qualche pecca da nascondere. Si mormorava di gente arricchitasi ën temp ëd guera, mediante usura e borsa nera. Cioè, approffittando del loro prossimo. Altri si diceva avessero intercettato quei pacchi di denaro paracadutati dagli alleati per i partigiani, per sovvenzionare la rivolta al regime. Quatti quatti avevano tenuto nascoste queste ricchezze, fino alla fine delle ostilità, perché se fossero stati scoperti sarebbero stati sicuramente uccisi dai partigiani. Alla fine della guerra costoro iniziarono improvvisamente ed inspiegabilmente a comprare, case e terreni. Questo, per non cercare altre ingiustizie più lontane, nel tempo e nello spazio.

Il mio tempo con Nona e Parin, fu il tempo del mio personale paradiso terrestre. Ad un certo punto, inspiegabilmente, fui catapultato nel mondo, nelle istituzioni e da allora non ebbi più pace. A tre anni bisognava andare all’asilo. Lo sapevo fin da prima. Me ne avevano parlato. Ma sembrava una cosa lontana, che non sarebbe arrivata mai. Io stavo bene con i nonni. Perché mai non si sarebbe potuto continuare così?