Data creazione pagina: 29/07/2013 1:35

- Titolo: Capitolo 1 - I posti e le case.


Venni al mondo un giovedì di giugno, la festa patronale della città, festivo quindi, fatto questo che mi avrebbe lasciato quel secondo nome, Gioanin, - come dissero le suore dell’ospedale a mia madre: -A l’è prope ‘n Gioanin - perso poi in seguito a vari trasferimenti di residenza, fra le scartoffie che costituiscono le comunicazioni, fra i vari uffici anagrafici del nostro paese. Perdere un secondo nome non è cosa da poco per la burocrazia, soprattutto se esso si conserva in certi documenti e non in altri.
Dovetti accorgermi subito di come fosse dura la vita da queste parti. Mi presero per i piedi, tenendomi a testa in giù, e subito cominciarono a menarmi.
Giunto a casa, al mio paese, le cose non andarono meglio, visto che mi tenevano legato stretto come un salame ed io provavo una grande frustrazione e una enorme rabbia per l’impossibilità di muovermi liberamente, come avevo fatto fino ad allora, quando galleggiavo placidamente nell’acqua. Questa tortura continuò per alcuni mesi, nonostante le mie vigorose rimostranze. Capii subito due cose: quanto poco potere avessi in questo luogo e fra quella gente, e quanto potere avessero invece gli adulti sui bambini. Questo forse segnò per sempre la mia esistenza. Se il fatto di tenerli svegli tutta la notte non riusciva a farli desistere dal torturarmi così barbaramente, avrei avuto ben scarse possibilità anche in futuro, di far valere le mie idee. Sembravano essere volutamente sordi -o lo facevano apposta- alle mie disperate richieste di libertà di movimento, oppure semplicemente richieste di affetto: ad ogni mia piagnucolosa richiesta, rispondevano invariabilmente mettendomi quella ridicola tettarella di biberon, o peggio ancora con quel succedaneo gommoso che si chiama succhiotto. Come se l’unico mio bisogno, in qualunque occasione, forse sempre quello del cibo, o di un suo surrogato. Poi ci si stupisce se si incontrano in giro persone obese, fumatori accaniti e via dicendo, tutti vittime della ormai universale fissazione orale, della quale ne hanno colpa tutti meno il diretto interessato.
A volte volevo soltanto accertarmi che quelli che normalmente si prendevano cura di me ci fossero ancora, perché era buio e, dietro le alte sponde del mio lettino, che mio padre aveva costruito per me, non li vedevo. Ne’, legato com’ero, avrei potuto alzarmi ed esplorare l’universo circostante, come fanno ora i nostri figli quando si svegliano. Molto più spesso, avrei semplicemente voluto sgranchirmi un poco le membra intorbidite. Sono convinto che chiunque avesse legato in quel modo un adulto, in quegli stessi anni, avrebbe passato dei guai seri con la legge. Era però permesso farlo ai bambini!
Mi dicono che piccolissimo, avessi tre grandi spauracchi che potevano addirittura terrorizzarmi. Dei tre in coscienza ne ricordo uno solo: quello dei buchi. Allora le case erano vecchie e potevano apparire tetre di per se’ stesse, ma quando dovevo restare a dormire dalla mia nonna materna, subito il mio sguardo si posava su quel buco nero del camino della stufa in cui non era infilato nessun tubo di stufa. La cosa era doppiamente inquietante. Se il buco era un camino per la stufa, perché non vi era infilato il suo bravo tubo di stufa che lo chiudesse? E, viceversa, nella mia logica infantile, se non vi era stufa perché mai doveva esserci quel buco aperto nel muro? Ma più di tutto, perché dovevo dormire proprio io, in quella stanza con quel buco nero, dal quale avrebbe potuto uscire qualunque cosa? Non appena mi mettevano nel letto nella camera col buco, puntavo il piccolo indice dicendo:
-Tutuch!
Il che stava per përtus 1 nel mio precoce idioma infantile.
La zia Pina cercava di minimizzare e di tranquillizzarmi, ma io ero inquieto e poco convinto, non sapendo se restare a fissarlo oppure girare il mio sguardo da un’altra parte. Andavo avanti così finché il sonno non mi vinceva. Quando fui più grande, tutta la parentela si burlò di me, per questa paura infantile, alludendo che la paura per i buchi, fosse sinonimo di paura del sesso femminile, che invece, contrariamente alle aspettative, mi ha sempre attirato moltissimo.
