Data creazione pagina: 18/07/2013 15:11

- Titolo: Capitolo 5: Indagini. Ottobre 2017.

Il maresciallo Melis entrò in ufficio quella mattina pensando al caso del Ciaramolin.
Era passata quasi una settimana dal ritrovamento e da un giorno all’altro sarebbero arrivati i risultati delle analisi del R.I.S. In ogni caso non si aspettava molto. Nella migliore delle ipotesi, sarebbero potuti risalire all’identità della vittima, nel caso ci fosse stato qualche riscontro con il DNA delle persone scomparse all’epoca del decesso. Melis contava molto su questo per le indagini, dato che, per il resto, tutto ciò che avevano, era un ciondolo manufatto.
Se l’identità della vittima avesse condotto a qualche possibile sospetto, ammesso che ci fosse qualcuno con un movente valido, forse avrebbe potuto chiudere il caso prima di andarsene in pensione. Altrimenti sarebbe stato il suo ultimo fallimento. In fondo, scoprì che non gli importava granché. Tutt’al più, se il procuratore avesse insistito per il delitto mafioso e vi fosse stato anche solo il minimo appiglio, Melis avrebbe retto il gioco, per la tranquillità sua e di tutti. E, appena in pensione, sarebbe partito alla volta della Sardegna, forse, per non tornare mai più nell’alta valle del Po. Che cosa avrebbe potuto trattenerlo lì?

* * *

Nello stesso momento, Emanuele Caruso, che aveva ormai compiuto tutte le “missioni” che si era proposto, stava dedicandosi ad un ultimo saluto a Giuliana. Lei stava seduta sopra di lui supino, completamente nuda, e girava su se’ stessa, intenta in un numero da circo equestre, offrendo ad Emanuele, prospettive diverse del suo splendido corpo di giovane donna. Era una cosa che avevano visto fare in un film tibetano, di cui non ricordavano il titolo, ma ricordavano molto bene la scena, visto che l’avevano provata varie volte, nella mansarda di lei, che in camera da letto aveva travi di legno che scendevano oblique verso la testiera del letto.
Emanuele aveva un trucchetto che metteva in pratica ogni volta che voleva ritardare al massimo l’eiaculazione. Pensava ai casi di omicidio, ai corpi all’obitorio o sulle scene del crimine. Pensò allo scheletro del Ciaramolin, e al maresciallo Melis: delitto di mafia, concluse fra se’. Non era un caso che potesse ritardare molto. Uno scheletro, paradossalmente, fa meno impressione, dato che colloca la morte lontana nel tempo. Ma, se fosse stato necessario, aveva tutto un repertorio, di scene orripilanti da lui viste. Dalle gole tagliate con tutto il sangue riverso sul pavimento, a corpi accoltellati al ventre, con gli intestini di fuori. In questo ultimo caso, era il ricordo dell’odore, che faceva più impressione. Questo ricordo, andava usato con parsimonia, perché esisteva il rischio reale, di deludere Giuliana, sul più bello.
Giuliana si teneva ad un matterello da cucina, legato ad un pareo, che pendeva dalla trave sopra di lei. Ad ogni giro del corpo di lei, che sollevava le gambe lentamente, per passare sopra il corpo di Emanuele, il pareo si caricava torcendosi come una molla ad elastico. Emanuele era estasiato dalla vista del sesso di lei alternata alle sue natiche, dove il proprio sesso spariva all’interno di lei e, se non avesse pensato ai “suoi” cadaveri, sarebbe già venuto. Doveva trattenersi ancora. Fino a che lei avesse ritenuto che il pareo-molla, era carico abbastanza da restituire a ritroso i giri di carica. Giuliana sollevò entrambe le ginocchia verso il petto, e cominciò a girare in senso opposto, dapprima lentamente, accelerando, spinta dalla carica del pareo arrotolato come un lenzuolo che si voglia strizzare a mano torcendolo, e poi decelerando nuovamente, finché la “molla” fu scarica. Vennero quasi contemporaneamente, nella fase di rotazione veloce, come da copione.

* * *

– Maresciallo, sono arrivati i reperti del R.I.S. per il caso dello scheletro.
Procopio gli porse la grossa busta gialla con l’intestazione del R.I.S. di Parma, dall’altro lato della scrivania.
– Grazie Procopio. Vai pure. Chiudi la porta mentre esci.
– Comandi, maresciallo.
Voleva rimanere solo, per concentrarsi meglio durante la lettura dei referti. Aprì la busta.
Insieme alle schede di analisi del DNA e alla descrizione dei metodi usati per stabilire l’epoca della morte, che risaliva a dieci anni prima, c’era un documento di due pagine, che sintetizzava i risultati, a firma del tenente Balzano e dei marescialli che avevano effettuato le analisi. In basso la firma del Colonnello Comandante del nucleo. La lettera era indirizzata a lui e per conoscenza al capitano Palmieri , e al comandante la stazione di Carabinieri di Chivasso. Scorse rapidamente la lettera per individuare il motivo del coinvolgimento del collega, anche se ne intuiva la ragione. Il morto era stato individuato. Si trattava di un uomo di trentacinque anni, la cui moglie aveva denunciato la scomparsa dieci anni prima, ed aveva fornito pettine e spazzolino da denti per il DNA, come si usa in questi casi.
Infine c’erano le analisi del ciondolo trovato. Nessuna impronta. Come già aveva anticipato a naso il tenente Balzano, il ciondolo era costituito in gran parte di resina sintetica, frammista a trucioli metallici vari, alluminio, bronzo, ferro, probabilmente residui di lavorazioni a macchine utensili. All’interno vi era un quarzo di forma allungata e una comune clips, la quale aveva un anello sporgente che serviva da anello per il laccio o la catenella alla quale appendere il ciondolo per indossarlo. La parte esterna del ciondolo era stata lavorata con tela smeriglio, probabilmente con una piccola smerigliatrice a disco. Un lavoro estremamente artigianale, eseguito da un dilettante dei lavori manuali, che non sembrava essersi curato del lato estetico del ciondolo, il quale non era simmetrico. Non era nemmeno bello. La resina grigia non era esattamente bella da vedersi. Sembrava piuttosto che tutto l’insieme avesse una qualche funzione pratica, oppure esoterica, data l’insolita mescolanza di materiali così disparati.
Il maresciallo ci pensò un po’ su, dopodichè chiamò Procopio, affinché telefonasse al collega di Chivasso.
– Pronto, sono il maresciallo Melis, di Paesana. La chiamo per sapere se ha già ricevuto la documentazione relativa al ritrovamento del cadavere di un suo p…, di quell’uomo di Chivasso…
– Buon giorno, maresciallo. Sono il maresciallo Cicognara. Sì, ho ricevuto la busta proprio stamattina.
– Io volevo chiederle, se è d’accordo, se posso essere presente, quando andrà a comunicare la notizia alla famiglia della vittima. Quando pensa di andarci?
– Innanzitutto, sì, sono d’accordo. Sa, non è mai piacevole in questi casi. Se siamo in due, mi sentirei meglio. Anche se, nel caso specifico…insomma, sono passati dieci anni, immagino che la signora si sarà ormai “consolata”. Io pensavo di andarci oggi stesso, se ce la fa. L’uomo ha…aveva una moglie ed un figlio, a quanto mi risulta. I genitori, se sono viventi, non sono qui.
– D’accordo allora. Sarò da lei nel primo pomeriggio. Grazie di tutto, maresciallo.
– Si immagini. Grazie a lei. A presto.

* * *

La sera successiva, alla stessa ora della sera precedente, tornò nel parcheggio del centro commerciale. Questa volta cercò subito l’auto grigia dell’uomo, e parcheggiò nelle vicinanze. Attese. Pensò che se avesse avuto l’abitudine di fumare, il tempo sarebbe magari passato più in fretta. Era una idea stupida. Il fumo fa male. Ricordava quando fumava da giovane. Aveva sempre tosse ed i bronchi pieni di catarro. Aveva fumato fino alla nascita della prima figlia, dopodichè aveva smesso, di colpo. Se perseverare in una abitudine poco igienica era stupido, far subire a chi gli stava intorno, il fumo passivo era folle. Soprattutto ai bambini.
Ricordò come se fosse il giorno avanti, la sua prima sigaretta. Si era lasciato tentare da alcuni compagni di classe, durante l’intervallo del pranzo. Era stato malissimo. Si sentiva come ubriaco, drogato, in trance. E quel che fu peggio, al rientro pomeridiano, avevano un tema in classe. Lui che non aveva avuto mai, in tutta la vita, problemi a scrivere, si era trovato senza idee. Aveva fatto un pessimo tema, raccontando in prima persona la trama di un film, visto di recente: La calda notte dell’ispettore Tibbs. Una figuraccia. Il professor Pautasso, di lettere, aveva visto il film pure lui. Aveva commentato che, il film con Sidney Poitiers, era stato raccontato malissimo. C’era rimasto davvero male, lui che l’anno prima, con un tema per La giornata europea della scuola, aveva vinto un viaggio premio di dieci giorni, nelle principali città europee, sedi dei vari nascenti organi dell’unione europea: Bruxelles, Lussemburgo, Strasburgo. Lì era stato facile, era bastata un poco di retorica sulla auspicabilità, non soltanto di una unione europea, ma addirittura di una futuribile unione mondiale. Adesso sapeva perché, quella volta era stato premiato. Con il senno della maturità, ci sarebbe andato più cauto. Adesso sapeva chi, stava cospirando da millenni forse, per giungere al mundialismo che ormai, a meno di un miracolo, era alle porte, nel futuro prossimo dell’umanità intera, ignara.
“Poteva fare di meglio”, il commento del professore, al tema su Tibbs. Cinque meno meno, il voto.
Eppure aveva continuato a fumare per quindici anni, o forse più. Aveva pensato, e in questo aveva ragione, che solo la prima volta si stava male. Fumare dava un tono maggiore, come di chi la sa lunga, sa ciò che vuole. I modelli adulti disponibili, suo padre compreso, il professor Putasso stesso, fumavano tutti. Pareva un passo necessario per diventare uomo. Era come se, avere l’identità del fumatore, fosse un passo avanti rispetto al non averla. Quando si è giovani si è stupidi per davvero.1
L’uomo arrivò un quarto d’ora dopo. Salì in auto, si accese una sigaretta. Mise in moto e si avviò.
Attese qualche secondo e fece avviamento anche lui. Dagli altoparlanti dell’auto, la musica iniziale del Rigoletto, di Verdi, si riversò allegra. L’uomo sorrise fra se’, come se la cosa avesse un aspetto buffo, pertinente. Conosceva bene quel melodramma. Mentre seguiva da lontano l’auto grigio chiara, che dopo un paio di chilometri infilò la rampa della tangenziale, scegliendo poi la direzione nord, Frejus, Milano – Aosta, ricordò la prima volta che aveva visto l’opera.
Era all’inizio di questa sua nuova passione musicale. Avevano trovato una baby sitter per la primogenita per la serata, ed erano andati a Savigliano, dove, in un cinema parrocchiale era in programma l’opera. A quei tempi conosceva soltanto l’Aida. Possedeva il disco della Deutch Grammophone in una versione con Placido Domingo. Se gli fosse piaciuta, avrebbe comprato anche quello. Siccome non conosceva la storia, chiese ad un amico, mentre entravano nel teatro, se sapeva che genere fosse. L’amico raccontò brevemente la trama. Nell’atrio vendevano i libretti. Ne comperò uno per poter seguire le battute. Fu magnifico, proprio perché era una cosa alla buona. Si trovava praticamente nelle prime file, alle spalle dell’orchestra, che si era arrangiata fra il palco e le prime file di sedie, di legno, come erano a quei tempi in molti cinema parrocchiali. Il direttore d’orchestra, un anziano sull’ottantina, oltre a dirigere, suggeriva le battute ai cantanti. Pensò che occorresse avere una mente davvero eccezionale, per poter fare così tante cose insieme, e farle bene. Giudicò che quella musica e l’argomento del melodramma, arrivasse direttamente al cuore, senza passare per la mente. Immediata. Passionale. Commovente. Naturalmente aveva poi comperato il disco.
Stessa casa discografica. Stesso Domingo, nella parte del duca di Mantova. Piero Cappuccilli, Rigoletto.
L’auto svoltò a destra all’uscita di Chivasso. Mise la freccia e lo seguì, prudentemente da lontano. Dopo una decina di minuti, l’auto grigia parcheggiò davanti ad una villetta, di un gruppo di case tutte uguali a due piani. Proseguì lentamente per non insospettire l’uomo che stava ora aprendo il portoncino di una delle case. Mentalmente prese nota del numero, sedici. Parcheggiò cento metri più avanti ed attese. Ora sapeva dove abitava, e, tra poco, forse, avrebbe avuto un nome e cognome, per quell’essere spregevole che picchiava sua figlia e l’aveva condotta all’uso di cocaina.
Gli vennero quasi le lacrime agli occhi, al pensiero della figlia. Aveva vissuto per i figli. Il suo pensiero fisso, per tutto il tratto di vita condiviso con loro, che i figli fossero la cosa più importante di tutte. Egli non contava nulla. Aveva fatto tutto il possibile per farli studiare, arrabbiandosi quando erano recalcitranti o distratti dallo studio, presi da altre smanie giovanili.
Aveva cercato di far comprendere loro, che nel mondo mutevole esterno, nei capricci della sorte, o di chi comanda nelle società umane, avrebbero potuto succedere tragedie inimmaginabili. Guerre, recessioni economiche erano drammi già più volte rappresentati, in cui, la gente come noi, in balia di questi eventi, avrebbe potuto perdere tutto: denaro, casa, lavoro. Ma nessuno avrebbe potuto toglierci quello che sappiamo. Era per questo motivo che era necessario studiare per imparare. Studiare, come avrebbero detto i nativi americani, “come sul sentiero di guerra”. Con accanimento.
Molte persone fanno fare ai figli un sacco di attività sportiva, con allenamenti degni di atleti professionisti, con la convinzione di farne davvero degli atleti. Lui pensava che questo impedisse a quei bambini, di fare i bambini. L’infanzia è una stagione necessaria. Poiché non è pensabile eliminare lo studio, e nemmeno il tempo libero nel quale dare sfogo alla fantasia e al gioco libero, non si era mai nemmeno sognato di condurre i suoi figli sulla strada di qualche agonismo stressante. Ma sullo studio era stato irremovibile. E, per una buona percentuale c’era riuscito.
Passata una mezz’ora, scese dall’auto e si avviò a piedi verso la villetta dove era sparito l’uomo. Udì un cane abbaiare lontano. La strada era deserta, data l’ora. Percorse il marciapiedi dal lato dell’ingresso della casa. Passò accanto a dei maleodoranti cassonetti dei rifiuti.
Il problema dei rifiuti umani lo faceva sempre incollerire. Campagne di stampa ad hoc, puntavano alla strategia di far sentire gli utenti, i cittadini, in colpa per “produrre” rifiuti, i quali diventavano poi un problema gigantesco, difficile da risolvere, una catastrofe ecologica. C’erano illustri menti di sinistra, totalmente concentrate su questo problema, convinti che “creare una coscienza ecologica” nelle persone fosse la loro missione. Predicavano che occorreva fare la raccolta differenziata, che era inevitabile che i costi di raccolta lievitassero. Ma lui era convinto che non fossero i cittadini a “produrre” rifiuti, ma le esigenze della grande distribuzione, della globalizzazione. I cittadini se li trovavano in mano senza volerli, tutti questi rifiuti. Qualsiasi cosa si acquistasse, dal cibo ai prodotti tecnologici, ci si trovava in possesso di un volume di imballi, spesso di materiale plastico, superiore al prodotto che si intendeva acquistare. A chi giovava questo stato di cose? Perché così tanta plastica?
La cosa più strana, è che nel rapporto economico, cliente fornitore, nel caso dei rifiuti viene ribaltata ogni logica del vigente sistema economico. Il cliente, colui che paga per un servizio, deve fare materialmente il lavoro, spesso deve possedere un’auto per poter portare egli stesso certi rifiuti speciali, a dei centri di raccolta lontani da casa sua. Ancora, il fornitore dei servizi ad un Comune, stabilisce il costo del servizio stesso, mentre per tutti gli altri servizi viene fatta una gara d’appalto, in cui vince il fornitore che richiede il costo più basso.
Lui ricordava i tempi della sua infanzia, in cui questo problema era praticamente inesistente. In pratica ciò che rimaneva, oltre l’acquisto, o finiva nelle stufe a legna, o finiva nelle buche dell’orto a macerare e produrre humus concimante, se era biologico. Punto. Altro non esisteva. I contenitori dei liquidi erano di vetro e venivano riutilizzati. Le cose, tecnologiche o meno, venivano aggiustate all’infinito. Oggi non si aggiusta più nulla. Non conviene. Una bicicletta col freno rotto, o la gomma bucata, oppure sgonfia, si butta. Se ne compra un’altra, lucente e nuova. La “civiltà” dei consumi. Pensare che i nativi americani avevano previsto questa debolezza della civiltà bianca, tre secoli or sono: “Finiranno sommersi dai rifiuti”. E, a quei tempi non avevano ancora visto nulla del consumismo moderno!
Quando mai, noi cittadini abbiamo chiesto a gran voce che ci dessero l’acqua da bere in bottiglie di plastica? Poi pareva anche che la plastica, derivando dal petrolio, non fosse poi così igienica, come vorrebbero farci credere. A chi giova questo immenso business della plastica, se non ai petrolieri? Basta. Tutti questi ragionamenti lo portavano lontano e si arrabbiava sempre di più. Per il petrolio si erano fatte un sacco di guerre. I cittadini avevano chiesto le guerre?
Addirittura i “dolcificanti dietetici” derivavano dal petrolio, e, a quanto sembrava, producevano morti e malattie gravissime, eppure venivano immessi ovunque, in nome di una visione di corpi snelli, in alternativa allo zucchero. In un epoca in cui, se per fare una crema usavi uova di galline ruspanti, senza timbro sul guscio, potevi finire in galera!
Poi l’acqua non dovrebbe sgorgare già buona dai nostri rubinetti? La si paga carissima anche quella, da quando una legge opportunamente varata, aveva introdotto le S.p.A. private negli acquedotti municipalizzati. Cosa o chi c’è, quali interessi, dietro ad un modo così in sfacelo?
Scacciò quei pensieri che lo facevano imbestialire. Era arrivato al numero sedici. Si guardò intorno e non vide nessuno. Calò gli occhiali da lettura che teneva sulla testa, e lesse i nomi sul campanello.
Maccaluso Vincenzo. Daniela Rossetti. Era pure sposato, il pezzo di merda.

