Data: 18/07/2013 10:45

- Titolo: Capitolo3: Ritrovamento.

– Maresciallo, la vogliono al telefono.
Gli tornò l’inquietudine del mattino. Aveva appena terminato il suo pranzo e si stava sorbendo un caffé corretto con grappa. L’ansia gli rovinò la digestione. Intuì che ciò che più temeva al mondo, era successo. Qualcuno, uomo o Dio, aveva deciso di rendergli penoso quel suo ultimo periodo, mesi forse, che lo separava dalla pensione, dalla sua casa ad Esterzili. Dalla serenità definitiva ed ultima. Imprecò mentalmente dentro di se’, mentre si avvicinava al telefono appeso al muro dietro il bancone del bar, e un sapore leggermente acido gli saliva in gola. Un buon pranzo non dovrebbe lasciare quel gusto in bocca, ma la colpa non era del pranzo, della cuoca, della trota o del grappino.

* * *

Nella terra scoperta davanti all’ingresso della tana, dove il passaggio continuativo dell’animale aveva creato un sentiero, delle candide ossa, chiaramente di una mano umana ancora miracolosamente attaccata, o forse soltanto normalmente allineata, a quelle dell’avambraccio, spiccavano sulla terra scura. Si spaventò e considerò il da farsi. Doveva segnalare il morto o le ossa o cosa diavolo fosse, alle autorità. Sarebbe andata per le lunghe. Sicuramente l’avrebbero fatto attendere sul posto l’arrivo dei carabinieri. Avrebbe fatto notte!
– Maledizione. Perché proprio io? Si domandò.
Questo cambiava anche la strategia del trasporto del cinghiale. Avrebbe potuto farsi aiutare a trasportarlo. Considerò che lasciarlo lì, avrebbe potuto giustificare il suo macabro ritrovamento. Come se avesse dovuto giustificarsi per questo. Quindi decise di cominciare ad andare a posare il fucile nel bagagliaio dell’auto, mentre avrebbe preso il cellulare che stava spento in auto. Così fece e tornò sulla roccia col telefono acceso.
Guardò giù e si accorse che ora che sapeva di cosa si trattava, la mano si notava anche la lassù, accanto al cinghiale anch’esso ormai senza vita. Una così bella giornata di caccia rovinata. E a casa, i suoi soliti problemi lo attendevano, come al solito. Tutto era stato vano. A parte la preda che avrebbe portato a casa, ovviamente. Gli passò fugace l’idea che la sua cacciagione potesse essere annoverata fra le prove, ma subito la accantonò.
Compose il 112.

* * *

Quando giunse sul pianoro del Ciaramolin, nei pressi della vasca dell’acquedotto, vide sulla roccia dove stava prima quando era salito, il cacciatore che parlava al cellulare. Probabilmente stava raccontando la sua avventura di caccia a qualcuno, pensò.
Non era destino, per lui quel giorno, di potersi avvicinare alla rocca. Decise di scendere e tornarsene a casa. Sarebbe tornato un altro giorno.
Mentre scendeva pensò al suo manoscritto, a come aveva avuto l’idea, all’entusiasmo iniziale, ed infine al “blocco”, dove era ormai fermo da molto tempo. Pensò alla figlia primogenita Caterina, la quale si trovava ora negli Stati Uniti.
Dopo la laurea in psicologia, aveva seguito un dottorato a Palo Alto, alla famosa scuola che trent’anni prima aveva dato il via al filone psicologico del comportamento umano come “comunicazione”, presentato per la prima volta al pubblico accademico con il libro Pragmatica della comunicazione umana1. Avendo egli stesso seguito un corso di psicologia all’università di Padova, aveva in qualche modo condizionato le scelte della figlia. Ricordava quella volta che l’aveva portata con se’, all’età di sei anni, dovendo soltanto andare a registrare il voto di Psicologia sociale con il professore Erminio Gius. Il docente si era rivolto alla bambina, chiedendole se capisse cosa stessero facendo lì, al che lei aveva risposto annuendo. Un periodo d’oro, pensava. Una avventura per la figlia, quel viaggio in treno dal Piemonte fino a Padova. Il pernottamento in un albergo, uno dei pochi momenti di intimità con la figlia.
Dopo il dottorato, Caterina si era fermata in California, si era sposata ed aveva avuto una bambina. Pensava che fosse felice, anche se si rammaricava di vederla di rado. Ancor di più si sentiva frustrato, per non vedere mai la nipotina. Ma l’importante era che loro fossero felici. Anche gli altri due figli erano “sistemati” bene, almeno per quanto ne può capire un genitore. Maria, la secondogenita, si era laureata anche lei in tecniche multimediali e lavorava in RAI. Parlando perfettamente l’inglese, viaggiava molto per lavoro, ed andava a visitare spesso la sorella negli Stati Uniti. Il più piccolo, Roberto, era diventato pilota elicotterista, ed era impiegato nei reparti speciali dei Vigili del Fuoco, per spegnere incendi sulle montagne. Un lavoro pericoloso, che dava molte preoccupazioni alla mamma. Ma siccome entrambi avevano vissuto, quasi esclusivamente per i figli, non li avevano ostacolati mai, nemmeno percependo pericoli futuro che si erano scelti.