Le altre due paure che io non ricordo, ma mi hanno raccontato, sono il terrore degli ombrelli aperti e del viso insaponato di mio padre quando si radeva.
Mi fu subito chiara l’esistenza della morale, dei si fa - non si fa, perché questo è il primo grande enigma in cui si imbatte chi, venendo al mondo, osserva e si interroga sull’interazione con gli adulti, sul loro modo bizzarro di comportarsi nonostante ciò che essi pretendono dai bambini. C’era negli adulti una sicurezza di se’ e delle loro convinzioni invidiabile. Non avevano il minimo dubbio mai, per nessun argomento o fatto accaduto o immaginato. Sapevano cosa dire e cosa fare sempre, in ogni momento ed in ogni occasione, mentre io ero sempre pieno di domande perlopiù inespresse, di interrogativi di ogni specie. Speravo che un giorno, da grande, sarei diventato come loro, quasi come loro, insomma, perché già mi sentivo con le ali spuntate, come i volatili da cortile, per impedire che fuggano quando la natura risveglia in essi l’istinto.
Capii immediatamente quanto fosse importante comunicare, per poter fare domande e cercare di comprendere il bizzarro mondo in cui ero capitato. All’età di un anno cominciai a parlare. Precoce per un maschio. Ma saper parlare almeno a quei primitivi livelli, non era sufficiente per capire usi e costumi dei grandi: occorreva sapere porre le giuste domande, per ottenere le risposte desiderate. Per questa abilità ho impiegato una vita intera, e probabilmente, il processo non è tuttora concluso.
Alla stessa età imparai che dovevo fare i miei bisogni in tempi e luoghi che non erano i miei, ma quelli di mia madre. La cosa non fu facile per un bambino di quell’età, abituato a lasciare andare le proprie evacuazioni solo nel preciso momento in cui ne sentiva l’urgenza, solo quando “gli scappava”, e forse, le conseguenze di una tale precocità contro natura, si portano appresso per tutta la vita, in quelle “ostinazioni” che, a partire da un certo Sigmund Freud, sono state considerate le principali e maggiormente precoci cause delle psicopatologie proprie degli esseri umani “civilizzati”. Posso tuttavia comprendere, se non condividere, le esigenze di mia madre, date le precarie condizioni igieniche in cui si viveva a quei tempi, che descriverò in seguito.

Il mio paese si trovava ad alcuni chilometri dalla città, sulle rive del torrente Sangone. Fondato dagli antichi romani, come testimoniava una lapide ritrovata nel giardino del parroco, era allora una comunità prevalentemente operaia e agricola, di poche anime, e sarebbe stata il teatro della mia vita per più di vent’anni.
Non sono molti i ricordi della routine quotidiana di quegli anni, ma spiccano alcuni fatti importanti; almeno furono tali per me che li vissi allora con gli occhi dell’innocenza infantile. Facemmo diversi traslochi con la mia famiglia, per spostarci a volte solo di poche centinaia di metri, e per tornare alla fine al punto di partenza.
Appena nato abitai in via Pastrengo, alla periferia ovest del paese, in una delle ultime case affacciate sui campi, insieme con i nonni paterni, in un palazzo di quattro piani, le cosiddette case popolari o INA casa o case Fanfani di recente costruzione. Era una casa davvero grande, composta di più camere. Un corridoio tappezzato delle fotografie del matrimonio dei miei genitori, immetteva nel salone grande dotato di finestra ad ovest e balcone a sud, affacciato sul cortile e sulla casa sorella minore, un’altra INA casa, che condivideva con la nostra cortile e portone d’ingresso comune. Da questo balcone si poteva entrare in contatto senza scendere, con l’allora intensa vita sociale del condominio che si svolgeva perlopiù nel cortile comune. In questo salone c’erano le fotografie degli zii morti: barba Mathè, morto circa a diciotto anni, e Mario, morto ancora in fasce. Nona si intristiva ancora, guardando quelle fotografie. Nel corridoio, di fronte alla porta d’ingresso, la cucina, vero cuore caldo della casa, dove passavamo la maggior parte del nostro tempo in casa, con una finestra sullo stesso lato di quella del salone, che spaziava sui campi, le ultime poche case, fino alle montagne lontane che cambiavano colore a seconda della stagione: dal bianco innevato dell’inverno, ai verdi con sfumature di marrone e viola dell’estate. Da quella finestra in cucina si osservava anche crescere la verdura nell’orto, piccole strisce di terra di circa tre - quattro metri per una dozzina, in cui era suddiviso l’appezzamento comune di terra del condominio, una striscia per ogni condomino. Da lì si progettavano i lavori da eseguire nell’orto, cosa seminare e dove, si individuava ciò che era da cogliere perché maturo. A quei tempi l’orto era molto importante per tutti, quasi una sorta di reddito familiare. In fondo all’orto la tampa ‘d l’amnis, dove si buttavano gli avanzi di cucina a macerare per servire poi come concime biologico.