* * *

Sostò tutta la notte nella strada. A tratti si era anche appisolato, ma avendo paura che qualcuno lo notasse, si sentiva troppo inquieto per dormire veramente. Il cielo divenne più chiaro ad oriente. Le luci dei lampioni della strada si spensero. Molto più tardi apparve il disco rosso del sole sopra le case. Faceva già caldo, dopo la tregua di frescura notturna. Decise che sarebbe andato a cercare un bar aperto per un caffé ed una brioches. Tanto la strada era un vicolo cieco, e, se qualcuno fosse uscito dalla casa, l’avrebbe visto dalla parte opposta. Gli pareva di ricordare d’avere visto la sera prima l’insegna verde di un caffé, proprio di fronte all’inizio del vicolo delle ville a schiera.
Un uomo sulla trentina stava aprendo il bar , e portando dei tavolini sul marciapiede. Si accomodò all’esterno ed attese. Dopo alcuni minuti il barista venne a domandargli cosa desiderasse.
Dal punto in cui stava, poteva vedere la grossa auto grigia del Maccaluso. Mentre sorbiva il suo caffé l’auto si mosse. L’auto passò davanti al bar e si avviò nella direzione dalla quale erano giunti la sera prima. Evidentemente stava recandosi al lavoro.
Dopo una decina di minuti, l’uomo si alzò, andò a pagare al bancone, e tornò alla sua auto parcheggiata nel vicolo. Si sentiva stanco ed aveva la barba lunga. Ma attese ancora.


* * *

Spostò l’auto più vicino alla casa, all’altezza dei cassonetti dei rifiuti. Da lì poteva tenere d’occhio l’ingresso della casa. Voleva vedere la moglie. Si mise a leggere un piccolo libro che si era portato appresso. Monsieur Ibrahim e i fiori del corano2. Gli sembrava di perdere tempo, se non faceva nulla di manuale e non leggeva.
Nelle sale di attesa dei dentisti, aspettando il suo turno all’ufficio postale oppure in banca, se non aveva con chi conversare, doveva assolutamente leggere. Anche nei piccoli libri come questo, erano nascoste perle di saggezza. Leggere era cercar perle, in un certo qual senso. Per questo motivo, se andava fuori di casa, non dimenticava mai di mettersi in tasca o nella borsa, un libro di “emergenza”.
La donna uscì dal portoncino. Bionda, elegante e bella. Aveva un bambino per mano e nell’altra una borsa dell’immondizia. Si avvicinò ai bidoni e la gettò. Fu allora che vide il livido sullo zigomo di lei, inutilmente mascherato con il fondo tinta, e con un grande paio di occhiali di sole molto scuri. La donna salì con il figlio su una Fiat Panda e si allontanò.
Per quel giorno aveva visto abbastanza. Adesso doveva pensare, per decidere quale soluzione adottare al suo problema. Affrontare l’uomo di petto era impensabile. Troppo grosso, poteva finire male.
Avviò l’auto, contento di poter tornare alla pace del suo paesino in provincia, lasciandosi alle spalle il caos cittadino che da sempre lo inquietava. Aveva la sensazione che gli succhiasse le energie fisiche.
Gli restavano due settimane di vacanza. Ne avrebbe trascorsa anche una a San Bartolomeo.

* * *

Vincenzo uscì tardi, come sempre, ultimo ad andarsene dal lavoro, e salì sulla sua auto per tornarsene a casa. Si sentiva molto stanco quella sera del tardo autunno 2007. Sara aveva rifiutato di incontrarsi con lui quella sera. Avevano litigato, per i soliti motivi. Lui che non si decideva di chiarire con la propria moglie che amava un’altra, lui che era troppo manesco.
Si sentiva depresso. Era tentato di farsi subito un “tiro”, con ciò che restava dell’ultima riserva, ma era senza soldi, e sapeva che, passando il tempo, si sarebbe sentito anche peggio. Meglio conservare quell’ultima opportunità di tirarsi un po’ su, a quando non avrebbe potuto più farne a meno.
Quando arrivò finalmente in casa, trasse un respiro di sollievo. La casa era immersa nel buio. Tutti a letto. Non avrebbe dovuto discutere di alcunché, con nessuno. Un biglietto della moglie sul tavolo in cucina indicava ciò che c’era da scaldare, nel caso avesse voluto cenare. Accese il televisore e sprofondò nella poltrona, con in mano un piatto di pasta al ragù fredda e una birra ghiacciata. Col telecomando passò, avanti e indietro tutti i canali. Niente di interessante. Film lacrimosi di centocinquant’anni prima. grandi fratelli e isole dei famosi. Qualche telenovela e infinite televendite. Quasi in fondo il telepredicatore più famoso del mondo: Benny Hinn.
Finita la pasta e la birra, valutò di andarsene a letto, quando il cellulare emise una sottile ed unica vibrazione. Un messaggio.

* * *

Finalmente giunsero in vista di Chivasso. Al maresciallo Melis, queste puntate nei caotici grandi centri urbani e commerciali, facevano venire malumore. Era talmente abituato ai ritmi più lenti della vallata, che il contrasto strideva, e lo innervosiva. Ma comunque era una cosa che andava fatta. Avrebbe desiderato tornarsene al più presto fra quei monti, che non erano i suoi, ma che gli davano, ormai per l’abitudine di tanti anni di soggiorno, l’idea di “casa”.
Trovarono subito la caserma dei Carabinieri, perché De Ieso ci era già stato un’altra volta. Il cancello elettrico si aprì immediatamente. Il maresciallo Cicognara li attendeva nell’atrio.
Partirono quasi immediatamente con la Fiat Punto dei Carabinieri di Chivasso. Di Ieso rimase nella caserma.
In dieci minuti giunsero alla casa della vedova. Essendo sabato era in casa. Il figlio, ormai tredicenne, era ad una festa di compleanno di una compagna di scuola.
– Dobbiamo comunicarle una cattiva notizia, signora. È stato rinvenuto il cadavere di un uomo, in montagna, morto una decina di anni fa. Il riscontro del DNA indica che era suo marito.
La signora rimase un attimo stupita, ma non più di tanto. Qualche lacrima affiorò dai suoi occhi, ma quasi subito si tranquillizzò.
– In un certo senso, me lo aspettavo. Una persona non può scomparire nel nulla, per così tanto tempo, rimanendo in vita. Ci sono troppi strumenti tecnologici, telecamere. Non ho creduto mai, nemmeno per un attimo che fosse andato altrove. Poi teneva abbastanza al figlio. Credo che avrebbe voluto vederlo di tanto in tanto, almeno.
– Lei pensa che suo marito potesse avere dei nemici? Qualcuno che potesse avere un movente per ucciderlo?
– Mio marito non era esattamente un tipo che si confidava, sui fatti suoi, la sua vita fuori di casa. Di tutto l’universo di ciò che apparteneva alla sfera del suo lavoro, io non sapevo quasi nulla, a parte la sede dove lavorava. Ne parlava solo per vaghi accenni, tipo “farò tardi, una riunione”, “una giornata pesante, un sacco di rogne”, cose del genere, nulla di più.
– E al di fuori del lavoro, aveva altri interessi, hobby, sport?
– Sì, prima che passasse di grado, faceva regolarmente Triathlon, si allenava quasi tutti i giorni, piscina, bicicletta, corsa, partecipava a delle gare. Qualche volta sono andata anche io ad assistere, ma non sempre. Io non sono molto appassionata di sport. Preferisco i libri. Dopo, col nuovo lavoro, avendo maggiori responsabilità, aveva molto meno tempo libero e si allenava di meno, non partecipava più alle gare.
– Mi permetta una domanda un po’…diciamo indiscreta. –intervenne questa volta il maresciallo Melis- Ovviamente, può anche non rispondere, trattandosi di cosa personale. Lei si è rifatta una vita, dopo la scomparsa di suo marito? Voglio dire, si è…ha un nuovo compagno?
– Non ho nessuna difficoltà a risponderle, maresciallo. Più che rifarmi una vita, me ne sono fatta una ragione. In un altro senso, la mia vita, “dopo”, è stata molto diversa, migliore. Riguardo ad un nuovo compagno, da prendermi in casa, no. La mia vita è mio…nostro figlio. Poi, era…è stato molto difficile, sia con mio marito, che dopo, per motivi diversi. Mio marito era un po’ manesco, se mi capisce cosa intendo. Da questo punto di vista, la mia vita è migliorata. Dal punto di vista economico, dopo, è stata dura, con il solo mio stipendio di insegnante. Per fortuna, essendo figlia unica, mi hanno molto aiutato i miei. Ancora adesso lo fanno. Non navighiamo nell’oro, ma tiriamo avanti. Allora vivevo in una casa col mutuo da pagare. Non potevo venderla, perché serviva la firma di mio marito. Ma ora, le rate sono tutte pagate…insomma, non mi posso lamentare. Non sarei certo andata a “Chi l’ha visto”, data la situazione con mio marito, come le ho spiegato. Quando ne ho denunciata la scomparsa, come mi fu consigliato, mi è stato chiesto di avere reperti dai quali fosse possibile trarre il DNA. Consegnai il rasoio elettrico, spazzolino da denti.
– Un’ultima domanda: suo marito aveva altri parenti?
– Mio marito era orfano. I suoi genitori sono morti quando eravamo ancora da sposare. Aveva un fratello, ma non lo vedevamo spesso, perché vive in Sicilia. Dopo la sua scomparsa, ci siamo sentiti un paio di volte, all’inizio. Poi i rapporti sono cessati del tutto. Anche loro due, non erano molto intimi, molto attaccati l’uno all’altro.
Come è morto?
– Non lo sappiamo. Dopo così tanto tempo, non ne restano che le ossa, e, su queste non si rilevano segni che possono indicare una possibile causa del decesso.

– Che cosa ne pensa?
Esordì il maresciallo Cicognara, non appena furono seduti in auto.
– Penso che la signora avrebbe avuto dei validi motivi per ammazzarlo. O farlo ammazzare. È stata lei stessa a fornirci un probabile movente. Ma questo, in un certo senso la scagiona, dato che nessun assassino, o mandante, per quanto stupido, e la signora non lo è, ha interesse a fornire un movente agli investigatori. Non le pare?
– Sono completamente d’accordo con…possiamo darci del tu? Mi sentirei più a mio agio, visto che siamo pari grado ed abbiamo pressappoco la stessa età.
– D’accordo. Io mi chiamo Egidio. Ho cinquantanove anni.
– Aurelio. Cinquantotto. Come dicevo…ci sarebbe anche la questione degli occhi della signora. Non mi fraintendere, non mi sono fatto ammaliare dai suoi begli occhi verdi. È una questione intuitiva. Di solito non mi sbaglio, anche se in teoria sarebbe possibile, ma una donna con quegli occhi, secondo me non ammazza, e non fa ammazzare nessuno. Ma qui lo dico e qui lo nego.
Egidio rise, dicendo che su quello era pienamente d’accordo.
– Anche io procedo spesso in questo modo, per via intuitiva. È vero che si corre il rischio di sbagliarsi, ma si risparmia tempo, scartando piste inutili, vicoli ciechi, e si è subito pronti a seguire tracce più promettenti. Ma questo non diciamolo ai nostri superiori. Anche perché, con le donne, io la mano sul fuoco non la metterei mai.
Fu la volta del maresciallo Cicognara di farsi la sua risata.
– Piuttosto cercherei di saperne di più sul passato del morto e sul fratello. Essendo un tuo “parrocchiano”, te ne occupi tu?
– Certamente. Appena ho qualcosa ti faccio sapere.
Disse Cicognara sorridendo, assimilando la metafora ecclesiastica.

* * *

– Maresciallo, come vanno le indagini per il caso del Ciaramolin?
– Siamo ad un punto morto, dottor Caruso. Sappiamo il nome della vittima. Non la causa del decesso. Nessun indizio sul probabile uccisore. Niente. Stiamo seguendo, in collaborazione con il maresciallo Cicognara di Chivasso, le piste di routine su famigliari e conoscenti. Per ora nulla lega l’uomo al luogo del ritrovamento.
– Dia retta a me, maresciallo: è un delitto di mafia.
– Dottore, mi conceda ancora un poco di tempo prima di archiviare il caso. Vorrei essere certo di poter escludere qualsiasi altra ipotesi alternativa…anche se, per il momento, non abbiamo nessuna pista davvero valida.
– Va bene! Faccia quello che crede meglio. Lei è fin troppo scrupoloso, e sono sicuro che in mano sua l’indagine è in buone mani. Tuttavia, sono convinto, che prima o dopo arriverà alla mia stessa conclusione. Io ho un sesto senso per queste faccende. La saluto maresciallo.
Melis posò la cornetta del telefono e rimase pensieroso. Sesto senso. Il senso della presunzione. Pensò il maresciallo. Un dilettante, altrochè mafia. Un dilettante estremamente fortunato. Nessuna traccia. Soltanto un piccolo ciondolo.
Pensò all’auto della vittima. Ritrovata dopo una segnalazione di qualche dipendente del centro commerciale, che aveva notato che quell’auto, ormai carica di polvere, sostava da mesi nello stesso parcheggio. Il ritrovamento circa un anno dopo la scomparsa. Era sempre stata lì. Chiusa a chiave, come se la vittima si fosse allontanato con qualcun altro, oppure…fosse stata riportata. Quale nascondiglio migliore, per un auto, che un parcheggio sempre affollato?
Era mezzogiorno passato. Melis decise di andare a cambiarsi, mettersi anonimi abiti “borghesi”, mangiare qualcosa e farsi una scarpinata sul luogo del ritrovamento. Più per pensare in solitudine, che per cercare altri indizi.

* * *

Michele Canuto si stiracchiò nel suo studio. Aveva scritto tutta la mattina, come aveva fatto nei giorni precedenti. Il manoscritto era diventato voluminoso. Sarebbe poi stato necessario un lavoro di “ripulitura”, perché aveva scritto di getto, sotto la spinta delle idee, che gli si affollavano nella mente, in qualsiasi ora del giorno e della notte, qualsiasi cosa stesse facendo. Una sorta di frenesia letteraria, che lo costringeva a scrivere ad ogni costo, con priorità assoluta, rispetto a qualsiasi altra attività. Raramente gli era successo prima, nella sua vita.
Rilesse le ultime frasi che aveva scritto. Le trovò di suo gradimento. Come un rituale, richiuse tutte le carte nello scrittoio, a chiave, e decise che per quel giorno poteva bastare. Si sarebbe presa una pausa. Gli faceva male il polso destro, a forza di scrivere a mano, esercizio che non si poteva definire “faticoso”, ma alla lunga, alla sua età, poteva essere considerato pesante. Per la sua mano, almeno.
Udì sua moglie chiamarlo da sotto per il pranzo.
Scese in cucina e pranzarono, quasi in silenzio, col sottofondo del telegiornale, che lui si rifiutava, da molti anni di seguire. Che informazione è quella che ti propina notizie di cronaca perlopiù, notizie dal marcato tono emotivo. La madre che in un impeto di rabbia, o sotto l’effetto degli psicofarmaci, prescritti con estrema leggerezza, come pane quotidiano, uccide il figlioletto. Il figlio adulto che, anche lui magari sotto qualche effetto dopante, ammazza gli anziani genitori per prenderne i soldi. Nei tribunali finiscono poi sempre esseri umani confusi e disorientati, mai produttori di psicofarmaci o i loro inventori, mai medici che prescrivono sostanze stupefacenti. E queste “notizie” emotive servono a nascondere i problemi veri, le notizie che non sentiremo mai: chi ha interesse a produrre armi ed a far scoppiare guerre; chi ha interesse a mantenerci schiavi degli obsoleti, inquinanti motori endotermici, schiavi della plastica e di tutti gli altri derivati petroliferi, quando esisterebbero tecnologie che risolverebbero gran parte dei problemi attuali dell’umanità, compreso quello ecologico; chi ha interesse a mantenerci “drogati”, fin da bambini, inventando nuove malattie, come la sindrome ADHD, bambini irrequieti, da trattare con altri potenti psicofarmaci; bambini che diventeranno adulti disinformati della realtà quotidiana, complici i mezzi d’informazione, controllabili mentalmente con i numerosi “luoghi comuni” che si riversano a fiumi dai televisori?
La prossima rivoluzione che dovremo fare sarà contro i luoghi comuni, contro l'ignoranza e la superstizione: non c'è bisogno di uccidere i nostri nemici. Prima o dopo morranno da soli. Dobbiamo solo mettere in luce ciò che oggi è nascosto, affinché tutti lo vedano, ne capiscano le trame, le evitino e le combattano.