* * *

– Pare che hanno trovato il morto.
Al di là della faccenda in se’, il maresciallo si adirò, come sempre, per il modo d’esprimersi di Di Ieso. E reagì, approfittando del fatto che si trovava solo nel locale, dato che il gestore per discrezione, si era allontanato.
– Ti dovrebbero dare l’ergastolo per oltraggio alla lingua italiana, Di Ieso. “Pare che ABBIANO trovato il morto”. E poi, quale morto?
– Non so, maresciallo. Qualcuno, un cacciatore, ha chiamato il 112, dalla località Molino Chiaro. Lì si trova.
Per quanto frugasse nella sua mente, il maresciallo non riusciva ad individuare, in “parrocchia” o vicino una località con un nome del genere.
– Dove? Fammi il favore, prendi il fax e leggimelo. Poi un’altra cosa, se tu mi dici che hanno trovato IL morto, io tendo a pensare che si tratti di un morto preciso, che magari ci eravamo persi, ed ora abbiamo ritrovato. Quindi hanno trovato UN morto, generico, non identificato!
Minchia, com’è incazzuso oggi il maresciallo. Pensò Di Ieso.
– Mi scusi, maresciallo, di un morto non identificato, come dice lei, si tratta. Qui c’è scritto Ciaramolin. Io credevo che la traduzione italiana fosse quella.
­– Poi ci stupiamo se circolano così tante barzellette sui carabinieri. – rincarò il maresciallo Melis- Senti, prendi il fuoristrada e raggiungimi a Ghisola. In caserma chi rimane?
– Ci sono Procopio e De Salvo.
– Dì loro che devono rimanere lì, finché non torniamo noi da lassù. Nessuno in libera uscita questa sera. Faremo soffrire le donne indigene. Un’altra cosa. Vedi se mi trovi un cuscino e lo porti con te.
Indigene? Cuscino? Di Ieso pensò che il maresciallo fosse uscito pazzo.
– Comandi maresciallo. Arrivo in cinque minuti.
Il maresciallo sperò con tutto il cuore che trovassero un cuscino, perché proprio non gli andava di farsi quattro chilometri di strada sconnessa con la sciatica ed il mal di schiena. Ma quello, in fondo, pensò fosse il male minore.

* * *

Sandro Baldini cominciava ad annoiarsi di attendere. Ormai la paura del primo momento era passata. In fondo si trattava di uno scheletro umano, una cosa ben diversa dal trovarsi di fronte un essere umano morto, soli in alta montagna. Quelle ossa potevano trovarsi lì da dieci a migliaia di anni. Non molto tempo prima era stato rinvenuto sulle alpi un cadavere nel ghiaccio, che risaliva a migliaia di anni prima. Sicuramente non avrebbe potuto nuocere a lui. In auto aveva una robusta corda, con la quale avrebbe legato insieme le zampe dell’animale, formando una specie di cinghia, fra le zampe anteriori e quelle posteriori, che avrebbe potuto mettersi sulla schiena. Scese nuovamente di sotto, fra le felci, ed iniziò a trascinare verso l’alto il suo cinghiale. A piccoli passi, camminando di lato, tirava con sforzo sovrumano, la sua cinghia improvvisata. La mano era lì, bianca, come prima, ma meno minacciosa, un reperto archeologico decise. Pochi secondi ed era totalmente bagnato di sudore. Le mani, la schiena, le gambe gli facevano male, ma continuò a trascinare la sua preda per l’ultimo tratto di salita, alternando sforzi bestiali a minuti di riposo. Infine, valicò l’ultimo metro e raggiunse il piano. Si distese supino sulla roccia, col cuore che batteva forte nel petto, un bagno di sudore, e riposò per dieci minuti. Dopodichè trascino il cinghiale fino nei pressi del bagagliaio della sua auto. L’avrebbe lasciato lì e si sarebbe fatto aiutare a metterlo nel bagagliaio.
Tornò sulla roccia e gli parve di sentire, lontano, sotto nella valle, il rombo di un auto che arrancava sulla strada sottostante. Non vide nulla. Dopo alcuni minuti il rumore del motore era più forte e vide il fuoristrada blu dei Carabinieri che saliva, qualche tornante più sotto. Ormai sarebbe stato questione di minuti ed avrebbe potuto andarsene.