A sinistra del salone in un piccolo vano di sgombero, si aprivano tre porte : a destra la camera da letto di Nona e Parin, a sinistra la nostra. Di fronte, meraviglia delle meraviglie per quei tempi, che non avrei trovato da nessuna parte, il bagno completo di tutto l’immaginabile per un bagno dei tempi: una grande vasca in ghisa con i piedini ed il sedile per sedere comodi facendo il bagno; un lavabo e, il cesso vero e proprio, l’originale water closed portato dagli americani, una innovazione senza la puzza. Le finestre di bagno e camere davano ad est, ancora sul cortile comune, dove c’erano le otto baracche in legno e lamiera, una per condomino, che chiamavamo aristocraticamente garages, ma che in realtà erano ripostigli perché mancavano allora le auto. Al massimo c’erano biciclette e qualche motorino. Da queste ultime finestre si vedeva il portone d’ingresso del condominio ed il resto del paese. Oltre all’orto ed al cosiddetto garage, l’alloggio era munito di una cantina quasi completamente interrata, una per ogni condomino, illuminata soltanto da una piccola finestrella posta in alto. Anche questa era in realtà un altro ripostiglio di cose strane ai miei occhi, e legnaia.
Dalle finestre del terzo piano si dominava allora il panorama di tutti i tetti del paese, essendo la nostra casa la seconda in altezza in tutto l’abitato. In quell’altra, poco lontano ed in vista, altra INA casa, vivevano i miei due cugini.
Proseguendo per la via Pastrengo a sinistra del cancello, si trovavano subito i campi. Più lontano, un chilometro circa, la grande cascina ëd Gonsi -Gonzole- posto visibile dalle finestre della cucina e del salone, in cui si arrivava a piedi con i nonni in certe giornate estive, per raccogliere la camomilla o altre cose. Proseguendo ancora oltre, ma molto più lontano, si sarebbe arrivati a Rivalta. Anche questa faccenda della raccolta era allora una specie di fonte di reddito, proprio come l’orto. Di fronte al cancello il muro di un’altra cascina, dove acquistavamo noi il latte. Proseguendo a destra per la via Pastrengo si andava in centro del paese. Proprio in questa direzione ci trasferimmo per un breve periodo, in via Leonardo da Vinci, in una stanzetta con pavimento in mattoni, molto brutta se paragonata alla bellezza ed alla grandezza della casa in via Pastrengo. Qui i pavimenti erano in piastrelle e le scale in marmo, un vero lusso per quei tempi, ed erano molti locali. Ma per fortuna, i nonni rimanevano lì, e quella grande e bella casa sarebbe stata sempre un punto di riferimento ed un posto a cui ritornare.
All’epoca di via Leonardo da Vinci, in quella casa con il piccolo cortile chiuso, risalgono i primi ricordi coscienti. La nuova abitazione era più in centro. Qui c’era il viale di tigli, visibile dal terrazzo dei padroni di casa e c’erano i negozi: il negozio di frutta e verdura di Vincens, nello stesso caseggiato e la ferramenta nella casa di fronte. Di fronte, sul viale, un’osteria.