La sua mente, continuava a riportarlo al manoscritto, a nuove frasi che si rigirava fino a che non avesse potuto scaricarle sulla carta. La sua mente instancabile, alla quale la sua mano non riusciva a stare dietro.
Disse alla moglie che sarebbe andato a fare una passeggiata su in montagna e che sarebbe tornato per cena. Indossati gli scarponi e fatta provvista di acqua, che mise nello zaino, assieme ad una giacca impermeabile, la macchina fotografica digitale, e l’immancabile libro, uscì a piedi e si incamminò. La giornata era magnifica. Solo in autunno si hanno quelle limpide giornate di alta pressione, nelle quali il cielo diventa di un azzurro immacolato, aria pulita dai venti in quota. I colori in natura, come del resto anche in primavera, offrono dei contrasti nuovi, dovuti alla sensazione di cambiamento rispetto a ciò che erano prima. Le foglie dei castagni assumevano colorazioni dal giallo al marrone chiaro, che spiccavano sui prati ancora verdi. Più in alto, gli abeti, sempre dello stesso verde, contrastavano maggiormente con gli altri alberi più sfortunati, costretti alla muta delle foglie, anche grazie allo scurirsi progressivo della brughiera sottostante. Da certe prospettive, essa sembrava erba bruciata dal fuoco, un fuoco che si chiama freddo. Cadendo e diradandosi, permettevano la vista di cose lontane, che in estate nascondevano. I tetti di pietra delle case di una borgata, la chiesetta che si rivela allo sguardo, in una curva del sentiero dove un mese prima vedevi soltanto foglie verdi. Si sentiva in ottima forma, grazie all’aria che, più pulita, sembrava tonificare, ad ogni nuovo respiro, colpendo le narici con gli odori dell’autunno. Persino l’odore del letame bovino, qui in montagna sapeva di buono, a differenza dello stesso sparso nei campi in pianura, forse per l’alimentazione più naturale degli stessi. Presto le mandrie all’alpeggio, sarebbero scese più a valle, sospinte dall’arrivo dei primi freddi dell’inverno ormai imminente.
Attraversò Calcinere e poi Ferrere, senza quasi incontrare anima viva. Anche se sapeva che molte paia di occhi, magari dietro una finestra socchiusa, nell’ombra di un uscio, registravano e seguivano immancabilmente il passaggio di qualcuno, fosse questi a piedi o in auto. Era inevitabile, in borgate poco affollate, che qualcuno ti notasse. È solo nelle grandi metropoli che puoi passare inosservato in mezzo alla folla, e nessuno ti nota.
Ogni tanto si fermava a bere un sorso d’acqua. Si era abituato da molti anni a costringersi a bere molta acqua, perché sapeva che il suo organismo ne aveva necessità. Molti anziani, e lui era entrato ormai di buon diritto nella categoria, avendo superato i sessanta, tendevano ad essere costantemente disidratati. Non avendo abitudine a bere acqua, avevano perso il senso dello stimolo della sete. Pensare che, almeno in questo, la televisione, soprattutto in estate, consigliava tutti di bere molta acqua. Il guaio era che per chi non era abituato a fornire all’organismo l’acqua necessaria, il traguardo di una bottiglietta di un terzo di litro, pareva fosse già la realizzazione del traguardo di “bere molto”. Per molti versi, si considerava un “salutista”. Non è assolutamente possibile, rimanere in buona salute, con uno stile di vita malsano. Molti pensavano, non per colpa loro, ma a causa di una propaganda martellante ed idiota, che per ogni problema di salute che insorgesse, esistesse un rimedio chimico, farmacologico, che l’avrebbe risolto. Mentre gli accorgimenti relativi allo stile di vita, i più credevano fossero opzionali, utili, ma non rilevanti. Michele invece pensava che le malattie non piovessero dal cielo, sul capo degli sfortunati, ma derivassero proprio dalla non osservanza delle più elementari regole igieniche. Tanta acqua, molto movimento, sole a volontà, e, possibilmente pochi cibi, genuini e possibilmente crudi.
Non che non amasse il bicchiere di vino, certi piatti cotti, insaccati o dolci, ma li considerava peccati a cui cedere di rado, non sane abitudini alimentari. Prima di ricorrere a medici e farmaci, credeva andasse rivisto lo stile di vita, magari iniziando con un piccolo digiuno.
Ripensò a suo padre, alla sua lunga malattia, che l’aveva portato all’inabilità prima, ed alla morte poi, dopo lunga sofferenza. Ripensò a quante volte gli aveva esposto senza successo le sue credenze. Sorrise all’idea malsana di suo padre, che “il sole fa male”, e di come questo l’avesse portato alla progressiva perdita dell’energia per muoversi. Ricordò quelle rare volte che l’aveva portato, negli ultimi tempi a spasso con la carrozzella per invalidi, e di come volesse sempre essere parcheggiato all’ombra. Chissà dove aveva maturato questa convinzione malsana? È un fatto noto alla scienza che l’assenza di luce sminuisce le forze. Il ritratto ideale delle persone in salute è quello di una persona colorita dal sole, abbronzata ed atletica. Senza sole la vita sul pianeta non esisterebbe!
Fu inevitabile ricordare il giorno in cui suo padre se ne andò. Stranamente, data l’età di Michele, suo padre fu il primo alla cui morte fu presente. Sua madre l’aveva chiamato, come altre innumerevoli volte, nel corso degli anni. Ma quella volta, non gli passò nemmeno per la mente che si trattasse di un ennesimo falso allarme. Sapeva che era ora. Aveva sempre pensato che con suo padre fosse in contatto “mentalmente”, una sorta di contatto telepatico. Una specie di empatia. Quando arrivò, suo padre era come in coma. Respirava a fatica, lentamente. Le gambe erano già fredde, come se avesse cominciato a morire dal basso. Gli disse all’orecchio di essere arrivato, di stare tranquillo, e lui, come se l’avesse atteso per andarsene, dopo pochi minuti, e qualche faticoso respiro, morì, senza più aprire gli occhi. Credeva che la morte fosse la naturale conclusione della vita. Suo padre aveva potuto andarsene nel suo letto. Era preparato a questo, data la lunga malattia, durata anni. Voleva mantenersi sereno, affinché lui potesse andarsene in pace. Se c’era anche soltanto una remota possibilità, che esistesse un’anima immortale, non voleva turbarla con pianti e disperazione dei presenti. Pensava che i pianti e la disperazione avrebbero potuto distrarre il morente dalla coscienza di “vivere” serenamente la propria morte, facendo ciò che andava fatto.
Poi vi furono altre morti, alle quali, non sempre assisté serenamente.

* * *

Dopo aver pranzato al ristorante di Calcinere, l’Alpino, il maresciallo Melis si avviò lentamente, a piedi, salendo, per l’ennesima volta sulla montagna. Era una splendida giornata d’autunno e Melis ne assaporava i profumi, portati dal vento. In certi tratti le foglie dei castagni, ammucchiate assieme ai ricci, scricchiolavano sotto le sue scarpe. A volte notava dei piccoli mulinelli di vento che sollevavano le foglie stesse, non lontano da lui. Si diceva che fossero le anime dei defunti a dare vita a questi movimenti improvvisi.
In quella stagione la montagna aveva colori splendidi. In alto i corvi si lasciavano sostenere dal vento, senza sbattere le ali.
Quando giunse all’altezza delle betulle, notò una quantità di Amanita Falloide, dal tipico cappello rosso, punteggiato di bianco. Un fungo velenoso, molto simile ad una specie commestibile, che segna la fine della stagione dei funghi. Melis amava andare in montagna a camminare e pensare, ma non andare per funghi. Cercare qualcosa, lo distraeva dai suoi pensieri, e gli impediva di godersi le bellezze della natura.
Si sentiva bene, mentre saliva, ed il cuore pompava vigoroso nel petto. Non aveva il fiatone, come molti escursionisti improvvisati. Era abituato a quelle salite, che affrontava, inizialmente con lentezza, e poi, via via con maggior energia. Era la discesa che poteva fiaccare le giunture, ma la salita era per il fisico allenato di Egidio, una semplice passeggiata.
Man mano che saliva, sentiva la tristezza in agguato. Il Ciaramolin era uno dei posti tabù, dove era stato con Elisa. Pensò che appena fosse stato in pensione, se ne sarebbe andato immediatamente in Sardegna, dimenticando per sempre Elisa. Si sbagliava.
Quando fu sul pianoro, cominciò a pensare al suo caso. Non aveva in mano nulla. Il morto non era uno stinco di santo, e, pensava, in fondo era meglio che fosse morto. Per la moglie almeno. Forse anche per il figlio. Nei libri di psicologia che aveva letto, aveva capito che un figlio “picchiato” dal padre, quasi sempre diventa un padre violento, che picchia figli e moglie. Una catena senza fine, interrotta grazie alla morte.
Se non avesse trovato nulla di nuovo, avrebbe dato un contentino al procuratore Caruso. E poi via. Esterzili.

– Bel paesaggio vero?
Melis si voltò al suono della voce e si trovò di fronte ad un uomo alto, magro, con baffi e capelli che un tempo furono castano chiaro, ora ingrigiti, lo sguardo schietto. Vestito con jeans e camicia aperta, dello stesso tipo, sotto la quale spiccava una maglietta bianca. Aveva uno zaino militare. Trasalì, perché non lo aveva sentito arrivare, immerso nei suoi pensieri, che lo sconosciuto aveva interrotto. Reagì, bruscamente, d’istinto e da sbirro.
– Chi è lei? Che ci fa qui?
– Mi scusi, non volevo disturbarla.
E fece per allontanarsi, sorpreso dalla reazione dell’uomo sulla roccia.
– No, mi scusi lei. Ero sopra pensiero e non l’ho sentita arrivare. Sono stato brusco e maleducato. Permetta che mi presenti. Sono il maresciallo Melis, dei Carabinieri di Paesana. Ha ragione. Da qua si gode di una vista stupenda.
– Michele Canuto. Abito a Calcinere, da quando sono in pensione. Mi pareva un volto noto il suo. Lei deve essere qui per…il morto che è stato trovato qui.
– Sì e no. Vengo spesso quassù. Soprattutto quando voglio riflettere.
– Anche io faccio lo stesso. Vengo qui da talmente tanto tempo, che non ricordo quando è stata la prima volta. Ogni volta che ci vengo è come se fosse la prima. Si gode di una pace impagabile qui.
A chi lo dici, pensò Egidio, rivedendo con la mente Elisa, distesa nuda su una coperta stesa sopra la roccia.
Un campanellino, vago e lontano, suonò nella mente dello sbirro Melis. Uno che conosce bene il posto. Troppo poco. L’uomo si chinò ad appoggiare lo zaino sulla roccia e, dalla maglietta bianca fuoriuscì un ciondolo ed una piccola chiave, attaccate ad un laccio di cuoio. Lo sbirro, ormai risvegliato, iniziò ad agire indipendentemente dalla volontà del maresciallo Melis.
– Curioso il suo ciondolo. Posso vederlo?
Al maresciallo parve che il Canuto, per un attimo, quasi impercettibilmente, avesse cambiato colore ed espressione, prima di slacciarsi il ciondolo e porgerglielo, per permettergli di vederlo meglio.
– L’ho comprato su internet. È una questione un poco complessa da spiegare. In pratica sarebbe un catalizzatore di energia “buona”. Deriva dagli studi di Wilhelm Reich, uno psicologo allievo di Sigmund Freud. Ha scritto diversi libri. I suoi studi sono andati al di là della psicologia, nella direzione di trovare dei corrispettivi “fisici” alle energie “psichiche” postulate dal maestro, col quale si è poi trovato in disaccordo, su molti punti della teoria psicoanalitica ortodossa. Soprattutto sulla “cosiddetta” pulsione di morte, postulata da Freud. Come molti altri allievi di Freud, del resto. Reich , non credeva che gli esseri viventi avessero questa spinta naturale verso la morte. Reich sarebbe, se vogliamo, il padre del filone “psicosomatico”. I principali risultati di questo approccio si trovano in Analisi del carattere. Ma, riguardo alla questione energetica, La funzione dell’orgasmo e Biopatia del cancro, sono particolarmente rilevanti. Uno dei risultati dei suoi studi energetici, fu “l’acchiappa nuvole”, descritto in un articolo, che si può trovare sul sito di Orgone Italia, dove appunto vendono questi ciondoli. Per sintetizzare al massimo, il cloud buster, ed il ciondolo, sono costruiti con il medesimo accostamento di materiali organici e materiali metallici. Come lei vede, il ciondolo è di materiale organico, resina, per la precisione, ed, essendo questo tipo di resina trasparente, può notare come vi siano all’interno trucioli metallici ed un piccolo cristallo di quarzo. Non le so spiegare tecnicamente come la cosa funzioni, ma avendo letto molti libri di Reich, gli ho creduto sulla parola. Il primo modello di acchiappa nuvole, era pericoloso da maneggiare, per via dell’energia non buona, che può scaricarsi sull’operatore. Sul sito internet che le ho indicato, ci sono le istruzioni per costruirne uno sicuro. Il fatto curioso è che il Reich, che era ebreo, per sfuggire ai nazisti, si rifugiò alla fine negli Stati Uniti, dove fu imprigionato, probabilmente a causa dei suoi esperimenti non convenzionali e delle sue scoperte. Morì in carcere negli anni cinquanta e, si mormora, che il frutto delle sue scoperte sia top secret, nelle mani del governo statunitense, che ha voluto imprigionarlo affinché queste cose non si divulgassero. Ma si possono imprigionare le persone, non le loro idee. Almeno spero.

Questa dotta disquisizione ebbe su Melis, un duplice effetto contradditorio. Da un lato provò ammirazione per la persona colta che aveva di fronte. Lo considerava molto simile a se’. Dall’altro, lo sbirro, ebbe la certezza che se qualcuno avesse intrapreso l’idea di costruirsi, “fai da te”, un ciondolo simile a quello che aveva in mano, dello stesso tipo di quello trovato sul luogo del ritrovamento del cadavere, era proprio il Canuto. Questo significava che, se avesse trovato un movente, avrebbe avuto un sospetto, che per di più ammirava.
– Anch’io ho letto un libro di Reich. L’irruzione della morale coercitiva. Molto interessante dal punto di vista sociologico.
Restituì il ciondolo. Il Canuto se lo infilò nuovamente al collo, facendolo passare per la testa.
Guardandosi negli occhi, i due uomini si valutarono reciprocamente molto simili, e, vicendevolmente, provarono rispetto, l’uno per l’altro. Per qualche minuto ancora, conversarono di Reich, di libri e letture, poi si salutarono. Michele salì ancora più in alto sulla strada, mentre il maresciallo Melis, dopo aver sostato ancora qualche minuto sulla roccia, si avviò per scendere a valle.
Se era salito per rilassarsi, Melis, scese più teso di prima. Perlomeno, non aveva pensato troppo ad Elisa, e la sua mente ora, stava correndo in un’altra direzione. Doveva ora indagare discretamente su Michele Canuto. La discrezione era d’obbligo, in quanto non aveva che un vago, intuitivo sospetto, dovuto, forse a delle coincidenze. Ciondolo e conoscenza del luogo. Una parte l’avrebbe fatta di persona. La parte che andava fatta su internet, e, in via ufficiosa, su eventuali precedenti del Canuto, avrebbe potuto essere un ennesimo favore da chiedere all’amico Montanari. Gli avrebbe scritto una lettera privata, l’indomani.

Pensò all’ultimo libro che gli aveva mandato. Un librone di settecento pagine, che aveva quasi completamente “macinato”. Più che leggerlo l’aveva studiato, prendendo appunti sui fatti salienti e annotandone la sostanza e la pagina. Ormai si era fatta una idea chiara, di come funzionasse la nostra società. Era andato anche oltre, con i suoi studi da autodidatta in sociologia e antropologia. I grandi fatti della nostra storia, non succedono per caso. È ridicolo crederlo, eppure è quanto crede la maggior parte delle persone, la cosiddetta “opinione pubblica”. Il punto era proprio quello. Affinché le persone si adeguino al loro ruolo, che è poi quello che impone loro la società, occorre che la percezione degli eventi che accadono, sia casuale, altrimenti gli individui si accorgerebbero di essere manipolati proprio nel loro ambiente più intimo: il loro modo di pensare. Vedere le cose in questo modo, significava vivere nell’essenza stessa dell’umanità, che sarebbe la coscienza di quel che accade, non già come ce la spiegano i media, ma come la percepisce la nostra stessa coscienza, libera da manipolazioni. Il guaio era che pochissimi individui vivevano in questo modo cosciente. Gli altri si limitano ad applicare schemi consueti, per classificare gli avvenimenti nuovi.
Grandi sconvolgimenti epici come la rivoluzione francese, quella bolscevica, le due guerre mondiali, non possono essere accaduti per caso: sono stati progettati e voluti, proprio come i prodotti tecnologici, affinché si svolgessero e concludessero nel modo desiderato. E finanziati. Questo ultimo fatto era cruciale per capire il tutto. Come si può pensare che accada un fatto eclatante come la seconda guerra mondiale, che ha prodotto devastazione ambientale e la morte di cinquanta milioni di esseri umani, la distruzione del vecchio ordine geo politico del pianeta, e la ricostruzione di uno nuovo, totalmente diverso, senza progettazione e finanziamenti?
Questo conduceva al cuore di tutte le scoperte di tanti anni di studi di Melis: chi tira le fila dei burattini, che recitano nel teatrino del mondo? Chi ne scrive la sceneggiatura?
Questo conduceva anche a due temi molto cari al mentore di Melis, l’amico Alfonso: la questione del mondialismo, e la questione del “signoraggio”.
Ora aveva una visione globale molto chiara. Era tutto estremamente semplice. La società plasma gli individui. Chi plasma la società, prendendo a modello degli individui standardizzati, ritenuti ottimali, fra tante differenze individuali possibili? La Mead l’aveva già intuito negli anni trenta. Solo che nessuno aveva mai applicato questo schema alla nostra società. Nessuno, tranne gli individui che l’hanno accuratamente progettata. E l’avevano progettata così bene, tenendo gli attori così all’oscuro della sceneggiatura reale, che a professare queste idee si poteva passare per pazzi paranoici, oppure venire uccisi, come Lincoln o Kennedy.
Avrebbe voluto avere tanta chiarezza mentale anche nel caso del Ciaramolin, per il quale, a differenza del caso mondiale, poteva pur fare qualcosa nel suo piccolo. Anche in quel caso, in fondo, c’era stato sicuramente un progettista, che aveva avuto in mente una sua idea ottimale, del ruolo che spettasse a Vincenzo Maccaluso nel mondo, in relazione alle persone che interagivano con lui. Questo progettista andava scoperto e punito. Forse. Non era più sicuro nemmeno di questo. Se soltanto fosse arrivata la sua stramaledetta pensione!
Se non era più nemmeno sicuro di essere al servizio di uno stato “democratico”, visto che al di sopra dei più alti poteri dello stato stesso, c’era il potere oscuro del danaro, tanto valeva che terminasse il suo servizio. In quelle condizioni, la parola democrazia, cui aveva creduto da giovane, non aveva nessun significato, nel suo paese, nel mondo reale. Solo una parola vuota con la quale i politici d’ogni colore si riempiono inutilmente la bocca.