* * *

In meno di mezz’ora raggiunse la moto, nella curva dove l’aveva lasciata, nel punto in cui, di sotto, si scorgeva la chiesa di Pian Lavarino. Le quattordici e dieci. Legò il bastoncino da sci al bagagliaio, con l’elastico che era ancora lì dal mattino. Bevve un sorso d’acqua dalla bottiglia che aveva nello zaino. Indossò il casco e puntò la moto verso la discesa. Senza fare avviamento, girò la chiave d’accensione e lasciò scivolare la moto in folle. Dopo pochi metri la moto aveva preso velocità. Inserì la seconda e lasciò la frizione. Dapprima la ruota posteriore fece da freno, facendo sbandare lateralmente la moto nella strada fangosa. Nuovamente tirò la frizione, e la moto riprese un abbrivio notevole. Ripeté l’operazione di prima e questa volta sentì il canto del motore che si avviava, rendendo più tranquilla e sicura la discesa.
In pochi minuti raggiunse la borgata di Ferrere, dove la strada diventava asfaltata. Dopo la borgata incrociò il fuoristrada dei Carabinieri che saliva.

* * *

Di Ieso aveva portato il suo cuscino personale col quale dormiva in caserma. Il maresciallo Melis sorrise dentro di se’, pensando all’uso che intendeva farne, mettendolo fra il sedile e il suo sedere. In fondo aveva dei bravi ragazzi nella sua caserma.
Mentre salivano, pensava a quella volta che era stato sul Ciaramolin con Elisa, l’unica donna veramente importante della sua vita da scapolo.
Avevano fatto un pic nick, proprio sulla roccia piatta del Ciaramolin. Aveva portato tutti i cibi lei. Cucinava divinamente Elisa. Come lui, amava soprattutto il pesce. Lui aveva portato soltanto una bottiglia di vino. Era una dolce e tiepida giornata d’aprile, di tanti anni prima. Erano soli su in montagna e, dopo mangiato, avevano fatto teneramente l’amore, completamente nudi sulla coperta distesa sulla roccia.
Il maresciallo non lo avrebbe ammesso mai, nemmeno con se’ stesso, ma si era innamorato di Elisa. E lei l’aveva “fregato”.
Tutti gli domandavano perché non si fosse mai sposato. Bella domanda. Il maresciallo rispondeva che il matrimonio non era per i carabinieri. Una vita senza orari, ne’ per i pasti, ne’ per il ritorno serale. Il pericolo di non tornare magari più a casa. Ma questa, lo sapeva, era la scusa ufficiale, il suo alibi. In realtà, egli ne era perfettamente conscio, si trattava di ben altro. Una ragione di non secondaria importanza era il fatto che il maresciallo amava avere il controllo della situazione, sempre. E con le donne, lo sapeva lui e lo sapevano tutti, non ce l’hai mai il controllo della situazione, perché l’hanno loro. Le donne. Sembra paradossale, per un militare, abituato a ricevere ordini dai superiori ed eseguirli, senza discutere. Ma un conto è eseguire gli ordini dei superiori, un altro conto è “abbandonarsi” ai capricci di una donna.
La radio di bordo gracchiò, e si sentì la voce di Procopio che annunciava che stava arrivando una squadra del R.I.S. di Parma con l’elicottero.
– Chiedono dove possono atterrare, maresciallo.
– Rispondi che possono atterrare direttamente sul posto. C’è un grande pianoro, si chiama Rocca Ciaramolin, dovrebbero trovarlo sulle carte.