In via Leonardo da Vinci ebbi la mia prima intuizione economica sulla intrinseca ed incolmabile differenza tra ricchi e poveri. Abitava lo stesso caseggiato il mio quasi coetaneo amico di giochi Adolfo Balangero, figlio del padrone di casa. Egli possedeva un’automobile a pedali, tutta rossa come una Ferrari dell’epoca, unico gioco che non condivideva con me, malgrado le mie insistenti richieste, con la quale scorrazzava pedalando sul terrazzo o sul cortile acciottolato, facendo, nel contempo, il verso di un motore rombante, talvolta del clacson. Per ripicca, forse, una volta che ci fecero una fotografia, rifiutai di dargli la mano, e siamo stati immortalati così per l’eternità: lui che cerca di darmi la mano ed io che nascondo la mia, proprio nell’attimo magico dello scatto, dietro la schiena. Provavo un’invidia tremenda per quella cosa che ci diversificava. Mi fece salire a provarla forse soltanto una volta, per pochi attimi, e mi rimase da allora il desiderio di averne una tutta mia un giorno. Invano chiesi a mia madre se potessi averne una anch’io, magari per Natale, quando Gesù Bambino sarebbe venuto a portarci i regali. Mia madre mi disilluse subito. Quando si chiedeva qualche cosa, si esprimeva un desiderio, subito ti sciorinavano tutta una serie di proverbi e di luoghi comuni, sul fatto del “volere”, che si imparava quasi subito la lezione: chiedere il meno possibile.
-L’erba voglio non c’è, nemmeno nel giardino del re.
-Ët saras pas cume ël duce ca disia : «Voglio, posso, comando!»2
Chi saranno mai questo duce e questo re?
Tentai con nonna e con Parin3, con gli stessi risultati. Doveva restarmi la voglia di un’auto a pedali per tutta la vita, accanto ad una sensazione vaga di un mondo ingiusto. Quando poi avrei potuto permettermi la Ferrari, a pedali si intende, non vi sarei poi più potuto entrare a pedalarvi dentro, e sarei apparso ridicolo se l’avessi potuto fare davvero.
In una tettoia in fondo al cortile stavano le gabbie con i conigli, gli onnipresenti conigli della mia infanzia, che tutti allevavano allora, per poi mangiarseli. Io avrei tanto voluto giocarci, ma era una di quelle cose tassativamente proibite, se non in presenza di un adulto che talvolta, raramente, dopo molta insistenza, e con grande magnanimità, sollevato il coperchio delle gabbie, ne prendeva uno per le enormi orecchie -i conigli si maneggiavano sempre così, qualsiasi cosa si trattasse di farne- lo posava un attimo in terra per farcelo accarezzare e poi rimetterlo subito dopo al proprio posto. I conigli avevano un folto pelo morbido e caldo al tocco, e per questa loro caratteristica, dopo morti e mangiati, servivano a fare i colletti dei soprabiti delle signore, che però si chiamavano di lapin. Noi al nostro paese, i conigli li chiamavamo cunij, ma la mia nonna materna che abitava lontano, due paesi, tanto che si prendeva la corriera per andare da lei, li chiamava birin.
Era altresì proibito ai bambini, e questo veniva raccomandato più spesso del necessario, infilare le piccole dita nelle maglie esagonali della rete della gabbia, perché i conigli le avrebbero immancabilmente, da bravi roditori, rosicchiate. Non si poteva nemmeno formulare anche solo mentalmente l’idea di infilarlo il ditino, perché giungeva immancabilmente l’ammonimento, prima ancora di poter mettere in atto il proposito: gli adulti a quei tempi sapevano leggere nel pensiero di noi bambini, sembravano conoscere in anticipo le nostre intenzioni. Questa è una facoltà che in seguito si è persa, perché quei bambini là, diventati adulti, risultarono poi meno furbi dei loro adulti di un tempo, e, nello stesso tempo, i bambini figli - sì, mi rendo conto che è un po’ complicato -di quei bambini là, risultarono molto più svegli dei primi.
I conigli facevano delle cacche che sembravano pasticche di liquirizia, e se chiudo gli occhi, ancora oggi riesco a sentire l’odore di una gabbia di conigli.