Il giorno dopo, di buonora, era all’ufficio Anagrafe del comune di Paesana. L’addetta, una signora di cinquant’anni, bionda e secca, dall’aria sempre imbronciata, gli sorrise per un attimo. Melis si era fatto l’idea che nessuno più avesse delle attenzioni per lei, da molto tempo, e che questa fosse la causa della sua eterna aria di scontentezza, dei suoi modi sgarbati contro tutti quelli che andavano da lei per qualche documento. Altera. Paradossalmente, molte persone che hanno un disperato bisogno di affetto, che per questo motivo dovrebbero essere più amabili degli altri, sono spesso le più scorbutiche, quelle che più sanno rendersi odiose. Con lui era abbastanza gentile, perché rappresentava una autorità che riteneva superiore a se’ stessa, e anche perché era scapolo e un bell’uomo. Ma non era il suo tipo. Poi, non aveva nessuna intenzione di impelagarsi con una vogliosa donna sposata, non soddisfatta del marito.
Alla sua richiesta, mentre nell’ufficio eran soli, la donna stampò i dati di Canuto Michele, su un foglio di carta anonima.
– Lei lo conosce?
– Certo, maresciallo. Io ci sono nata a Calcinere e ci vivono ancora i miei genitori, per cui ci vado spesso. Questo signor Michele, ha acquistato la casa una decina di anni fa. Si tratta di una casa molto grande, che ha fatto riattare, un poco alla volta. È molto benvoluto nella borgata. Ne può avere conferma da chiunque chieda. Da quando poi è in pensione, ha organizzato una sorta di circolo culturale per gli anziani della borgata, aperto a tutti. Tiene corsi e conferenze su vari argomenti, dalla psicologia all’informatica, dalla pasticceria alla panificazione. A volte, quando sono qui, partecipano anche le figlie, laureate entrambe. Una sorta di università per la terza età. Ha avuto un discreto successo nella borgata. Una sorta di risveglio culturale.
Melis ringraziò e si avviò alla caserma.
– Procopio, hai sempre quell’auto con i vetri oscurati?
– Signorsì, maresciallo.
– Ho bisogno che me la presti stamattina.
Il carabiniere gli porse le chiavi. Il maresciallo andò ad appostarsi cento metri più avanti della casa di Michele Canuto, quella casa di Calcinere che i vecchi abitanti chiamavano, la scola.
Non dovette attendere molto. Quasi subito il portone si aprì, e ne uscì il Canuto, con una moto enduro, avviandosi verso monte, dopo aver chiuso il portone ed indossato il casco. Aveva uno zaino in spalla, e un bastoncino da sci di traverso sul bagagliaio anteriore, di fronte al manubrio. Senza dubbio partiva per una escursione in montagna. Quell’autunno era una meraviglia, a quello scopo, avendo del tempo libero. Si rammaricò ancora una volta di essere ancora in servizio. Con tanti giovani in attesa di occupazione, non era una contraddizione sociale, far lavorare le persone fino alla vecchiaia inoltrata? Si abbassò sul sedile del passeggero, fingendo di cercare qualcosa, nel caso il motociclista avesse avuto curiosità di sapere chi sostasse in quell’auto. Del resto confidava molto nei cristalli oscurati dell’auto di Procopio.
Pensò a ciò che avrebbe fatto, una volta a Esterzili, raggiunto il traguardo della pensione. Sicuramente escursioni, coltivare l’orticello, la vigna per farsi un poco di vino genuino. Ma più di tutto voleva leggere e scrivere. Intendeva mettere su carta le sue acquisizioni sociologiche. Aveva in mente una sorta di antropologia culturale della società occidentale post industriale, globalizzata. Ogni volta che ci pensava si stupiva che nessuno avesse mai tentato l’impresa, almeno che lui sapesse. Non era escluso che si sarebbe comprato magari un computer. Avendo tanto tempo a disposizione, avrebbe potuto imparare ad usarlo. Era utilissimo per scrivere, a quanto ne sapeva. Gli vennero in mente i corsi di informatica tenuti dal Canuto, come gli aveva detto l’impiegata dell’anagrafe al comune di Paesana. Quella sarebbe stata una buona scusa per avvicinarlo nuovamente, e saperne di più
Dopo alcuni minuti, il portone si aprì nuovamente. Ne uscì una Fiat Panda rossa. La moglie sicuramente. Attese che partisse e la seguì. Se, come pensava stava andando a fare spesa, avrebbe cercato di attaccar bottone. Gli riusciva facile, soprattutto con le donne. Melis sapeva di essere ancora un bell’uomo, e, a volte, ne approfittava.

La signora Canuto entrò in un discount alimentare. Prese un carrello e cominciò a girare per le corsie fra gli scaffali. Ogni tanto prendeva qualche barattolo o confezione, e se lo avvicinava a pochi centimetri dagli occhi. Era molto miope e, con l’età, riusciva a leggere i caratteri molto piccoli degli ingredienti al di sopra degli spessi occhiali.
– Mi scusi signora, sono buoni quei tortellini?
La signora trasalì. Era facile allo spavento, dato che il suo campo visivo era estremamente ridotto dalle forti lenti, e, spesso, non si accorgeva se qualcuno le si avvicinava di lato. Vedendo il bell’uomo in divisa si riprese subito.
– Sì, abbastanza. Sono ai funghi.
Sorrise, rispondendo. Subito calcolò che un uomo di quell’età, che si fa la spesa da solo, o è scapolo, oppure divorziato. Non che escludesse la possibilità che la moglie fosse momentaneamente lontana. Il suo sguardo si posò automaticamente sulle mani dell’uomo, che non portava fedi.
– Sono single da tutta la vita, ma non mi sono mai abituato a fare la spesa e a cucinare. Noi uomini siamo pigri, per queste faccende. Sa, a volte mi contento di un panino. Oppure mangio fuori. Talvolta non mangio affatto.
– Come mai un bell’uomo come lei, non è sposato?
– Una lunga storia, signora mia. Glie la voglio risparmiare. Piuttosto, come potrei cucinarli questi?
Era fatta. La signora era rilassata, era nel suo campo e gli spiattellò diverse ricette. Melis pensò che sarebbe arrivato presto il momento di sapere qualcosa della famiglia di lei. E non si sbagliava. Non ebbe bisogno di chiedere. Bastò che portasse il discorso sul fatto che il suo unico rammarico, per non essersi sposato, non era tanto la mancanza di una compagna, quanto la mancanza di figli, affinché la signora Canuto si aprisse e gli raccontasse vita e miracoli dei suoi tre figli. Bene, bene, tutto giova saper. Pensò il maresciallo ricordando il Barbiere di Siviglia di Rossini.

* * *
Doveva fare in fretta. Pur avendo un discreto vantaggio sull’altro, che era molto più lontano dal luogo dell’appuntamento, c’era pur sempre il fatto che la sua guida era quella prudente di un uomo maturo. L’altro era giovane e, l’aveva visto seguendolo, guidava alla “adesso mi viene un infarto”, come tutti i giovani, figli suoi compresi. Certamente i riflessi dei ragazzi erano più pronti dei suoi. Però, quando gli capitava di essere accompagnato da loro, gli veniva spontaneo tenersi con entrambe le mani a tutti gli appigli possibili, non soddisfatto della sola protezione della cintura di sicurezza. Era una guida che lui definiva all’ultimo minuto. Se, cento metri più avanti, c’era un semaforo rosso, oppure delle auto ferme, non cominciavano a rallentare da subito, ma frenavano bruscamente, quando erano quasi addosso all’ostacolo. E magari i suoi figli si risentivano, per la mancanza di fiducia, dicevano, che il suo aggrapparsi alle maniglie, dimostrava. Doveva ammettere che anche lui, da giovane, aveva avuto una guida molto simile a quella dei suoi figli di adesso. Ma aveva provocato degli incidenti e, invecchiando, si era messo a guidare come guidava un tempo suo padre.
Ricordò di quella volta che aveva accompagnato suo padre a Torino, per una pratica alla sua assicurazione. Lui gli aveva detto di svoltare a sinistra, da corso Galileo Ferrarsi, per immettersi in corso Vinzaglio. Non aveva mai scordato la scena. Aveva visto l’auto provenire da destra, ma aveva calcolato di farcela, sfruttando la massima accelerazione della Fiat 128. Il problema era che l’altra auto, procedeva a velocità folle, per essere in centro della città. Lo schianto era stato tremendo. L’auto era stata colpita sulla ruota anteriore destra, ed erano stati trascinati per una quindicina di metri, fino all’altro lato dell’incrocio. Lui era finito addosso a suo padre, schiacciandolo col suo peso contro la portiera. Lui non s’era fatto nulla, atterrando sul morbido. Suo padre si era fratturato qualche costola. Poi verbale dei vigili urbani, pronto soccorso del Mauriziano, ritorno a casa.
Un conoscente, che aveva assistito alla scena, aveva avvertito sua madre. Quando ritornarono a casa, lei era scesa in lacrime, tempestando suo padre di domande, sulla sua salute e sofferenza. A lui non aveva chiesto nulla, nemmeno un piccolo “come stai”.
E, dopo aver ridato l’esame di guida, era diventato più prudente. E lo era diventato ancor di più, con il passare degli anni.
Guidò con calma fino ad Airasca. A quell’ora di notte c’erano pochissime auto in circolazione. Quando svoltò a sinistra, verso Scalenghe, potè procedere più velocemente. Quella strada era secondaria, rispetto alla statale del Sestriere, meno trafficata.
Sperava di aver fatto tutto per bene. Mentre andava in camera sua, in quella casa senza corridoi, doveva attraversare tutte le camere, e, in quella di Sara, che stava già dormendo, il cellulare di lei aveva emesso una piccola vibrazione e si era illuminato per un attimo. Si immobilizzò, aspettando di vedere se la figlia si sarebbe mossa verso il telefono. Non successe nulla. Lentamente si avvicinò e prese il telefono. Andò nel bagno in camera sua, dopo essersi procurati gli occhiali di lettura, senza dei quali non avrebbe potuto leggere nulla. Non aveva mai fatto una cosa del genere, invadendo la privacy dei figli, ma quella era una situazione di emergenza, e aveva agito d’istinto. Gli era venuta l’idea e l’aveva messa in atto, senza rifletterci.
In bagno aveva notato che il simbolo della batteria indicava che era quasi scarica. Dopo l’avrebbe spento, prima di posarlo dove l’aveva preso. Era essenziale per la riuscita del piano. Ci mise un po’ a capire il funzionamento di un telefono diverso dal suo, contando sul fatto che le funzioni erano simili in tutti i modelli. Scrisse il messaggio, sperando che il destinatario l’avesse capito al volo, senza indugi. Conoscendo la figlia, cercò di pensare a come l’avrebbe scritto lei, se fosse stata arrabbiata con lui. Era essenziale, faceva parte del piano. Doveva assolutamente sembrare un messaggio di Sara incazzata. Autoritario e imperativo. Lei sapeva essere così, in certe situazioni. E, il fatto che fosse andata a letto presto quella sera, indicava senza ombra di dubbio che avevano litigato loro due. A cena era stata ombrosa e taciturna, quanto solitamente era allegra e loquace.
“Vieni subito in montagna!”
Sì, poteva funzionare. Lui sapeva che c’erano già stati, loro due soli, una volta che li aveva seguiti durante l’estate. Premette Invia ed apparve la rubrìca. Scelse uno dei nomi. OK. Messaggio inviato. Impiegò un po’ di tempo a cercare nei messaggi inviati per cancellarlo, ma alla fine ci riuscì. Sperava che lui abboccasse senza replicare. Non voleva lasciare tracce.
Scese vestito e la moglie lo guardò stupita, poiché le aveva detto che sarebbe andato a dormire.
– Vado a dormire in montagna. Domani voglio fare dei lavori, così sarò già là di buonora.
– Ma farà freddo…
– Accenderò la stufa e dormirò sul divano in cucina.
Si conoscevano da più di trent’anni. Sempre insieme, giorno e notte. La moglie era abituata ai suoi cambiamenti d’umore e di programma. Tipico del Cancro. Lunatici.
Era quasi arrivato ormai. Passata la colletta di Barge, mancavano pochi minuti. Nessuno per le strade. Aprì il portone della casa e mise l’auto direttamente in garage. Non voleva che si insospettisse il suo “ospite”, non vedendo la Punto rossa, ma una Marea.

* * *

Michele Canuto pensò che era a buon punto ormai. Tutto gli era perfettamente chiaro. Sapeva di stare per concludere la storia. Il finale lo preoccupava un poco, dato che ancora non aveva deciso fra due possibili alternative, anche se, era quasi ormai convinto, che avrebbe prevalso il primo che gli era venuto in mente. Però sapeva di non poter anticipare nulla di certo. Quando ci si accinge a scrivere, la storia sembra assumere una vita propria, sulla quale, la parte vigile, razionale dello scrittore, non ha quasi nessun potere.
La parte più dura sarebbe stata la rilettura e la correzione. Poi avrebbe messo tutto quanto sul PC. Il word processor si ostinava a non accettare nomi propri di località e di persone. Se si avvicinavano ad una parola conosciuta, la cambiava in quella. Avrebbe dovuto aggiungere al vocabolario, quei nomi che sarebbero apparsi più volte, per evitare refusi. Essendo scritto tutto a mano, non avrebbe potuto contare sullo scanner e sul riconoscimento del testo. Tutto un gran lavoro di copiatura. C’era il vantaggio che già in quella fase, avrebbe potuto fare una prima correzione. Sapeva che avrebbe dovuto tagliare senza ritegno le inutili ripetizioni, dovute sopratutto ai tempi lunghi della scrittura. Dimenticava un sacco di cose nella sua vita, così si scordava di avere già detto la stessa cosa, venti pagine prima. Ma credeva che succedesse un po’ a tutti. Anche agli scrittori professionisti. Dopo si taglia e si lima. Avrebbe dovuto scegliere nomi diversi per i vari personaggi. Cambiare magari i nomi delle località, non appena avesse deciso dove ambientare il delitto. Propendeva per la valle del Roja, un paesaggio selvaggio e duro, che a lui piaceva molto. Oppure la val Germanasca, che gli somigliava ed era più vicina ai luoghi conosciuti, ma forse troppo popolata. Gli stessi concetti delle composizioni scolastiche: brutta copia, correzione, tagli, bella copia. Non gli piacevano più, quelle definizioni, quegli aggettivi, e nemmeno la parola “copia”. In fondo era una creazione della mente, dell’ingegno. Copia era una definizione non adeguata. Alla fine l’avrebbe impaginato e stampato in formato libro. Infine rilegato, con i suoi semplici mezzi manuali. Gli era sempre piaciuto occuparsi dell’oggetto libro in se’, che venerava come una reliquia. Ancora non sapeva se l’avrebbe poi pubblicato. Guadagnare su ciò che scriveva, non era il suo forte. Far soldi, non era mai stato il suo fine. Amava fare cose che avessero un senso compiuto per lui stesso, dopo una vita passata a eseguire doveri. Ma il piacere era consistito nel lungo travaglio della sua elaborazione. Sopratutto all’inizio, quando la smania di buttare su carta ciò che sentiva dentro, gli impediva di pensare ad altro. Di occuparsi di altro. In un solo mese aveva scritto la maggior parte del libro. Poi il lungo periodo di blocco.
Era stanco di scrivere e per quel giorno avrebbe smesso. Sarebbe andato a lavorare un poco nell’orto. C’era anche l’erba da tagliare. La vigna da sistemare e ricoprire le basi dei tralci di paglia, in vista dell’inverno imminente. Ricordava la primavera in cui era venuto, per la prima volta a vedere la casa. Dopo un inverno secco e senza neve, era nevicato proprio quel giorno, la domenica delle Palme. Avrebbe tanto desiderato vedere la casa e il giardino nel suo verde, migliore aspetto primaverile. Così gli era sembrata più desolata, abbandonata. In effetti la casa era vuota, in vendita da anni. Proprio questo gli aveva permesso di spuntare un prezzo migliore, acquistandola. Era stata una trattativa lunga. In parte per il suo lavoro, che non gli concedeva spazio e tempo per altro che non fosse lavoro, lavoro, lavoro. In parte perché era difficile parlare con il geometra che si occupava della vendita. Un giorno era occupato; un altro era fuori ufficio.
Poi la lenta e lunga sistemazione della casa e dell’ampio giardino, a causa sempre dell’esiguo tempo libero. E l’onnipresente desiderio di fare un giorno il pensionato, in quella casa, padrone finalmente del proprio tempo.