– Signorsì, maresciallo. Ha telefonato anche il sostituto procuratore Caruso. Sta venendo sul posto con una “gazzella". Pare abbia una fretta del diavolo.
Intanto erano arrivati sul pianoro. C’era soltanto l’auto blu del cacciatore, dietro alla quale stava un grosso cinghiale. Un uomo sulla quarantina venne loro incontro, mentre scendevano dall’auto.
– Finalmente siete arrivati! È più di un’ora che ho chiamato.
– Buongiorno. Sono il maresciallo Melis, lei chi è?
– Baldini, Sandro Baldini. Ho telefonato io al 112. Ero qui a caccia, fin da stamattina presto. Poi ho sparato al cinghiale e, quando sono andato a recuperarlo ho trovato…
– Mi faccia vedere, prego. A proposito. Bella bestia!
– Grazie, maresciallo, però, che spavento!
Si avviarono verso la roccia. Dapprima il Baldini indicò i resti dall’alto, poi scesero nella parte inferiore. Uno scheletro. Pensò il maresciallo che si aspettava un cadavere, sperando ancora che si trattasse di un incidente, qualcosa che si sarebbe risolto in una bolla di sapone. No, questa faccenda era seria. Un cadavere sepolto. Una rogna. Una gran brutta rogna.
– Va bene. Torniamo di sopra. Qui abbiamo pestato già abbastanza, soprattutto lei. Quelli del R.I.S. si incazzano sempre, quando la scena del crimine viene “violata”, come dicono loro, “contaminata”. Mi racconti tutto dall’inizio. Dove stava lei. Dove stava il cinghiale.
– Stavo proprio qui…
E iniziò a raccontare tutta la mattinata di caccia, la lunga attesa, l’avvistamento del cinghiale, tutto quanto.
Si udì una chiamata dalla radio del fuoristrada. Di Ieso corse a rispondere.
– A proposito. Come diavolo ha fatto a portarlo fino all’auto?
– Una faticaccia, maresciallo. Praticamente l’ho trascinato un millimetro alla volta. Se potessero loro darmi una mano a metterlo in auto…
– Va bene. L’aiuteremo noi.
Si avviarono verso le auto. Melis pensò al suo mal di schiena e decise che l’aiuto l’avrebbe fornito Di Ieso, che era giovane e forte. Di Ieso aveva finito di parlare alla radio e disse che il procuratore Caruso, insieme al capitano Palmieri, era a Ferrere, e chiedeva che li andassero a prendere con il fuoristrada, perché la strada era brutta. Melis, che conosceva Caruso, stramaledì mentalmente la sua cattiva sorte che aveva voluto che il sostituto procuratore Caruso fosse di turno, proprio quel giorno prefestivo. Si immaginò il teatro che poteva aver fatto nella borgata là sotto e vide, nella sua testa, le immagini di tutti gli abitanti del luogo che uscivano dalle loro case e si domandavano cosa diavolo potesse essere successo sulla loro montagna, da richiamare una volante del 112 con uno dei pezzi grossi che dava in escandescenza e concluse che la sua pace e quella della sua “parrocchia” era irrimediabilmente compromessa.
– Va bene Di Ieso. Aiuta il signor Baldini a caricare il cinghiale nel suo bagagliaio, così ci evitiamo che al sostituto procuratore venga in mente di far eseguire l’autopsia sul cinghiale. Poi torni giù a prenderlo col fuoristrada. Io resto sul posto e prendo le generalità del signor Baldini.
– Comandi, maresciallo.