Più dei conigli adulti erano belli i cuccioli di coniglio. Ricordo di aver aspettato a lungo ed invano che una nostra coniglia figliasse, vuoi per giocare con i piccoli, vuoi per carpire questo mistero della filiazione perché a quei tempi, la faccenda era avvolta nel mistero più fitto, confusa fra cavoli e cicogne. Non c’era alcun modo di dirimere la questione perché i grandi sembravano nicchiare intorno all’argomento, ma secondo me la sapevano lunga. Sembrava sempre che la nostra coniglia fosse pronta4; venne persino un amico o collega di mio padre da un paese vicino, una sera al ritorno dal lavoro, a tastarle la pancia, con modi esperti, continuando a fare cenni affermativi col capo. Alla fine diagnosticò che lo era, ma i coniglietti non arrivarono mai.
I conigli mangiavano l’erba, soprattutto la tirasa5, che si raccoglieva nei prati, ma ogni tanto occorreva dare loro un po’ di brenn, la crusca, che si comperava dal muliné, il mugnaio, lontano sullo stradone.

Un giorno mia madre fece venire a casa un fotografo per farmi delle fotografie. Ricordo che mi strofinò il viso più del solito per lavarmelo quella volta, poi mi mise i vestiti più belli. Con una spazzola inumidita mi fece una gran banana, ën tirabasin sui capelli, una specie di ricciolo composto da tutta la parte superiore dei capelli. Allora l’acconciatura per noi bambini in fase di eleganza era quella. Mi misero sul coperchio del potagé, la stufa a legna, perché era estate e forse quello era l’angolo più bello della casa, o forse quello più illuminato.

All’età di circa tre anni ci trasferimmo ancora, per andare in una casa un po’ più grande e più bella. Ci spostammo questa volta di duecento metri, fino alla piazza Alfieri, in una casa le cui finestre dominavano il viale di tigli per quasi tutta la sua lunghezza. Qui era il vero centro del paese : sulla piazza c’erano la maggior parte dei negozi e delle botteghe di allora. C’era il droghé, il droghiere, il macellaio, la latteria, che però non serviva per comprare il latte che si comprava in cascina dai contadini che avevano le mucche e quindi nel paese c’era soltanto l’imbarazzo della scelta, ma soltanto i formaggi. C’era un negozio di alimentari che teneva praticamente qualsiasi cosa commestibile, il barbiere ed il fornaio tutti all’imbocco di via Maria Teresa Fornasio. Sulla piazza, proprio di fronte alle nostre finestre, c’era il castello di proprietà del nostro medico condotto. C’era la chiesetta, l’osteria, il municipio, la merciaia ed il sarto e, all’inizio del viale la stazione dei carabinieri ed il peso pubblico.
In fondo al viale, sulla sinistra, un Vespasiano a due posti, in prefabbricato di cemento e ghiaia, con l’acqua eternamente scorrente che però non riusciva a portare via l’odore di urina. Non mi piaceva farla lì, ma era un posto riservato a noi “uomini” e lì si doveva orinare. Le donne non potevano servirsene perché esse dovevano accucciarsi ed in quel cesso c’erano solo posti in piedi. Talvolta, in autunno, le foglie cadute dei tigli del viale entravano dalle aperture superiori e laterali, ostruendo il foro di deflusso dell’acqua, che straripava fuori, sulla strada.
Ma la piazza era il centro culturale e mondano del paese: su di essa si svolgevano comizi, spettacoli circensi, fiere e mercati, ed era il luogo dove si piazzavano le giostre quando era la festa di San Giacomo, patrono del paese. Un ottimo punto di osservazione per un bambino curioso di ogni cosa.
Dalla piazza attraverso un sentiero che fiancheggiava la bottega del droghé, si scendeva al Sangone, che sarebbe divenuto, in età scolare, il nostro ovest selvaggio.
Si entrava nel cortile che portava al nostro alloggio al primo piano, attraverso un androne con volta ad arco in mattoni, posto fra il negozio del sartor e la bottega alimentare. Condividevano lo stesso androne diversi caseggiati, tra cui quello del panettiere. Di notte l’androne era buio ed essendo vicino all’osteria, aveva un perenne odore di urina, visto che era un posto un po’ nascosto per scaricare indisturbati le bevande dell’osteria. Inoltre tutti i cani raminghi che vi passavano davanti, annusavano e poi alzavano anche loro la zampa nel tentativo di sostituire l’odore con il proprio. A quei tempi uomini e cani potevano urinare ovunque.