* * *

Si stava quasi appisolando. Si stiracchiò e si riscosse. Andò a bere un bicchiere di acqua. Come era buona quell’acqua di montagna. Ghiacciata, come avrebbe fatto piacere berla in estate. Troppo fredda in questa stagione. Gettò altra legna sulle braci precedenti, all’interno del grande forno da pane. Quel forno, anche se malandato ai tempi in cui aveva acquistato la casa, era stato l’elemento decisivo a convincerlo ad acquistarla. Era affascinato dal processo della panificazione, fin dall’infanzia, quando all’età di tre anni, abitava vicino ad un fornaio, e spesso sbirciava all’interno del laboratorio, per tentare di cogliere i misteri di quel mestiere. Ma era sopratutto l’odore del pane cotto, che gli colpiva le narici, stimolando la sua fantasia. Nelle vicinanze della casa dell’infanzia, proprio sulla piazza del paese, c’era anche un falegname. Anche lì andava spesso a curiosare, nel suo vagabondare per il suo piccolo mondo, che comprendeva allora, i tre cortili accessibili da un medesimo androne puzzolente dell’urina degli avventori della piola antistante. Quando uscivano dall’osteria, ubriachi e traballanti, dovevano assolutamente svuotare la vescica troppo tesa. L’androne era al buio e costituiva un riparo discreto per quell’operazione. L’alternativa era il vespasiano in fondo al viale, troppo lontano per chi rincasava da questa parte, e troppo fuori strada. Si sorprendeva sempre di come fossero principalmente gli odori a risvegliare i ricordi più antichi. Era naturale che fosse così. L’olfatto era il senso evolutivamente più antico, quasi un prolungamento del cervello, direttamente connesso ai lobi frontali.
Udì il rumore di un’auto fuori. Fu tentato di sbirciare fuori, ma subito sentì il cigolio del cancello. Era l’una e trenta. Tornò nel suo angolo buio e attese, con i nervi a fior di pelle.

* * *

Vincenzo aveva fatto tutta una tirata, guidando veloce. Poco più di cinquanta minuti da casa sua. Un pezzo di tangenziale nord sud, il raccordo di Pinerolo, e poi strade provinciali. Per rimanere sveglio e vigile aveva dovuto ricorrere all’ultima scorta di “neve”. Dopo il ricevimento del messaggio, avrebbe voluto rispondere, richiamare, ma come ci aveva provato, il cellulare si era spento a causa della batteria scarica. Stava passando un momentaccio. Il mutuo da pagare e la roba che diventava sempre più cara. Doveva decidersi di smettere, ma la prospettiva gli pareva peggiore della morte.
Non poteva continuare così. Il suo stipendio era buono per una persona “normale”. Non per uno che avesse bisogno della costosa coca. Quella di oggi sarebbe stata davvero l’ultima. In fondo lui non era un drogato. Il suo fornitore abituale non faceva credito. Dubitava che ve ne fosse qualcuno che lo facesse, in quel giro. Ma in fondo alla mente gli apparve la prospettiva di giornate faticose, di depressione causata dalla routine, dalla mancanza di prospettive promettenti. A parte Luigino, suo fratello rimasto in Sicilia, non aveva più nessuno. Soltanto la moglie e il figlio. Doveva concentrarsi su questo. Sara, la ragazza che l’attendeva in montagna, era, in fondo, soltanto uno sfizio. Come lei ne avrebbe trovate a centinaia. O forse no. Forse era qualcosa di più. Oltre che bella era anche intelligente, molto più di lui. Se è per questo anche sua moglie lo era. Ma, dopo alcuni anni di convivenza nel quotidiano, le era venuta a noia. Non era più come nei primi tempi, quando facevano l’amore in qualunque luogo si trovassero. Famelici, assatanati. Desiderosi l’uno dell’altra, più volte al giorno. Probabilmente lì, cascavano tutte le coppie, dopo un po’ di tempo. Per ora Sara lo eccitava fino all’inverosimile, ma, prima o dopo, sarebbe successo anche con lei. Se avesse fatto storie, quella sera, non l’avrebbe più cercata.
Fermò l’auto davanti al cancello e scese. Si accorse che era accostato e lo aprì. Non vide l’auto rossa e immaginò che l’avesse messa in garage. Rimontò in auto ed entrò nel cortile. Tutte le luci della casa erano spente, salvo una fioca luce nella cucina, come u bagliore di fuoco. Forse il caminetto. Richiuse il portone ed entrò in casa.

* * *

Melis aveva scritto all’amico Alfonso, pregandolo di fare indagini “discrete” sul Canuto, trasmettendogli tutti i dati anagrafici. Gli spiegò che aveva solo un vago sospetto, dovuto ad un ciondolo simile a quello rinvenuto sul luogo del delitto e alla conoscenza dei luoghi. Riportò a memoria ed in sintesi, il discorso che il Canuto gli aveva fatto su Reich, l’orgone e il sito che ne parlava. Mise in evidenza che mancava un movente ed un collegamento, tra la vittima e il Canuto. Ora non restava che attendere la sua risposta. Sapeva che non l’avrebbe deluso. Montanari era un segugio nato, per trovare tracce di chiunque. Melis se ne stupiva ogni volta. Che avesse collegamenti con i servizi segreti? Se era così, avrebbe preferito non saperlo.
Di Ieso lo distolse suoi pensieri.
– C’è al telefono il maresciallo Cicognara.
– Pronto, Aurelio, sono Egidio, come va?
– Bene, caro collega. Ti telefono per aggiornarti sulle ultime novità. La vittima era uno dei nostri. Nel senso che aveva prestato servizio nei Carabinieri durante la leva. Era un buon elemento, a sentire i suoi superiori, ma non ne volle sapere di continuare il servizio alla fine della leva. Era uno sportivo e gli avrebbe fatto comodo, anche per questo, ma dopo un iniziale tentennamento, si congedò comunque.
Sul fratello Luigi, che vive a Ragusa, niente da segnalare. Incensurato, fa il muratore, non è sposato. Dai tabulati telefonici dell’epoca, risultano scarsi contatti fra i due. A proposito di telefono. Il nostro risultava essere in contatto telefonico ricorrente con un noto spacciatore di Torino, il cui telefono tenevamo sotto controllo. Probabilmente era soltanto un cliente. Non ti so dire di più, per ora. Però quest’ultimo fatto ci porta nel mondo della droga, quindi entra in gioco anche la mafia. Anche se, personalmente escluderei che la mafia vada a nascondere un cadavere in cima alla tua montagna, è una probabile pista. Forniture non pagate o cose del genere. Potrebbe anche darsi che il nostro fosse anche lui uno spacciatore. Indagherò in questa direzione.
– A proposito di tabulati telefonici, ti risultano numeri ricorrenti, nelle chiamate in entrata e in uscita dal cellulare della vittima?
–Ci sono molti numeri ricorrenti, in periodi diversi. Sopratutto femmine. Ti manderò via fax un elenco delle telefonate.
– Ti ringrazio, Aurelio. A presto.
Non appena mise giù la cornetta il telefono sulla sua scrivania squillò nuovamente. Era Di Ieso che gli comunicava che il procuratore Caruso era sulla linea uno.
– Caro Melis, come andiamo? Senta. La prossima settimana sarò via. Qualche giorno in Calabria, giusto per staccare un poco la spina. E per fare rifornimento. Volevo fare il punto della situazione con lei, prima di partire. Cosa mi racconta di nuovo?
Rispose soltanto all’ultima domanda, perché alla prima, non c’era stata la pausa necessaria per rispondere. Caruso era una di quelle persone che parlano, perché amano sentire il suono della loro voce. Fanno domande personali, giusto per simulare interesse, che in realtà non hanno.
– Abbiamo un indizio che conduce al mondo della droga. Inoltre stiamo cercando di ricostruire i rapporti personali della vittima mediante l’analisi dei tabulati telefonici…
– Ha visto, che prima o dopo concorderà con me, circa il coinvolgimento della malavita organizzata?
Lo interruppe tronfio Caruso, soddisfatto come se, ormai, avesse dimostrato qualcosa di solido.
– Ci sentiamo fra una decina di giorni, maresciallo.
E interruppe la comunicazione. Al sud il tempo era bello ed Emanuele aveva in mente di raggiungere una caletta solitaria, irraggiungibile via terra, mediante il canotto, dove avrebbe fatto l’amore con Giuliana, sulla roccia levigata che scendeva dolcemente nel mare, dove le onde ti solleticavano dolcemente. Già la vedeva nuda e lambita dalle onde. Poteva sentire l’odore di lei, mescolato all’odore del mare e si sentiva già eccitato. Sentiva che alla luce del sole, si eccitava sessualmente ancora di più, che al chiuso di una alcova.

* * *

Era teso e cercava di respirare lentamente, sentendo nelle orecchie i battiti del proprio cuore. Era teso come l’arco che teneva in mano, con la freccia incoccata, alla massima tensione umanamente possibile. Puntata verso l’ingresso. I polpastrelli che tenevano la corda, cominciavano a dolere, essendo in quella posizione da alcuni minuti. Rivide mentalmente le parole de Lo Zen e il tiro con l’arco. Bisogna diventare, nello stesso tempo, il bersaglio, il dardo e l’arco. Trattenere la freccia fino a che non si è assolutamente certi di colpire il bersaglio. Deve quasi essere il bersaglio stesso che richiama la freccia su di se’.
Si era esercitato molto, nel frutteto dietro la casa. Aveva sistemato il bersaglio su una balla squadrata di paglia, che gli aveva fornito un amico agricoltore. Nel tiro con l’arco c’era davvero lo Zen, che mancava nel tiro, almeno secondo lui, con le armi da fuoco. Come c’era nella pesca. Il bersaglio dietro casa era ad una ventina di metri. Raramente mancava di fare centro. Il suo bersaglio, adesso, l’uomo che era appena entrato, chiamando sua figlia per nome, era a sette metri. Impossibile sbagliare. Si dice che lo Zen, sia un modo per arrivare a conoscere Dio dentro se’ stessi. Davvero portava a Dio, quello che stava per fare in quel momento? Non lo sapeva. Ma sapeva che quell’uomo perverso stava portando sua figlia su una cattiva strada. Sua figlia che aveva allevato con tutto l’amore possibile. Aveva giocato con lei da piccola. Le aveva cambiato il pannolino. L’aveva portata a spasso in bicicletta. L’aveva fatta studiare ed era cresciuta bene. Finché non era apparso lui nella sua vita.
E i polpastrelli stremati e doloranti lasciarono la corda.

Vincenzo udì il sibilo e provò una fitta di dolore inenarrabile alla gola. Passò dallo stupore alla paura in una frazione di secondo. Istintivamente si portò le mani alla gola, trovandovi un asta che la passava da parte a parte. Subito sentì in bocca il sapore metallico del sangue. Voleva urlare, ma ne usciva soltanto un gorgoglio incomprensibile. La paura inondò il suo sangue di adrenalina, ed il cuore prese a battere più veloce e più potente, col risultato che si ritrovò in bocca una grande quantità di liquido caldo, che doveva sputare. Un fiotto caldo gli si riversò sul petto, lordandogli i vestiti. Istintivamente cercò la pistola che solitamente teneva nella fondina sotto l’ascella sinistra, ma non c’era. Ritornando dal lavoro l’aveva riposta nella cassaforte. Una miriade di immagini gli attraversarono la mente e rivide tutti gli incontri con Sara, cercando una spiegazione a tutto questo, che gli stava accadendo ora. I suoi occhi ormai abituati alla penombra, videro che nella cucina, la ragazza non c’era. C’era quell’uomo, con l’arco in mano, un’altra freccia incoccata, che ora si stava avvicinando.
Si sentiva debole. Le ginocchia molli come pasta frolla, infine si piegarono e cadde, prima in ginocchio e poi disteso, sulla schiena. L’uomo sconosciuto era ora in piedi sopra di lui e lo guardava con disprezzo. Poteva avere una cinquantina d’anni. Forse era il padre di Sara. Forse un altro amante. Perché gli stava accadendo questo? Ancora gorgogliando, tese le braccia verso l’uomo, affinché lo aiutasse, chiamasse un’ambulanza. Maledizione. Se quello non avesse fatto qualcosa sarebbe morto!
Sul pavimento si era allargata una pozza di sangue rosso e grumoso, che cominciava a raggiungere la piccola griglia metallica di un pozzetto di scarico, nel pavimento davanti al forno. Ebbe un vigoroso moto di ribellione a quello che stava accadendo e cercò di alzarsi, per costringere l’uomo ad aiutarlo, scrollandolo per i vestiti. Ma l’uomo fece un passo indietro e tese la corda dell’arco. Non ce la fece ad alzarsi e ricadde a terra. Sentiva che le forze lo stavano abbandonando. La vista gli si annebbiava. Aveva sonno. Non voleva morire. Non così. Non era ancora ora: era giovane. Si ribellò ancora una volta, con un sussulto che era uno spasimo. L’ultimo.