* * *

Giunto a casa, Michele Canuto si apprestò a togliere il fango dalla moto con l’idropulitrice. Sentiva una vaga inquietudine dentro di se’. Ripensò al fuoristrada dei carabinieri incontrato a Ferrere, domandandosi cosa fosse successo, se mai era successo qualcosa. Entrò in casa a bere un bicchiere di vino rosso. Sentiva di averne bisogno. Ormai era pomeriggio inoltrato. La moglie stava trafficando in cucina, con il televisore acceso. Le consegnò le quattro crave nere che aveva nel cesto, poi ripose il cesto nel garage.
Andò di sopra nel suo studio e prese un libro da leggere. Poi prese uno sdraio lo sistemò al sole e aprì il libro, mettendosi gli occhiali da lettura. Era un libro che aveva tentato di iniziare diverse volte. L’ombelico della luna2 di Carlos Fuentes. Dalla didascalia di copertina, pareva esser il miglior romanzo che lo scrittore avesse partorito. Ricominciò da capo, in un ennesimo tentativo di trovare attraente un libro che non riusciva a leggere. Ricordava di essere giunto fino circa a pagina settanta. Di aver incontrato fino a quel punto un centinaio di personaggi, fra i quali non riusciva ad individuare un sottile filo rosso che li legasse fra di loro, per intessere la trama di una storia intelligibile. Fece uno sforzo e dopo alcune pagine provò la stessa, precisa identica sensazione delle altre volte: non c’era uno schema che lui fosse in grado di comprendere. Non riusciva a ricordare quello che aveva letto non perché fosse distratto da altri pensieri, ma perché lo scrittore non era stato in grado di far comprendere lo schema. C’erano migliaia di informazioni e aneddoti sulle persone introdotte e lui non le capiva. Come le altre volte, fu tentato di scagliare il libro il più lontano possibile, vinto dalla frustrazione di non riuscire a leggere un romanzo, lui che ne aveva letti migliaia. Aveva letto saggi, testi scientifici, sostenuto con successo quindici esami all’università, studiando da autodidatta, senza seguire i corsi perché viveva lontano dalla università stessa. E non poteva leggere un romanzo? Ricordava soltanto un altro caso di romanzo che non era riuscito a leggere. Qualche saggio o articolo, perché non ne condivideva le impostazioni teoriche. Non riusciva a leggere, ad esempio, le ipocrite versioni “ufficiali” dell’11 settembre 2001, o dell’assassinio di J.F.Kennedy. Perché, riteneva semplicemente che non stessero in piedi. Che fossero un insulto all’intelligenza del lettore. C’era il discusso caso della defunta Oriana Fallaci, filo sionista oltre l’umano tollerabile. Occorreva arrampicarsi davvero sugli specchi, per trovare delle giustificazioni a quello che gli israeliani stavano facendo, e avevano fatto ai palestinesi. Proprio loro, che ad ogni piè sospinto non mancavano di ricordare l’olocausto, si erano trasformati nei nazisti dei palestinesi? Anche in questi casi si era sforzato, per paragonarle alle versioni “alternative”, tentare una mediazione, vedere se l’una o l’altra avevano delle falle. Ma un romanzo?
Rimosse l’impulso di distruggere il libro. Magari in un altro momento…magari qualcuno dei suoi figli, quando avessero messo a soqquadro la sua biblioteca, dopo la sua morte, per dividersi i libri stessi, magari avrebbe saputo apprezzarlo. No. Non poteva distruggere un libro. Era un delitto troppo grave. Forse più grave di uccidere.