Il nostro cortile si trovava a destra oltrepassato l’androne. Era un cortile molto più grande di quello in via Leonardo da Vinci, ma più piccolo di quello della casa dei nonni. La nostra abitazione era al primo piano. Si saliva una rampa di scale in fondo a sinistra, accedendo così ad un grande e spazioso terrazzo con due porte : la nostra e quella dei padroni di casa. Questo terrazzo sarebbe stato per i miei primi anni di infanzia praticamente tutto il mio mondo, lo spazio dei miei giochi. La scala proseguiva ancora in su, creando un vano sottoscala, nel quale avrei riposto tutti i miei giochi, condividendolo con i gatti, che vi andavano a dormire in inverno. Sul ballatoio, all’inizio della rampa di scale che saliva al piano superiore dove abitavano i Daviso, si ergeva il cubicolo del cesso che condividevamo con quelli di sopra. Era una cosa immonda e fetida, dall’odore tremendo, illuminato da una lampadina di dieci candele sporca da secoli. Una tazza “alla turca”, cioè che si stava ëngrignà, accovacciati e non seduti, dal colore grigio sporco, di cemento, con i posti per i piedi appena un po’ zigrinati per non scivolare. Del resto chi sarebbe seduto in un posto del genere, in comune con altri ? Una vasca di sciacquone in ghisa era posta in alto al centro e si azionava con una catenella, alla cui estremità pendeva un manichetto di legno. Al centro della tazza un enorme buco oscuro nel quale un bambino sarebbe potuto quasi cadere dentro, proseguiva in un tubo fino al centro della terra, da dove salivano i miasmi di tutti i cessi del mondo, che là evidentemente convergevano, a giudicare dalla puzza. Si poteva comprendere come un bambino evitasse con ogni mezzo di entrare lì dentro, a meno di non esservi spinto da una necessità improrogabile. Sempre che non lo si trovasse occupato da qualcuno dei vicini. Sulla destra entrando, appesi ad un chiodo sotto una finestrella senza vetri, fogli di giornale vecchi, tagliati a rettangoli, per il termine della funzione. Personalmente preferivo sempre rimandare il tutto al giorno dopo, quando sarei andato dai nonni, con il loro gabinetto da mille e una notte. Questa casa, come ho già detto, era composta di due camere: la cucina in cui si entrava direttamente dal terrazzo e la camera da letto, alla quale si accedeva proseguendo all’interno da una porta posta esattamente di fronte a quella di ingresso. La camera da letto aveva una finestra e un minuscolo balconcino affacciati sulla piazza. Era di nostra pertinenza anche una parte del fabbricato di fronte alla casa, una specie di tettoia chiusa, che chiamavamo boschera -legnaia- perché in esso conservavamo, oltre ai conigli ovviamente, la scorta di legna per il riscaldamento nell’inverno. In questa terza casa e nella prima, quella dei nonni in cui mi recavo praticamente ogni giorno, avrei trascorso tutta la mia infanzia.
Di fronte alle nostre finestre, la piazza riceveva il viale dei tigli, unica vera attrazione del nostro paese, luogo di passeggio e di ozio, ristoro ombroso alla calura dei pomeriggi estivi. Il viale proseguiva diritto fino allo stradon, stradale per la città, dove passavano i mezzi per i nostri spostamenti più lunghi: le corriere e il trenino. A sinistra verso la città dove nacqui, Torino, a destra verso i luoghi dove abitavano i parenti materni e le montagne.
Questo nostro andirivieni per case non nostre, mi fece riflettere e porre domande sul fatto che noi non possedevamo una casa davvero nostra, mentre altre persone possedevano addirittura case in eccesso da affittare, dare in concessione a noi per danaro. Ma questa faccenda non era giusta! Perché dunque a scuola, al catechismo, in chiesa dicevano che tutti gli uomini sono uguali, mentre in realtà non è così, visto che alcuni hanno più del necessario ed altri nulla, nemmeno una cosa così fondamentale come una casa?
A queste mie domande vaghe e non così articolate, i grandi rispondevano in modo ancora più vago che esistevano i ricchi, ij sgnori e ij pover, ed i poveri. Ma io non capivo. C’era qualcosa che non quadrava, qualcosa di non detto, qualcosa di sbagliato, che non riuscivo a mettere a fuoco.