Era l’una e quaranta. L’uomo a terra non si muoveva più. Andò fuori e chiuse il cancello a chiave. Tornò dentro e toccò l’uomo con un piede, sempre tenendo l’arco in mano. Non si muoveva. Forse era andato. Sicuramente era innocuo. Per rilassarsi un momento doveva sedersi. Per scrupolo andò ancora una volta vicino all’uomo. Voleva sentirgli il polso, per sapere se c’era battito cardiaco. Non voleva assolutamente che le sue scarpe si insozzassero nella grande pozza di sangue sul pavimento. Guardandola gli venne un conato di vomito, che bloccò sul nascere. Erano decenni che non vomitava e non avrebbe ricominciato quella sera. Si tolse le scarpe e si rimboccò i calzoni. Toccò il polso dell’uomo. Niente. Era morto. Si rilassò un poco e le sue pulsazioni cardiache tornarono quasi normali. Bevve un bicchiere d’acqua e si sedette sul divano. Da quando era morto suo padre, aveva ripreso l’abitudine di pregare, nei momenti peggiori. Si fece il segno della croce e recitò a bassa voce, tutto in latino, un Pater noster, Ave Maria, Requiem Ǽternam, per il morto e per se’ stesso. Si rendeva conto dell’enormità di ciò che aveva fatto. Aveva ucciso un uomo. Ma era una cosa che andava fatta. Un uomo ha sempre una scelta, e lui, quella volta aveva scelto correttamente. Un padre deve proteggere i suoi figli. Per il bene loro.
Per rilassarsi ulteriormente, dopo un altro segno della croce a chiusura delle sue preghiere, fece mentalmente il training autogeno di Schultz, che aveva imparato trent’anni prima. Poi si alzò. Doveva sbrigarsi. La notte si srotolava via velocemente e c’erano ancora tante cose da fare. Per prima cosa ravvivò con altre fascine secche, il fuoco del forno. Poi cominciò a svestire l’uomo. Il sangue che ancora aveva dentro si era depositato nella parte inferiore del corpo, che appariva ora più scura, rispetto al pallore cadaverico.
Nella giacca dell’uomo trovò il portafogli. Trecento euro e spiccioli. Li mise nel suo e gettò il portafoglio di cuoio nelle fiamme del forno. Così fece con ogni vestito che man mano gli levava, faticosamente di dosso. La maglietta bianca che indossava sotto la camicia, dovette tagliarla. La freccia impediva di sfilarla dalla testa. Provò a tirare la freccia per estrarla, ma non si muoveva di un millimetro. La carne del collo dell’uomo la tratteneva come se fosse incollata. Pensò di spezzare le due estremità sporgenti, ma poi si disse che era idiota. Non voleva lasciare sul cadavere nulla che potesse collegarlo a lui. Rimandò a più tardi quel problema. Ve n’erano molti problemi da risolvere entro la notte. Era pesante maneggiare un uomo morto, un peso totalmente morto. Alla fine era totalmente nudo. Mise l’orologio e il cellulare, che aveva trovato spento nelle tasche dei pantaloni, in una busta della spesa. L’orologio era un Rolex, con la scritta Vincenzo M. sul lato inferiore. Ci avrebbe pensato dopo. Era una fortuna che il cellulare fosse spento: nessuno avrebbe potuto risalire alle ultime mosse dell’uomo. Ma sopratutto non aveva fatto telefonate recentemente. Probabilmente la batteria era scarica. La scheda del cellulare la buttò anch’essa nel fuoco.
Ora mi guarda o mondo! Questi è un buffone, ed un potente è questo. È qua spento ai miei piè…o gioia…
Lui non aveva commesso l’errore di Rigoletto, affidando il compito ad un’altra persona. Ci aveva pensato da solo. Chi fa da se’, fa per tre…
Chissà perché gli venivano in mente idiozie come quella?
Ora poteva lavare pavimento e corpo. Andò in garage e prese il tubo di gomma per lavare l’auto e lo attaccò al rubinetto. Fece scorrere l’acqua e lavò grossolanamente tutto. Avrebbe rifinito più tardi. Chiusa il rubinetto dell’acqua e lasciò il tubo attaccato. Si rimise le scarpe.
Andò in garage e tirò fuori la Marea, accostando la parte posteriore alla porta della cucina. Aveva dovuto spostare prima l’auto dell’uomo, in un punto in cui non desse fastidio. I vicini, se mai qualcuno si fosse svegliato per il trambusto notturno, non potevano per fortuna vedere ciò che accadeva nella sua proprietà, interamente cintata. Stese un telo di nylon nel bagagliaio. Prese l’uomo nudo sotto le ascelle, per trascinarlo verso l’ingresso della cucina. Maledizione! La freccia. Provò nuovamente a tirare per tentare di estrarla, ma non c’era verso. Andò a prendere un affilato coltello e tagliò la gola anteriormente, finché non potè estrarre la freccia dallo squarcio aperto. Un altro fiotto acido gli venne in gola e questa volta lo vomitò sul pavimento, vicino al pozzetto di scarico. Riaprì l’acqua per lavare vomito, sangue residuo e prendersi un poco d’acqua per sciacquarsi la bocca dal sapore acido del vomito. Poi riprese a trascinare il cadavere. Pensò che la parte difficile sarebbe stata tirarlo dentro l’auto, così andò nuovamente in garage, e tornò con un’asse per fare una specie di scivolo, dal pavimento al pianale del bagagliaio, completamente apribile. Riuscì ad appoggiarlo sull’asse, ma per issarlo in auto, avrebbe dovuto salire nel bagagliaio e tirarlo da lì. Abbassò i sedili posteriori. Per fortuna che scaricarlo, sarebbe poi stato più semplice.
Adesso l’uomo era nel bagagliaio e lo coprì con dei sacchi di iuta che erano in garage. Dopo li avrebbe bruciati. A questo pensiero si ricordò di aggiungere altra legna nel forno, questa volta ceppi grossi, da caminetto, per assicurarsi che il fuoco sarebbe rimasto acceso fino al suo ritorno. Prese gli attrezzi per scavare: piccone e badile. Aveva una mezza idea di dove andare a seppellire il cadavere. Aprì il portone. Uscì con l’auto e richiuse. Si avviò verso la montagna.
Guidò lentamente sulla strada sterrata, per evitare che l’auto bassa sugli assali delle ruote, raschiasse sulle pietre sporgenti del centro, più alto rispetto ai solchi prodotti dal passaggio delle auto, nelle giornate piovose, col rischio di rompere la coppa dell’olio motore. Fino lì non aveva incontrato nessuno. Sicuramente non avrebbe incontrato nessuno più in su, data l’ora. Si sporse avanti a guardare il cielo sereno, ora che era uscito dalla bruma che stagnava in fondo alla valle. La luna piena illuminava in modo spettrale il paesaggio, di una argentea luce che sarebbe stata sufficiente anche senza l’aiuto dei fari. Giunto sul pianoro, fece retromarcia fino alla grande roccia piatta e spense il motore.
Rabbrividì, scendendo dall’auto, nella gelida notte di tardo autunno. Aveva indossato un paille, ma presto si sarebbe riscaldato scavando. Con pala, piccone e una pila che teneva in auto, scese sotto la roccia. Era già stato lì altre volte, a cercare funghi. Poteva accendere tranquillamente la pila, dato che da valle la vista era impedita dalla nebbia bassa. Diversamente, qualche curioso insonne, avrebbe potuto notare la luce, che avrebbe brillato come un faro, in un luogo dove normalmente doveva essere tutto buio. Individuò subito il posto adatto e senza indugio, iniziò a lavorare con lena, usando dapprima il piccone. Dopo alcuni minuti era sudato. Gli ci volle mezzora per scavare una fossa profonda quaranta centimetri circa. Più in profondità non poteva andare, perché aveva incontrato una grossa pietra sul fondo, impossibile da estrarre, troppo faticoso spezzarla. O scavare altrove, col rischio di trovare altri sassi, o contentarsi di quella tomba. La notte stava correndo via veloce, e gli restavano ancora molte cose da fare. Le tre.
Risalì sul pianoro, aprì il bagagliaio dell’auto e trascinò il cadavere ormai gelido dell’uomo, fino alla fossa. Il contatto con quella carne fredda gli diede un moto di disgusto. Ma ormai non aveva più nulla da vomitare.
Quando il corpo fu sistemato nella fossa, con la pila in mano valutò la sua opera. Avrebbe avuto in mente una bella fossa di un metro di profondità, per essere totalmente soddisfatto, ma non era stato possibile. C’era il rischio reale che qualche animale, qualche cinghiale, scavasse il terreno, annusando il cadavere e facendolo affiorare. Sarebbe tornato a valutare in seguito, magari per aggiungere terra presa altrove e sassi. Ricoprì il corpo dell’uomo con la terra estratta per scavare. Pestò la tomba col badile di piatto e si augurò che piovesse presto o nevicasse, per compattare il terreno. Raccolse attrezzi e pila. Rimontò in auto e scese a valle.
Alle quattro rientrava nel cortile di casa. Riprese subito a ripulire il pavimento, questa volta in modo più accurato, con straccio e detersivo. Quando valutò di essere soddisfatto, avrebbe voluto farsi una doccia, ma si era scordato di accendere il boiler. Lo fece ora. Scrutò nel forno. Gli indumenti erano bruciati, ma per buona misura, gettò altra legna sulle braci, che subito ravvivò un nuovo fuoco. Si cambiò d’abiti e uscì. Mise la sua auto nuovamente in garage e salì sulla mono volume grigia dell’uomo.
Le chiavi erano nel cruscotto. Mise in moto e partì con quella. Non aveva mai capito perché la gente comprasse auto come quelle. Ma vide che dietro c’era una bicicletta. Forse era quello il motivo. Forse l’uomo faceva un poco di sport, e voleva averla sempre a portata di mano, ovunque si trovasse. Sentì allora tutta la stanchezza di una notte insonne, dopo una lunga giornata di lavoro. Nel traffico inesistente della notte, in meno di un’ora raggiunse il piazzale del supermercato dove lavorava l’uomo. Con il fazzoletto ripulì volante, leva del cambio, maniglie. Ovunque riteneva di aver toccato, ma senza troppa ossessione. Pensava che sarebbe passato molto tempo prima che l’auto venisse ritrovata, in un mondo caotico dove ognuno è intento a farsi gli affari suoi. Inoltre, se non fosse stato ritrovato il cadavere, nessuno si sarebbe sognato di rilevare impronte su un’auto abbandonata in un parcheggio. Aveva pensato in un primo momento di sbarazzarsi di orologio e cellulare, gettandoli in qualche cassonetto oppure nel Po. Adesso era certo che lasciarli nell’auto era una soluzione migliore. Mise il cellulare nel vano portaoggetti al centro del veicolo. L’orologio lo abbandonò sul tappetino dalla parte del passeggero. Quasi sicuramente i due oggetti avrebbero preso il volo, prima che l’auto venisse ritrovata. Erano entrambi di valore.
Ora doveva raggiungere il centro di Torino, da dove avrebbe preso un autobus per Saluzzo e poi un altro per Paesana. Sarebbe stato fortunato ad arrivarci prima di mezzogiorno. Invece alle dieci ci arrivò, per fortuna e coincidenze favorevoli. Forse, lassù qualcuno lo assisteva. Sì, era assurdo, quasi paradossale, pensare di avere un aiuto per commettere un assassinio. Sapeva di aver commesso un omicidio, ma non riteneva, nella sua personale morale maturata in una vita di esperienze e letture, che esistesse una morale assoluta. Bisognava valutare di caso in caso. Nel suo caso, aveva fatto la cosa giusta. Non per se’, ma per sua figlia. Sì, non c’erano dubbi. Non aveva avuto nessun tornaconto personale, nel compiere la sua impresa. Era un’opera a fin di bene, per gli altri. L’altruismo è sempre morale. Il mondo era senza ombra di dubbio migliore, ora che quell’essere spregevole aveva smesso di calpestarlo. Ora che stava sotto la superficie, al posto suo. Del resto, don Giuseppe, al catechismo, commentando i dieci comandamenti, quando arrivava a “non uccidere”, diceva sempre che non commettevano peccato, i soldati comandati a farlo in guerra. Quella cosa, nella sua mente di bambino, stonava incredibilmente, con tutta l’idea che si era costruito sulla morale. Ma se lo diceva don Giuseppe, ci si poteva fidare. Se era tollerabile l’idea della guerra, lui aveva davvero compiuto un’opera di bene.
Fu quando a casa, riuscì finalmente a farsi una lunga doccia calda, per lavare via l’orrore del sangue, la stanchezza, e lo stress delle ultime ore, che si accorse di non aver più il ciondolo al collo.

* * *

Quella mattina, il maresciallo Melis, si era svegliato con il pensiero di Elisa. Quella sarebbe stata una brutta giornata. Sarebbe stato d’umore nero, intrattabile. Quando gli capitava, stramalediva la sua meschina sorte, che non gli aveva riservato una vita “normale”, come tutti, con una famiglia, un amore, dei figli magari. D’altro canto, pensava che quelli che lui considerava avessero una vita normale, forse invidiavano quelli come lui, privi di legami.
Ora la figlia di Elisa aveva una decina d’anni. Un tarlo gli rodeva la mente. Era o non era sua figlia? Ma conosceva la risposta, pur senza averne la certezza. Perché Elisa gli aveva fatto questo?
Non ebbe necessità di comunicare ai suoi carabinieri, quando scese, di che umore fosse. Se ne accorsero da soli. Si chiuse nel suo ufficio e vi rimase a lungo. Conoscendolo, tutti si muovevano senza far rumore, senza parlare, e, sopratutto, senza cercare di avere contatti con lui, se non fosse stato lui a volerli.
Quando Procopio tornò dall’ufficio postale, fu dilaniato dal dilemma di come fare per consegnargli la lettera personale che era arrivata. Inutilmente cercò di convincere Di Ieso a farlo. Infine si decise a bussare timidamente e consegnargliela. Fortunatamente non accadde nulla. Il maresciallo disse soltanto:
– Grazie. Chiudi la porta uscendo. Aprì la busta e lesse.

Caro Egidio,
sono contento ti sia piaciuto il libro che ti ho mandato, e che tu mi stia seguendo, nel comprendere chi, davvero comanda, in questo nostro mondo corrotto. Non che singolarmente si possa fare gran che, per cambiare questo stato di cose ormai consolidatosi nei secoli passati, al punto che la gente comune stenta a credere che sia così. Sono informazioni che sui media non appaiono mai, e qualsiasi divulgazione attraverso altri mezzi è la benvenuta. Quando saremo in molti a comprendere il meccanismo del denaro come strumento principe per la conquista e la dominazione occulta delle masse, forse le cose cominceranno a cambiare. Speriamo.
Adesso veniamo al caso specifico per il quale mi hai incaricato di indagare.
Per quel che riguarda il sito dell’Orgone, le cose stanno grosso modo come ti ha già spiegato il Canuto, con l’aggiunta che tutto questo si collega molto bene al discorso di esordio di questa mia, cioè ai meccanismi usati per la dominazione delle masse. Ti riassumo brevemente tutto quanto troverai comunque negli allegati, che sono stampe delle pagine trovate sul sito di Orgone Italia. (http://www.orgoneitalia.com/)
L’autore, non fa che riportare la traduzione delle stesse cose che si trovano nel sito ufficiale americano di un certo Don Croft, che si professa un prosecutore degli studi dello stesso Reich. L’assunto di base è che esista un sistema complesso e costoso, multimiliardario, per il controllo mentale delle persone, controllo che comprende soprattutto il lato emotivo del cervello, che si basa su due fenomeni che possiamo vedere intorno a noi dovunque, ma ai quali forse, non abbiamo mai fatto caso, con la dovuta attenzione. Il primo è quello delle scie chimiche, rilasciate da aerei di linea e aerei militari; l’altro è quello delle torri a bassissima frequenza, che ufficialmente dovrebbero essere ripetitori dei telefoni cellulari, che ormai sono ovunque sul pianeta. Pare che con frequenze diverse, emesse dalle torri, si possa condizionare lo stato d’animo delle persone. Si mormora che questo sistema sia stato già usato militarmente nelle guerre in Iraq, inducendo i soldati ad arrendersi senza combattere. Un secondo uso delle base frequenze pare sia quello del controllo climatico. E qui siamo nel campo specifico degli studi Reich, che aveva costruito il suo “acchiappa nuvole”, fin dagli anni trenta, come mi hai riportato dal discorso di Canuto. Il sistema a bassa frequenza pare interagisca, o necessiti di, quegli elementi sparsi nell’atmosfera, mediante le scie chimiche, perlopiù, pare, metalli pesanti. Sul sito esiste un filmato in inglese, che documenta la massiccia presenza di queste scie nei nostri cieli, e di come, queste scie, si accumulino nei cieli, fino a dare origine ad un vero proprio sistema nuvoloso, che può anche dare origine a precipitazioni. Il filmato termina con le istruzioni per costruire da se’, il proprio “cloud buster”, capace di ripulire il cielo da queste formazioni nuvolose anomale. Il fenomeno delle scie chimiche, prodotte, volutamente attenzione, e non come effetto collaterale dei motori endotermici degli aerei stessi, ha vasta eco sulla rete. Vi sono molti siti che ne parlano e, pare vi sia addirittura la testimonianza di un meccanico addetto alla manutenzione degli aerei di linea, che avendo scoperto accidentalmente l’esistenza di tubature e serbatoi appositi, che terminano con ugelli sulle ali degli aerei, ha passato dei guai, ha subito intimidazioni e minacce, perché tutto questo sarebbe top secret (aggiungere indirizzo sito).
Per farla breve, tanto il ciondolo, in questione, come anche altri oggetti più grandi, come pure il citato “acchiappa nuvole”, sono composti dai medesimi insiemi di sostanze, che sul sito chiamano “orgonite”, vale a dire, materiale organico (resina), scaglie metalliche, e cristalli di quarzo, ed avrebbero come unico scopo di neutralizzare gli effetti del sistema composto dalle torri e dalle scie. Un modo di bonificare l’ambiente in cui viviamo. Il ciondolo in particolare dovrebbe attirare energia “buona” per l’individuo che lo porta al collo, neutralizzando l’energia “cattiva”.

Ed ora veniamo a quanto sono riuscito a sapere sul Canuto. So che a questo punto ti domandi sempre come faccia io ad avere informazioni sulle persone, ma permettimi di mantenere un certo alone di mistero, se non altro per una personale mia piccola vanità, perché se te lo dicessi, scopriresti che non si tratta di nulla di trascendentale, ma ha molto a che fare con l’uso dei sistemi informatici, per i quali tu, ti ostini ad avere una certa diffidenza, che in parte comprendo.
Michele Canuto si è diplomato come geometra all’Istituto La Salle di Torino, senza infamia ne’ gloria. Pur essendo stato iscritto all’albo dei geometri, non ha praticato a lungo la libera professione nel suo campo. Ha lavorato invece quasi tutta la vita come artigiano pasticcere, avendo appreso quest’arte da uno zio materno. È incensurato, non ha precedenti, ma è stato chiamato in caserma dal maresciallo dei carabinieri, del paese dove ha risieduto molti anni fa, per una baruffa fra vicini. Aveva dato uno schiaffo ad un vicino di casa, perché questi faceva schiamazzi mentre la bambina piccola del Canuto dormiva. Il maresciallo ha ricomposto la cosa evitando la denuncia e facendo riconciliare i due.

Bingo! Pensò il maresciallo Melis, mentre scorreva il finale della lettera, ripromettendosi di leggere in seguito gli allegati, tratti dal sito dove si parlava della costruzione dei ciondoli e degli “acchiappa nuvole”. Quest’ultima cosa lo faceva sorridere, ma, da uomo dalla grande apertura mentale quale era, non si sentiva di relegare questa idea nel campo delle fantasie irrealizzabili, senza averci dato prima almeno una occhiata.
Il Canuto è, tutto sommato, una persona tranquilla, a modo, ma se gli toccano i figli, si incazza di brutto, e potrebbe essere capace di tutto. Se scopro un legame, tra qualcuno dei figli e Maccaluso Vincenzo, avrei trovato un movente per l’omicidio. Fu allora che gli vennero in mente i tabulati telefonici inviatigli da Aurelio Cicognara. Quando erano arrivati, gli aveva dato solo un’occhiata distratta, dato che supponeva si trattasse di numeri e nomi sconosciuti. Quanto interferisce con la percezione, il preconcetto, la presunzione, il credere di sapere le cose a priori!
Invece eccolo là il nome significativo di Sara Canuto, a partire da tre mesi avanti la fine del tabulato, ricorrente, praticamente ogni giorno. Il legame c’era eccome, ma come dimostrare questa cosa? Doveva affrontare il Canuto, in via ufficiosa, ponendo la domanda come per caso. Se le cose stavano come pensava, e il Canuto era davvero simile all’idea che Melis si era fatto di lui, non sarebbe entrato tanto facilmente nelle sua rete. Come fare?
Uscì per fare due passi. Camminare lo aiutava a pensare. Era quasi ora di pranzo e decise di andare a comprarsi qualcosa da mangiare. Magari un panino, un poco di pizza. Stava per entrare in panetteria, quando la sua attenzione fu attratta da una locandina, che pubblicizzava un corso di informatica, che si teneva a Calcinere, nella vecchia scuola. Ossia la casa del Canuto. Considerò di andare ad iscriversi, come privato cittadino, prendendo così due piccioni con una fava. Avrebbe avuto modo di affrontare l’argomento che gli stava a cuore, e magari avrebbe imparato qualche cosa, in vista del suo imminente pensionamento. Se voleva scrivere, sicuramente un computer era un ottimo mezzo. Sì. Sarebbe andato quel giorno stesso.
In quel momento la porta del negozio si aprì e ne uscì Elisa. Bella e radiosa, nonostante fossero passati dieci anni, Elisa si bloccò per una frazione di secondo, divenne tutta rossa in viso, ma si riprese, lo salutò formalmente con:
– Buon giorno maresciallo.
E si allontanò in fretta. Non si riprese così in fretta Egidio, il quale, per un periodo di tempo che parve a lui stesso una eternità, se ne rimase lì, davanti alla porta della panetteria, con la bocca aperta, e una espressione di stupore sul viso. Il cuore aveva accelerato il suo ritmo e il maresciallo si costrinse ad entrare nel negozio, per togliersi di lì, nel caso qualche passante avesse notato la scena.