* * *

Il rombo del possente rotore dell’elicottero Augusta si fece sempre più forte, finché lo videro. Stava puntando dritto verso di loro. Atterrò nello spazio del pianoro che stava fra loro, vicini all’auto del Baldini, e la roccia del Ciaramolin. A quel punto il rumore era quasi intollerabile. Per parlare, il maresciallo e il Baldini avrebbero dovuto urlare. Il vento prodotto dalle pale avrebbe fatto volare via il berretto del maresciallo, se questi non lo avesse tenuto con la mano. Poi il motore si spense, le pale dell’elicottero rallentarono fino a fermarsi del tutto, e tornò la pace. In alto nel cielo, un falco stava volando in cerchio sopra di loro. Le strida di un corvo, che volava più in alto del corvo, costrinsero gli uomini a guardare il cielo. Il piccolo corvo, stava tentando di scacciare il falco, che aveva invaso il “suo” territorio, o meglio, il suo spazio aereo. Tutte le liti fra esseri viventi, pensò il maresciallo, dallo spinarello alle oche, alle balene, agli esseri umani, potevano essere ricondotte, analizzate, dal punto di vista della territorialità, come aveva brillantemente descritto Konrad Lorentz, l’etologo, in tutte le sue opere. Era ciò che il maresciallo sintetizzava con l’espressione “pisciare nel pitale di un altro”. E la sua esperienza, oltre che le sue letture, sembravano confermare questa ipotesi. Persino i delitti passionali, il dramma della gelosia, era una sfaccettatura del “pisciare nel pitale altrui”, che in questo caso era molto più che una azzeccata metafora.
Si avviarono verso gli uomini che stavano scendendo dall’elicottero, rivestiti in completi sintetici trasparenti, sembravano uomini infilati in preservativi giganti, totali.
Era una squadra composta da tre marescialli e comandata dal tenente Balzano. Il suo amico Alfonso Montanari, evidentemente non era di turno. Oppure era impegnato altrove. Dopo le presentazioni e l’indicazione del luogo del ritrovamento, gli uomini del R.I.S. si misero al lavoro. Il maresciallo stava a guardare dalla piattaforma naturale della roccia.
– Maresciallo, posso andarmene ora?
Dal punto di vista del maresciallo avrebbe anche potuto farlo, ma sapeva che i “pezzi grossi” che stavano arrivando con la jeep insieme a Di Ieso avrebbero potuto avere da ridire, e glie lo spiegò, mentre fra se’ si immaginava che il Baldini, semmai si fosse imbattuto in un altro cadavere, si sarebbe fatto gli affari suoi se non ci fossero stati testimoni. Non poteva biasimarlo: erano ore che stava lì a disposizione.
– Quell’ammasso puzzolente? Chiese il tenente Balzano, indicando il mucchio di viscere e feci dieci metri più a valle del punto in cui si scorgeva la mano.
­– Sono le interiora del cinghiale. Il cacciatore stava trascinando la carcassa dell’animale, dopo averlo ripulito, quando ha scorto la mano e ci ha chiamati.
Prima che Di Ieso tornasse, col suo prezioso carico, il cadavere, anzi lo scheletro, era stato completamente liberato dal terriccio che lo ricopriva. Uno dei marescialli non faceva altro che continuare a scattare fotografie, del morto e della scena. Il tenente Balzano era risalito sul pianoro e si era tolto il “preservativo”.
– Da un primo esame approssimativo, non vi sono sul cranio segni che possano far pensare a fori di proiettile ne’ altre ossa rotte. Ci vorranno naturalmente analisi più approfondite. Nessun indumento, orologi, segni che possano identificare la vittima. Soltanto questo.
Nel dirlo mostrò un oggetto imbustato nel cellophane che sembrava un piccolo sasso di forma allungata. Era nel terriccio smosso e, secondo il tenente, si trattava di una specie di ciondolo manufatto. C’era un laccio di cuoio che si infilava in un anello che sporgeva dal ciondolo. Poteva essere della vittima, ma poteva essere anche di chi lo aveva seppellito lì.
– Di cosa si tratta secondo lei? Chiese il maresciallo.
– Non ne ho mai visti di simili. Le saprò dire con maggior precisione quando l’avremo esaminato più accuratamente. A prima vista posso dirle che si tratta di una cosa artigianale, alla buona. Azzarderei sia composto di comune resina, nella quale, oltre a frammenti metallici vari, è immersa una comune clips fermacarte, che funge da anello per poter attaccare il ciondolo alla collana, in questo caso di cuoio. Non credo rileveremo delle impronte. È passato troppo tempo, direi una decina d’anni, forse più, dalla totale decomposizione del cadavere.
A quel punto apparve il fuoristrada che venne vicino a loro, aggirando l’elicottero.
Il sostituto procuratore Caruso e il capitano Palmieri, nella sua splendida uniforme da ufficiale, raggiunsero i due uomini sulla roccia, camminando nell’erba, come se camminassero sulle uova, temendo di infangare le loro preziose scarpe. Il maresciallo, dopo un saluto militare al superiore ed una stretta di mano al procuratore, indicò loro lo scheletro nella fossa di sotto, ormai completamente libero dal terriccio e pronto per essere trasferito in una specie di cofano metallico, col quale gli uomini del R.I.S. l’avrebbero portato con loro.