* * *

Stava pescando lunga la riva del fiume, quando vide, in un buco della terra sulla riva, una bomba a mano. Chiamò i Carabinieri ed attese. Quando fossero arrivati col canotto, avrebbe sparato in aria, con la sua pistola a salve, per attirare la loro attenzione.
Roberto Tucci, detto pusher, si svegliò alle quindici del pomeriggio, accanto ad un uomo sconosciuto, che evidentemente doveva aver portato a casa con se’, la notte precedente. Non aveva dubbi sul significato onirico della pistola a salve, dei Carabinieri, e della bomba nascosta nel terreno. Senso di impotenza sessuale; senso di colpa per ciò che faceva; desiderio di espiazione. Un classico. Emergendo lentamente dalle nebbie del sonno, e dai postumi della sbornia, che ora si manifestavano con dolori lancinanti alla testa e nausea, cominciò a ricordare il ragazzo che si era presentato come un cliente, del quale lui, aveva notato sopratutto il gonfiore nei pantaloni.
– Mi manda il “Nibelungo”.
Il Nibelungo era un cliente fisso, che pagava regolare. Un ottimo cliente che, come il ragazzo che gli stava di fronte, aveva lo stesso gonfiore nei pantaloni, ma stava dall’altra sponda: preferiva le femmine.
Così aveva cominciato a flirtare con lui, e, al termine della serata, se l’era portato a casa. Si alzò di scatto e tutto prese a vorticare. Corse in bagno, nudo come era, e vomitò.
Dopo si sentì meglio. Si fece una doccia. Doveva sempre lavarsi a lungo, dopo averlo fatto con un uomo. Senso di colpa, inculcatogli da ragazzo, da tutti quei preti ricchioni, del collegio in Sicilia, dove era stato messo dopo la morte del padre. Con la scusa della confessione, ti tenevano la testa vicino alla loro. Tenevano stretto e non riuscivi ad allontanarti. Così ti dovevi sorbire l’odore rancido di cerume delle orecchie e di sudore, di quei vecchi bacucchi. Con loro non l’aveva mai fatto e non l’avrebbe fatto mai, anche se loro ci speravano. Durante la confessione si eccitavano, con l’odore fresco di loro ragazzi, che anche quando erano sudati per una partita di pallone, fra una messa e una benedizione, sapevano di buono, di gioventù. Poi la sera si sarebbero masturbati nelle loro camerette. Pedofili.
Ma proprio lì, in collegio, aveva iniziato ad appartarsi, con Guido, un ragazzo timido, dal volto delicato, come una ragazza, dagli occhi verdi ed i capelli biondi. Si appartavano in un vecchio magazzino, nel quale avevano trovato il modo di entrare. All’inizio era stato come un gioco di bambini. A turno fingevano che uno dei due fosse una ragazza, e si baciavano sulla bocca, come avevano sentito raccontare, toccandosi con le rispettive lingue. Al cinema del collegio le scene di sesso e di baci erano tutte tagliate. Questi baci li eccitavano entrambi. I loro sessi spingevano duri come marmo, la tela dei pantaloni. Avevano iniziato a spogliarsi, a guardarselo, misurarlo. A guardarsi pisciare. A poco a poco, avevano imparato a masturbarsi a vicenda, in un crescendo di sensualità che li lasciava esausti, dopo parecchie eiaculazioni ad ogni incontro nel magazzino. Rimanevano ancora un poco, abbracciati, a confortare l’inevitabile solitudine e isolamento dal mondo vero, di ragazzi di collegio. Poi, una volta, Guido, di sua iniziativa, glie lo aveva preso in bocca. Era rimasto sospeso fra sorpresa e ribrezzo. Lui pensava che facesse troppo schifo fare una cosa del genere. Ma aveva tratto così tanto piacere, dall’azione spontanea di Guido, che, più per gratitudine che altro, la volta dopo l’aveva fatto anche lui, trovando che non era una cosa così schifosa. Anzi, trovò che l’odore del sesso di Guido, era molto più eccitante dell’odore del sesso femminile, quando ebbe modo più tardi di fare questa esperienza. Così avevano cominciato, a volte, a fare questo nuovo gioco, contemporaneamente, sdraiati l’uno accanto all’altro, con l’uno i piedi verso la testa dell’altro, con reciproca grande soddisfazione.
Ma lui non si riteneva un vero e proprio omosessuale. Sapeva che nel giro delle sue conoscenze, (data la sua precaria situazione, non poteva parlare di amicizie) tra quelli con i quali non aveva mai fatto sesso, veniva definito “omosessuale che ancora non sa di esserlo”. Andava a volte, anche con le donne. Ma non era così soddisfacente come con Guido. In realtà, quando poi la vita li aveva separati, non era stato mai più così soddisfacente come allora. Il primo amore non si scorda mai. Fu la ricerca della soddisfazione originaria, a condurlo alla cocaina. Dall’uso personale allo spaccio, è soltanto un piccolo passo. Una necessità. In collegio gli avevano insegnato il mestiere di falegname. In verità avrebbe potuto campare con quello, ma non avrebbe potuto permettersi la coca. Rimedio principe contro i mali del mondo. La depressione nera che ti prende al risveglio, quando apri gli occhi su un mondo di merda come quello nostro.
Aveva cominciato a spacciare quando faceva il barista, in un bar di un piccolo paese. Il via vai nel bar aveva attirato l’attenzione dei Carabinieri, ed era finito in carcere. Parecchie volte. Mentre entrava ed usciva di prigione, aveva conosciuto Silvana, che frequentava quando era fuori, e con cui corrispondeva quando era dentro. Forse la donna della sua vita. A parte sua madre, naturalmente. Forse. Ammesso che nella sua vita fosse davvero necessaria una donna.
Spacciando gli giravano per le mani un sacco di quattrini. I quattrini ti abituano a dei piccoli lussi, che, senza di essi, non ti puoi permettere. È estremamente facile, abituarsi ad una vita più agiata, venendo da dove veniva lui, il collegio dei preti. Molo più difficile tornare indietro, da una vita di lussi, coca compresa, ad una vita di falegname con mille euro al mese. Ci aveva anche provato. Aveva, per un periodo di sei mesi, lavorato come modellatore in legno per stampi di fusione. Giornate dure, tra la puzza delle resine e le fibre di amianto che volavano nell’aria, mentre qualcuno le mescolava alla resina stessa. Con l’amianto non si scherza. Ti puoi beccare un tumore ai polmoni e, buonanotte suonatori. Anche se era dura, ci teneva alla vita lui. Magari l’aveva già preso, e ancora non lo sapeva. Poi, dai mille euro comincia a togliere le spese per l’affitto, la luce, il riscaldamento. Alla fine cosa ti resta?

Si rasò, si infilò gli slip puliti ed andò in cucina a preparare una moka di caffé nero. Svegliò il suo compagno di una notte, e gli spiegò che doveva uscire, e che quindi avrebbe dovuto andarsene. Insieme si sorbirono lentamente il caffè, fumando la prima sigaretta della giornata. Un poco gli dispiaceva, ma doveva far sloggiare subito il ragazzo. Si scambiarono senza convinzione i rispettivi numeri telefonici, consapevoli entrambi che il loro tratto di vita insieme, si era esaurito in quella notte. Maurizio, gli aveva detto di chiamarsi, anche se, sapeva che avrebbe potuto essere un nome falso. Nel suo ambiente, nessuno si presentava, carta di identità alla mano. Quel giorno doveva andare a rifornirsi. Doveva tirare fuori il malloppo da sotto la mattonella, sotto la cucina a gas e, non voleva nessuno intorno, quando si trattava di affari, gonfiore o meno nei pantaloni. Nella sua situazione, non poteva permettersi relazioni fisse. Ne le desiderava. Doveva cambiare spesso casa e abitudine. Gli sbirri gli stavano col fiato sul collo, e, regolarmente lo beccavano. Faceva qualche mese di carcere, poi usciva e ricominciava come prima. Che altro poteva fare?

Quando quella sera si accinse a “lavorare”, nel parco giochi del paese, abbastanza in penombra da servire al suo scopo, si presentò un ragazzo mai visto. La faccia da bravo ragazzo o da sbirro lo insospettì. Per precauzione aveva in tasca una sola dose, che non permetteva di distinguere tra spaccio e uso personale. Le altre erano nascoste, sparse in vari punti del parco giochi. Questo pensiero gli ricordò il sogno della notte precedente. Quello era sicuramente un carabiniere.
– Che vuoi?
– Coca.
– Non so di cosa parli. C’è un bar qua vicino. Prova lì, per la tua coca.
Per tutta risposta il ragazzo mostrò il suo tesserino d’identificazione. Come per magia, altri carabinieri, in divisa, si manifestarono ai quattro lati del parco giochi. Lo sapeva. L’aveva sognato. Era un avvertimento che gli mandava suo padre. Da quando era morto, lo sentiva come un suo personale Angelo Custode. Quella sera avrebbe dovuto starsene a casa. Sarebbe finito di nuovo “dentro”, dove qualcuno avrebbe approfittato di lui. Questo proprio non lo sopportava.
– Devi seguirci in caserma, Tucci. Il maresciallo Cicognara vuole fare due chiacchiere con te.
– Io non ho fatto nulla!
– Sì. E io sono Babbo Natale. Seguici senza fare storie, che ti conviene.
– Voglio prima chiamare il mio avvocato.
– Che te ne fai dell’avvocato, se non hai fatto nulla? Te l’ho detto, si tratta solo di una semplice chiacchierata fra amici, informale.
Tucci, strattonò il braccio che l’altro gli teneva e tentò una piccola corsa. Ma subito due degli altri carabinieri lo acchiapparono, vanificando il suo inutile quanto disperato tentativo.
– Come te lo devo dire, Tucci? Vuoi che ci si metta a perquisire a tappeto questo parco giochi? Vediamo se troviamo qualche dose, qua e là fra le altalene e gli scivoli? Tu sai chi siamo noi, e noi sappiamo chi sei tu. Se fossimo qui per la droga non avresti scampo. Quindi seguici senza fare storie. Prima si inizia questa chiacchierata, prima si finisce.

* * *

– Benvenuti a questa prima serata del nuovo corso di informatica. Non siamo molto numerosi, così potremo approfondire meglio l’argomento. Vedo che fra noi c’è anche il maresciallo Melis. Benvenuto fra noi.
– La prego, geometra Canuto. Non sono qui in veste di maresciallo. Come vede sono in borghese. Sono qui, come privato cittadino. Come futuro pensionato, spero. In quella veste, per fare scorrere meglio il tempo, penso che mi servirà un computer, quindi, desidero capirne qualcosa. Sono troppo vecchio per seguire i corsi organizzati dall’arma, per i quali dovrei scendere in città e ormai, essendo divenuto un montanaro, cerco di evitare il caos cittadino.
Il Canuto mutò espressione per un attimo, quando Melis lo chiamò geometra. Questo significava che il maresciallo aveva indagato, chissà perché, e non gli piacque per nulla. Ma subito riprese a sorridere al suo piccolo pubblico di cinque persone. Tre uomini e due donne, tutti della borgata, escluso il maresciallo, che era forestè3, nel duplice senso, che veniva da fuori borgata e da fuori Piemonte.
Il corso si teneva in un locale al pian terreno della casa del Canuto, la vecchia scola4 della borgata. Una specie di cucina, tavernetta, dove sul fondo, faceva bella mostra di se’, un antico forno a legna, ristrutturato e completamente piastrellato di bianco all’esterno. Probabilmente si tenevano in quello stesso locale, tutti gli altri corsi per anziani, compreso ovviamente, quelli di pasticceria e panificazione, perché era un locale grande. A Melis passò per un attimo nella mente, l’immagine dell’uccisione del Maccaluso, proprio in quel locale. Si figurò che gli abiti fossero finiti bruciati nel forno, oppure nel vecchio focolare accanto ad esso. Intuizione o fantasia?
Al centro del locale, troneggiava un massiccio tavolo di legno spesso, lungo una decina di metri, che poteva ospitare una trentina di commensali. Su di esso un vecchio schermo di computer, smisuratamente grande per lo schermo effettivo. Voluminoso, se paragonato ai moderni schermi al plasma, sottili e leggeri. Ma per lo scopo a cui serviva, presentare cosa fosse un computer, a gente che, per la maggior parte non ne aveva mai posseduto uno. Era spento e rivolto agli “studenti”, i quali stavano dalla parte del tavolo opposta al forno, mentre il Canuto stava dall’altra parte. Sotto lo schermo una tastiera e, di lato, il computer vero e proprio, e una vecchia stampante ad aghi, alimentata con carta bucherellata sui lati, a modulo continuo. La scatola contenente la carta stava sotto il tavolo. I fili che li collegavano passavano sul lato del tavolo in cui stava il “docente”. Su un lato del tavolo un vassoio, con bicchieri di plastica, bottiglie di acqua di vetro anonimo, vecchie bottiglie di vino dal vetro chiaro. Un bottiglione di vino.
Il Canuto tenne la lezione in modo schietto, con un linguaggio semplice, comprensibile a tutti, premettendo di essere un auto didatta, non già un esperto informatico. Ma per il suo uditorio, questo era sufficiente. Procedeva lentamente, assicurandosi che i presenti avessero capito, prima di passare all’argomento successivo. Leggeva da appunti scritti a mano, ma aveva sul tavolo anche un libro anonimo, coperto di un cartone bianco, che alla fine indicò come testo per chi volesse approfondire. Un libro che si poteva “scaricare” da internet. Per chi avesse voluto consultarlo, ne aveva due copie, stampate da se’, e rilegate grossolanamente anche da lui stesso, ma che servivano allo scopo. Dopo i primi rudimenti, venne acceso il computer sul tavolo, solo per illustrare le varie componenti e presentare dapprima alcuni sistemi operativi. Microsoft DOS, Windows, Linux.
Il Canuto parlò del monopolio ormai quasi assoluto di Microsoft, e non nascose il suo disappunto, per la scomparsa, o meglio, l’inutilità, ormai, del vecchio DOS, a causa del sistema operativo Windows, che, nelle versioni più recenti, assume il controllo assoluto della macchina, impedendo all’utente, operazioni che prima erano possibili con il DOS. Un controllo dittatoriale, da parte di Microsoft Windows, con i nuovissimi sistemi operativi più recenti, che sono controllati in modo remoto, attraverso la rete, dalla casa madre. Non solo, ma il connubio con molti produttori di hardware, le componenti elettroniche dei computer, il software viene fornito già installato, impedendo all’utente la personalizzazione del sistema che si è acquistato, rendendo difficile, non solo il ripristino, in caso di incidenti e virus informatici, ma addirittura non si capiva bene che cosa si acquistasse e con quali diritti. A proposito di virus, volle sfatare la “leggenda metropolitana”, dei virus prodotti dai cosiddetti hucker, nella penombra della loro cameretta, ma, chiese, a chi potrebbe giovare, se il vostro computer, dopo un breve periodo, va in tilt, così che occorra comprarne un altro? La risposta era chiara a chiunque vi riflettesse un tantino. Fece l’esempio delle stampanti a getto di inchiostro ormai dotate di chips sulla cartuccia. Usate da Windows, le stampanti vanno in blocco, prima che l’inchiostro sia completamente esaurito. Usate su un sistema Linux, non solo utilizzano tutto l’inchiostro, ma il PC continua a inviare dati in stampa anche dopo, dato che Linux non è in combutta con i produttori di hardware. La stessa cosa succede con le automobili moderne: se non fai tagliandi si bloccano. E forse stanno studiando di mettere i chips sotto pelle alle persone! Si accorse di avere divagato.
Quindi passò all’elogio dei sistemi operativi UNIX, e del software prodotto dal popolo della rete. Sistemi operativi “aperti”, open source, che mettevano a disposizione il codice sorgente, con la possibilità per chiunque si intendesse di linguaggi di programmazione, di modificarlo a suo piacimento, con la sola condizione di condividere con gli altri utenti in rete, le modifiche apportate. Un sistema più “democratico”, quello dell’open source, al contrario di Microsoft, che non mette a disposizione il codice, perché, evidentemente, ha qualcosa da nascondere.
Concluse con un consiglio, per chi fosse tentato di provare a dedicarsi a questo nuovo hobby, di acquistare macchine usate, dotate di sistemi operativi antecedenti a Windows XP, che erano facilmente reperibili e, in caso di incidenti o di virus, si poteva reinstallare il sistema operativo di Microsoft, e magari aggiungere, in una partizione diversa, una distribuzione di Linux, che avrebbe poi mostrato nelle future lezioni. Tanto funzionavano nello stesso identico modo. I vecchi computer, disse, erano facilmente reperibili in quanto, i giovani, vengono tentati con macchine dai processori sempre più veloci, allo scopo magari di scaricare e manipolare filmati digitali. Ma per un uso lento, da pensionati, le vecchie macchine vanno ugualmente bene. Inoltre, disse, le macchine più veloci, sono ritardate poi da software sempre più complessi, che, lungi dal semplificarci la vita, con tecnologie nuove, come ad esempio le trasmissioni senza fili, fanno poi perdere un sacco di tempo. Molto più del tempo, che il processore veloce ci fa guadagnare. Sfatiamo il mito, come si vede nei film dove si vedono computer super moderni, ad alta tecnologia, che con la pressione di pochi tasti, si fa qualsiasi cosa in breve tempo: non è mai così semplice. Infine, il tempo è la nostra principale risorsa, in questa fase della nostra vita. Si offerse, nel caso, di interessarsi di persona, per l’acquisto di macchine usate.