Il capitano Palmieri si intrattenne a parlare con il tenente Balzano, mentre il procuratore prese in disparte il maresciallo e domandò:
– Che idea si è fatto, maresciallo?
– Per ora, mi sento di escludere che si tratti di un uomo di Neandhertal, data l’assenza di prognatismo della fronte.
– Bene, bene. Rispose il procuratore, che aveva un talento innato per capire al volo le battute di spirito.
– Io stasera devo partire per la Calabria dove mi tratterrò una settimana. A dire il vero, adesso avrei un poco di fretta. L’indagine è nelle sue mani. Se ci sono novità, mi faccia sapere sul cellulare. Comunque, nel caso si dovesse escludere del tutto l’ipotesi del ritrovamento “archeologico”, io propenderei per il delitto mafioso.
Il maresciallo non rispose, fingendo un atteggiamento pensieroso. Ma dentro di se’, se la rideva alla grande. Come diavolo faceva questo idiota ad occupare la posizione che occupava, non avendo il minimo talento investigativo. In primis, proprio il delitto mafioso era quello che escludeva in assoluto il maresciallo. La mafia o te lo fa trovare in bella vista, il cadavere, volendo lasciare un preciso messaggio, oppure lo fa sparire e sicuramente non lo trovi mai più. I cadaveri di questo secondo tipo, o finiscono nelle colate di cemento delle autostrade, oppure nelle sue fottute salsicce piccanti, a pezzettini. In secondo luogo, come fa un investigatore ad avere dei preconcetti a priori delle possibili soluzioni? Se non è un ritrovamento archeologico, allora si tratta di un delitto di mafia. È semplicemente ridicolo questo modo di procedere, pensò fra se il maresciallo. No, questa era l’opera di un dilettante, uno che aveva ucciso quasi per caso, e poi aveva sotterrato lassù il cadavere. Uno che conosceva bene il posto. Uno del posto oppure un turista.
– Quel tizio vicino all’auto blu?
– Il cacciatore che ha trovato le ossa.
– Bene, bene. Prenda le sue generalità. Gli dica di tenersi a disposizione nel caso dovessimo ancora interrogarlo.
Poi si avviarono verso i due ufficiali ancora sulla roccia. Il procuratore Caruso si rivolse al capitano Palmieri, chiedendo se fosse possibile ripartire, perché temeva di essere in ritardo per il suo volo. Subito si avviarono verso la jeep, dove attendeva Di Ieso e presero posto. Ripartirono immediatamente, con un cenno di saluto al maresciallo. Passando accanto al fuoristrada, il maresciallo disse a Di Ieso di tornare in caserma. Sarebbe sceso a piedi. Voleva pensare.
– Al limite ti richiamo dal bar di Calcinere e vieni a prendermi.
– Comandi!
Il maresciallo congedò quindi il Baldini, il quale era molto sollevato di poter partire finalmente.
Melis alzò lo sguardo al cielo, ritornando verso la roccia, dove gli uomini del R.I.S. stavano preparandosi ad andarsene pure loro. Una moltitudine di corvi ed un paio di falchi volteggiavano sopra il Ciaramolin, gracchiando inistentemente. Attendevano che tutti quegli uomini se ne andassero, per poter ripulire il luogo dalle interiora del cinghiale. Il maresciallo volle dare uno sguardo da vicino allo scheletro deposto nel cofano.
– Si tratta di un uomo, molto alto. Disse il tenente Balzano.
Richiusero la bara provvisoria e la caricarono sull’elicottero. Raccolsero le loro cose, in modo rapido ed efficiente, senza abbandonare ne’ guanti, ne’ rifiuti di altro genere. Era una squadra ben affiatata e ben addestrata. Anche se avrebbe preferito fosse venuta la squadra di cui faceva parte il suo amico, il maresciallo maggiore Alfonso Montanari, il maresciallo Melis sapeva di essere in buone mani per l’investigazione scientifica. Restava soltanto la fossa di terra scura, nella forra sottostante, a testimonianza del loro passaggio nel luogo, che si vedeva solo dalla piattaforma di roccia.
Tutti risalirono sull’elicottero Augusta blu scuro, il cui pilota non era nemmeno sceso dal posto di guida per l’ora in cui gli altri sbrigavano il loro lavoro. Il maresciallo aveva notato che leggeva un libro. Anche se condivideva la stessa passione per la lettura, non si capacitava del fatto che una persona rimanesse insensibile al fascino di un luogo come quello, al punto da non dare nemmeno una occhiata al panorama. Poi gli venne il dubbio che i suoi ordini fossero proprio quelli di non abbandonare il posto e la radio di bordo.
Il rotore si avviò con grande frastuono. Il maresciallo Melis si tenne il berretto con la sinistra, mentre con la destra faceva il saluto militare al tenente Balzano, nel momento in cui l’elicottero si staccava dal prato.
Rimase a guardare l’elicottero che, dopo essersi alzato per una decina di metri, si avviò velocemente verso sud est, passando sopra l’abitato di Paesana. Gli uccelli nel cielo si spostarono in massa verso il Mon Viso, a occidente, per ritornare subito dopo proprio sopra il Ciaramolin.