Dopo circa un’ora, la lezione terminò gradatamente, passando ad argomenti più vicini agli ascoltatori, che erano montanari, pensionati, fino ad arrivare a parlare poi del più e del meno. Il Canuto fece promettere a Giacolin, che avrebbe tenuto corsi di giardinaggio. L’anziano era preoccupato del fatto di non saper parlare in pubblico, ma sapeva molto bene come coltivare lattuga e fiori. Quali fossero le stagioni giuste per seminare oppure trapiantare, determinate verdure. Canuto si offerse per aiutarlo a preparare le lezioni, prima di presentarle al pubblico. Era lui stesso molto interessato all’argomento, data la sua insistenza. Disse che da giovane, aveva aiutato suo nonno e suo padre, ma limitandosi a fare il manovale, che magari vangava, ma senza preoccuparsi di imparare. Errore che commettono quasi tutti, quando si è giovani, ma di cui si pentono, quando viene loro la curiosità, di fare delle cose che saprebbero fare, se solo avessero dato ascolto ai loro vecchi. Aprì qui una parentesi sul fatto che il miglior modo di trasmissione culturale, era quello diretto, da maestro ad allievo. I libri erano utili, ma non erano la stessa cosa. Il problema era capire, che anche fare l’orto era cultura. L’essenza stessa di quella università, era lo scambio di ciò che si sapeva fare.
Si distribuirono i bicchieri e praticamente tutti, bevvero del vino rosso, portato, si seppe poi, da uno degli allievi.
Melis si reputò soddisfatto della lezione e della compagnia, dimenticando quasi, il vero motivo della sua presenza al corso. L’ambiente era cordiale e alla buona, con l’unica eccezione che, tutti quanti, mantenevano un pochino le distanze proprio da lui, non tanto come persona, ma come istituzione da lui rappresentata. Anche se, dopo la circolazione del pinton5 di vino, Melis si sentì più accettato di prima. Tutti si davano del tu, e Melis acconsentì di essere trattato allo stesso modo, precisando però, che se si fossero incontrati in circostanze ufficiali, sarebbe stato costretto a dare loro del lei, come a chiunque. Ma la faccenda del tu, gli complicava la vita con il Canuto. Già era imbarazzato per il fatto che provava una simpatia innata per lui, trovandolo in molte cose simile a se’ stesso. Inoltre la docenza della Libera Università Sestante, glie lo rendeva ulteriormente simpatico.
Melis fu l’ultimo ad andarsene. Quando rimasero soli, continuarono a parlare di libri, di cultura, e Melis si sentiva molto imbarazzato ad indagare su quell’uomo, a porgergli finalmente la domanda, che aveva sulla punta della lingua, perché già sapeva, che se era davvero stato lui, aveva un movente estremamente valido.
Nulla in terra più l’uomo paventa, se dei figli difende l’onor! 6
– Perché l’hai fatto?
Si guardarono a lungo negli occhi. Entrambi si riconoscevano, in quelli dell’altro. Dopo una pausa che parve un’eternità, Michele Canuto rispose.
– Quando si va finalmente in pensione, si sarebbe tentati di darsi al riposo totale, assoluto. Credo sia la cosa più sbagliata che si possa fare. Bisogna coltivare degli interessi e condividerli con i propri simili. Tutti noi abbiamo qualcosa da insegnare agli altri. Il che, rovesciandolo, significa, che tutti noi abbiamo qualcosa da imparare dagli altri. L’idea stessa di cultura, implica la trasmissione, da un uomo ad un altro. Diversamente non avrebbe senso parlare di cultura. L’idea del Sestante, come università della terza età, mi venne molti anni fa, quando la pensione era soltanto una utopia, qualcosa di molto lontano e vago, forse irraggiungibile. Mi sembrava che sarebbe stato uno shock terribile, ritrovarsi da un giorno all’altro, con un sacco di tempo a disposizione. Bisogna inventarsi qualche cosa. In fondo lo fanno tutti. Chi si dedica a coltivare l’orto. Chi al bricolage. Chi va in bicicletta e chi va a funghi. Io faccio un po’ di tutte queste cose, compreso scrivere e leggere, ma non basta. Sono tutte cose che non hanno un senso sociale. L’uomo deve fare qualcosa di socialmente utile. Alcuni sono volontari della protezione civile, altri fanno servizio sulle ambulanze. Io non mi sentivo portato per queste cose. Quando ne parlo, mi viene sempre in mente il film con Totò, Il comandante, nel quale il protagonista, quando viene messo in pensione, lo vive quasi come un affronto, ma reagisce accingendosi a scrivere un’opera colossale: le sue memorie di guerra. Intendiamoci, è una idea validissima, ma è sempre un qualche cosa che si fa in solitudine, nella propria cameretta. Non è detto che poi diventi trasmissione culturale. Nel film, il manoscritto, prende fuoco nella mansarda, incendiata dal fulmine. Quel fulmine è stato attirato da un’altra impresa disperata dei pensionati: la vendita dei parafulmini. Senza il parafulmine, la casa non era mai stata colpita. Tutto il film sembrava voler sottolineare l’inutilità delle imprese a cui si dedicano quei poveri anziani, come la navigazione dei modellini di battelli sul laghetto. Come se, fossero diventati dei bambini senza futuro. Forse è questo che siamo. Ed è senza dubbio questo, che ci spaventa.

Egidio Melis, profondamente toccato da questo discorso, che lo riguardava da vicino, eccome, non ebbe il coraggio di porre la domanda in modo più esplicito e rimandò alla lezione successiva.

* * *

– Allora, Tucci, lo conosci?
Tucci lo conosceva eccome, ma non voleva che gli sbirri lo sapessero. Si ricordava perfettamente di lui. Ricordava con precisione la prima volta che era venuto da lui per la coca. Immediatamente aveva riconosciuto in lui, il bullo del collegio in Sicilia. Quello che se la prendeva con i più deboli. Quello che una volta gli aveva fatto leccare il bordo del water, perché era grande e grosso. E prepotente. Anche se pagava regolarmente quello che prendeva, almeno all’inizio, quell’uomo gli faceva paura. Era come se fosse una bomba innescata, che aspettava soltanto che qualcuno provocasse la scintilla. Così tutta la violenza che aveva dentro, si sarebbe riversata all’esterno, su chi gli stava davanti, chiunque fosse. Il suo aspetto fisico imponente, da atleta, faceva paura non meno della bestia che aveva dentro. Non seppe mai se fosse stato riconosciuto dal Maccaluso. E non lo voleva sapere.
Aveva letto i giornali. Sapeva perfettamente che era stato ritrovato il suo cadavere, e dove. Riposi in pace. Adesso il mondo è più sicuro, senza di lui. Erano gli occhi, quelli che maggiormente inquietavano. Quegli occhi a spillo, fissi, quasi immobili, che non smettevano mai di fissarti, come se aspettassero di cogliere un tuo sbaglio, per poi ucciderti. Occhi assassini. Nemmeno se fosse stato anch’egli gay, non avrebbe voluto avere niente a che fare con lui. Roberto Tucci sapeva riconoscere le persone, dopo una sola occhiata. Non fosse per quello, era un bell’uomo. Sicuramente era uno “sciupa femmine”. Rabbrividì all’idea di quell’uomo nel suo letto.
– Mai visto prima.
– Allora come spieghi che vi siete telefonati parecchio, prima che scomparisse? Credi forse che siamo fessi? I tabulati telefonici: ne hai mai sentito parlare?
– Non è legale. Ho tutto il diritto di telefonare a chi mi pare. Voglio il mio avvocato.
– Lo avrai. Ma raccontaci qualche cosa, prima. Tanto te l’ho detto che questa è soltanto una chiacchierata fra amici.
Il maresciallo Cicognara era persuaso che questo ragazzo mingherlino, dai modi quasi effeminati, non c’entrasse per nulla con la morte del Maccaluso. Doveva comunque fare il suo lavoro. I superiori si basavano sulle carte. Verbali di interrogatorio, intercettazioni, tabulati telefonici. L’intuito investigativo non aveva voce in capitolo. Così ti toccava perdere un sacco di tempo con le scartoffie, e le piste inutili, quando si sarebbe potuto risparmiare tempo e personale. Ma così va il mondo. E non è detto che non ci sia uno scopo, dietro ad un modo di procedere, che lui definiva, a testa bassa, come il toro che carica nell’arena, accecato dall’ira e dal sangue.
– Via, maresciallo, noi non siamo amici. Va bene, lo conoscevo ed ho letto i giornali. Va bene così? Gli fornivo qualche spinello, un poco di coca. Lui mi pagava e fine della storia.
– Ha sempre pagato regolarmente?
– Certo che pagava, altrimenti non gli avrei più venduto nulla. All’inizio li aveva sempre anticipati. In ultimo, gli ho fatto credito qualche volta, ma alla volta successiva mi pagava. Non posso mica fare la beneficenza io. Se a mia volta non pago i fornitori, mi ritrovo in una colata di cemento, e buonanotte suonatori.
– E questo che cosa è secondo te?
Tucci prese la busta con il ciondolo e la guardò attentamente. Resina. La sua breve esperienza lavorativa gli disse che si trattava di resina, mescolata con scaglie di metallo. Un ciondolo? Anche brutto da vedersi. Chi diavolo avrebbe portato al collo una cosa di così pessimo gusto?
– Non saprei. Era della vittima?
– Ti sei scordato che le domande le facciamo noi, in questo gioco?
– Va bene. Fategli firmare il verbale dell’interrogatorio e lasciatelo andare, per questa volta. Personalmente ti consiglierei di smettere di spacciare e di trovarti un lavoro. Ti tengo d’occhio, Tucci. Potremmo ancor avere bisogno di te.

* * *

I due uomini stavano pranzando al Sud America, sulla piazza di Paesana. Era domenica e c’erano pochi clienti. Non parlarono del caso durante il pranzo, per evitare che qualcuno li sentisse. Aurelio Cicognara era venuto a trovare il collega per riferire personalmente ciò che sapeva, cioè poco o nulla. Avrebbe fatto volentieri la gita in montagna con la moglie, ma, poiché Melis non era sposato, era venuto solo. In parte per non metterlo a disagio, in parte perché, non essendoci un’altra donna, ad intrattenere sua moglie, non avrebbero potuto parlare liberamente.
Un pranzo semplice, ma tutto buono e genuino. Per primo presero entrambi gnocchi. Melis li prese ai formaggi, Cicognara, al ragù. Per secondo trota ai ferri, con fagiolini e patate. Infine presero un caffè ed un genepì. Mentre sorbivano questa specialità di montagna, decisero di salire sul luogo del delitto, per digerire il pranzo e farsi una passeggiata, in quella splendida giornata, di un inverno che somigliava ad una primavera, senza neve e con giornate limpide. Non fosse stato per il sole che correva basso all’orizzonte, e alle sedici tramontava, e per gli alberi spogli, si sarebbe potuto davvero credere di essere in primavera.
Salirono in auto fino a Ferrere, poi proseguirono a piedi. All’inizio ansimavano, per il pranzo recente, poi, presero un passo stabile, un ritmo, non troppo veloce, non troppo lento, senza fatica. Erano entrambi in buona forma fisica.
In alto nel cielo volteggiavano dei corvi. Ogni tanto lanciavano il loro stridulo verso.
Cicognara, a pranzo, si era sfogato con il collega. La moglie aveva un tumore, ma nessuno dei due credeva nella possibilità di guarire facendo terapie a base di radiazioni ionizzanti. Melis che aveva passato i suoi guai con la madre, si disse d’accordo con lui. Gli parlò delle molte terapie alternative, che a suo tempo, il collega Montanari gli aveva mandato in un plico voluminoso di fogli stampati, ricavati da vari siti internet, che gli avrebbe passato da leggere, appena scesi. In particolare, pensava che la terapia Pantellini, basata sull’ascorbato di potassio, fosse molto valida. Già Linus Pauling, Nobel per la medicina, aveva curato molte persone con la vitamina C, acido ascorbico, con successo.
– Ma il problema più grande è l’ostracismo della presuntuosa medicina ufficiale, che crede di essere l’unica vera ortodossia nel settore dell’oncologia. Tutti sembrano scordare che la scienza è un insiemi di punti di vista, spesso discordanti tra loro, continuamente in divenire. Essa deve essere capace di ritornare sui propri passi, qualora nuove scoperte e acquisizioni, avessero confutato le vecchie convinzioni. Il problema vero è che c’erano in quel campo interessi multimiliardari: le costose “chemioterapie”.
Melis, che a suo tempo aveva letto molto per cercare di farsi una idea, disse che ci voleva una buona dose di malafede, da parte degli oncologi, a portare avanti il discorso di “uccidere” le cellule cancerogene con le radiazioni ionizzanti. È vero che quelle cellule sono più vulnerabili di quelle “normali”, ma è anche risaputo che le radiazioni ionizzanti sono uno dei pochi mezzi sicuri se si vuole indurre artificialmente un tumore.
– I pazienti trattati in quel modo, che gli oncologi hanno il fegato di chiamare “mirato”, sviluppano sicuramente altri tumori indotti dalle radiazioni. Alla fine muoiono per quelli. Loro lo sanno. La medicina a quel punto li abbandona, fornendo soltanto più terapie antalgiche. In ultimo si diventa morfinomani, per evitare i dolori inenarrabili.
Se qualcuno ci dicesse di andare a Cernobyl, oppure ad Hiroshima, dopo l’esplosione nucleare, per curare un tumore, gli diremmo che è pazzo. Gli oncologi scatenano delle piccole Hiroshima nell’organismo delle persone e tutti si precipitano speranzosi da essi. Infine, quando le persone muoiono, dopo questi trattamenti, disumani e disumanizzanti, la gente ha ancora fede in loro, al punto di scrivere sui necrologi, “non fiori, ma offerte per il Centro Tumori”. Come se non avessero ricevuto abbastanza denaro, queste istituzioni, negli ultimi cinquanta anni.
A quanto risultava dagli scritti mandati da Montanari, la maggior parte del denaro, anziché nella ricerca, va a finire in investimenti immobiliari!
– Il problema è che la medicina è patrocinata dalle industrie farmaceutiche, le quali non hanno alcun interesse ad eliminare le malattie, ma soltanto sfruttarle per il loro guadagno. Finché vivremo in un mondo strutturato sul profitto, non possiamo attenderci che esista una medicina che agisca per il bene del malato. La medicina ufficiale occidentale odierna è il prodotto di questo storicamente attuale sistema economico, del profitto ad ogni costo.
Altre culture hanno prodotto altri tipi di medicina.
– Infine va detto, -e in questo Melis era fresco della lettura del librone regalatogli da Alfonso- che chi governa il mondo, è ossessionato dal controllo demografico della popolazione: i tumori, come le guerre, sono perfettamente utili allo scopo del controllo malthusiano della popolazione. Pensa che l’attuale marito della regina d’Inghilterra, pare abbia detto in pubblico, che se gli succederà di reincarnarsi, di rinascere dopo la sua morte, vorrebbe essere un virus letale per l’umanità.

Melis si fermò ad una curva, per mostrare al collega, fra gli alberi più in basso, l’amena chiesetta di Pian Lavarino, costruita sul bordo di un orrido precipizio, ornata all’interno da quadri votivi di persone caduteci e salvatesi miracolosamente. Si fermarono ad ammirare le baite ristrutturate della borgata Cermolin, e per bere alla fontana sopra di essa, raccogliendo l’acqua che usciva in un piccolissimo rigagnolo dal tubo, data la siccità invernale, nelle mani giunte a coppa.
Dopo pochi minuti giunsero sulla roccia del ritrovamento. Sostarono alcuni minuti in piedi, poi si sedettero sulla roccia stessa. Melis indicò la direzione del Mon Viso, che non era visibile da lì. Poi si girarono a godersi gli ultimi raggi di un sole ormai basso, di poco sopra le cime delle montagne davanti a loro.
Riassunsero tutto quel che sapevano sul caso, e Melis confidò al collega, di avere un vago sospetto, su una persona, collegata alla vittima, tramite la figlia, come rilevato dai tabulati telefonici. Sapeva di potersi fidare, mentre gli parlava guardandolo negli occhi.
– Il problema è che non ho nulla di oggettivo in mano da portare in un tribunale. Anche se decidessi di perquisire la casa del sospetto, dove quasi sicuramente è avvenuto l’omicidio, è difficile che si riesca a rilevare tracce di sangue o altro materiale organico della vittima, dopo così tanto tempo. La “scena” del crimine, nella migliore delle ipotesi, sarà stata lavata accuratamente centinaia di volte, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, la casa in questione sarà come minimo stata ristrutturata, dopo l’omicidio. Con le serie televisive CSI, si illude la gente che la scienza investigativa possa fare miracoli, cosa che in realtà non è. Mi viene in mente, per esempio, non so se te lo ricordi, il famigerato delitto di Cogne, che arrivò in tribunale pressappoco all’epoca del nostro delitto. I nostri del RIS di Parma, che ritengo capaci di svolgere il loro lavoro, non riuscirono a trovare nulla di definitivo. Inoltre, e qui entra in ballo un’altra questione, che qui ti confido e qui nego, non credo più molto nell’idea di giustizia, che mi ha portato da giovane a fare questo lavoro. Al di là del caso specifico, delle quaranta puntate di Porta a Porta, e di altre trasmissioni televisive; io non voglio nemmeno entrarci nella diatriba se, la mamma del bambino fosse colpevole o innocente. Ma se i tribunali dei vari gradi l’hanno ritenuta tale, perché non ha mai scontato le condanne inflitte?
– In questo hai pienamente ragione. Anche io la penso come te e sto vivendo la stessa crisi. Inoltre aggiungerei ancora una cosa. Proprio in quello stesso periodo, vi furono moltissimi casi di madri che prima o dopo confessarono di aver ucciso esse stesse i loro figli. Ma, i veri colpevoli, non finiranno mai in tribunale. Molte, se non tutte, quelle donne, assumevano psicofarmaci. Occorre essere davvero sotto l’effetto di potenti stupefacenti, per commettere simili delitti, in un paese come il nostro, dove la mamma è una istituzione, che darebbe la vita per la prole. Delitti contro natura per i quali dovrebbero essere processati gli inventori degli psicofarmaci, le case farmaceutiche che li distribuiscono, i medici che li prescrivono con tanta leggerezza. Anche lì c’è un business enorme.
– E noi siamo due Don Chisciotte ormai vecchi! Pronti per il pensionamento. Io ci conto molto, anche per uscire dignitosamente da questo caso. Oltre a tutto il resto, se mi domando quale sia stato il movente, in questo caso, non posso che rispondermi che l’assassino ha scoperto che quel…pace all’anima sua, probabilmente picchiava la figlia, magari l’aveva iniziata alla droga. Insomma, io non sono la persona più indicata per capire cosa prova un padre…-Melis fece qui una pausa troppo lunga- ma forse avrei fatto lo stesso, se non fossi un maresciallo dei carabinieri. Il sostituto procuratore Caruso insiste che si tratti di un delitto di mafia. Ebbene sia. Cosa ne dici?
– Perfettamente d’accordo con te. Diamo ragione al procuratore. Sappiamo chi è l’assassino, conosciamo il movente, ma non abbiamo prove. Non possiamo fare nulla. Forse non vogliamo, fare nulla. Quanto a me, ho già scordato buona parte di questa conversazione.
E ridiscesero lentamente la montagna, sul sentiero
ormai completamente in ombra.