* * *

Sandro Baldini sentiva di avere fame e sete. Non era abituato a portarsi provviste di cibo e di bevande, totalmente assuefatto alla vita di città, dove queste cose si trovano ad ogni angolo di strada. Costretto dagli eventi di quel giorno, si era fermato in montagna molto di più di quanto avesse programmato. Così, al primo bar trattoria che incontrò sul suo cammino, a Calcinere, l’Alpino, si fermò per ristorarsi, con un panino ed un bicchiere di vino. Non si fermò molto. Abbastanza però per raccontare che cosa fosse successo quel giorno su al Ciaramolin. Alle diciassette e trenta era già ripartito.
La notizia dilagò di bocca in bocca. Nel giro di un’ora, tutta la “parrocchia” del maresciallo, era al corrente di fatti.

* * *

Mentre scendeva il maresciallo rifletteva sul macabro rinvenimento. Nello stesso momento, tutti gli uccelli che prima aveva visto volteggiare sul Ciaramolin, si stavano contendendo i resti del cinghiale. Partito il maresciallo, la montagna ridiventava un luogo di natura, come sempre succede, quando non vi sono esseri umani a disturbarla.
Era fermamente convinto che si trattasse di un delitto occasionale, passionale magari, compiuto da un dilettante del crimine, che conosceva molto bene il luogo da sapere che si poteva scavare e nascondere un corpo, senza essere visti. Questo era tutto quello che poteva azzardare a caldo, per ora, in attesa del rapporto completo del R.I.S.
Così, da uomo pratico quale era, smise di pensarci, per iniziare a tormentarsi, ricordando la sua Elisa, che il luogo del delitto le aveva riportato alla mente. Solitamente lui evitava di pensarci, scacciava questo pensiero, come un tarlo fastidioso.
Quella storia risaliva a molti anni prima. Aveva bisogno di qualcuno che gli riordinasse casa, gli preparasse qualche pasto decente. Aveva sparso la voce in giro, nei negozi, e si era presentata lei.
Una donna stupenda, dal sorriso ammiccante. Una trentina d’anni. Capelli neri, leggermente crespi, ma lunghi. Carnagione scura, occhi neri. Si sarebbe detta una donna del sud ed invece era di origine veneta. Era arrivata nel paese sposando un ragazzo di qui, il quale aveva prestato servizio militare a Padova.
Essendo sposata, per il maresciallo, di sani principi cattolici, pur non essendo praticante, era off limit. Ma non aveva fatto i conti col suo eterno sorriso accattivante, il suo profumo, il suo corpo perfetto, e col proprio essere uomo, non di legno.
Nel periodo in cui ci fu lei, il suo appartamento era sempre in ordine, anche se non spostava mai le cose che lui stava usando, un libro che stava leggendo. La cameriera perfetta, che riordina, ma non fa sparire le tue cose. Quando poi cucinava, quasi sempre pesce di mare, il maresciallo se la scialava. Era anche ingrassato leggermente in quel periodo. La preferenza gastronomica era una cosa che avevano in comune. Ma scoprirono di avere molto altro.
Un giorno di fine inverno, il maresciallo Melis salì nel suo appartamento per pranzare, e lei, contrariamente al solito, era ancora lì.
– Si sieda, maresciallo, che le servo il pranzo.
– Non devi andare a preparare il pranzo per tuo marito?
– Oggi è fuori sede e non rientrerà che domani.
– Allora apparecchia anche per te, così ci teniamo compagnia. Non è bello pranzare soli. Tanto so per esperienza che le tue porzioni sono abbondanti. Sono sicuro che ce ne sarà abbastanza per tutti e due.
Elisa arrossì leggermente. Già era accaldata perché, nonostante la giornata stupenda, i termosifoni erano accesi, ed aveva sudato leggermente facendo i lavori domestici. La stanza era piena del suo genuino odore di donna. Non portava profumi inebrianti, come quasi tutte le donne, ma il suo odore naturale, femminile, inebriava il Melis molto di più di quegli altri aromi artificiali.
– Cosa hai preparato oggi?
– Stamattina al mercato c’era un mio compaesano che ha un banco di pesce. Aveva le arselle appena arrivate ed una rana pescatrice che era una meraviglia. Abbiamo bucatini con arselle e per secondo la rana pescatrice in una ricetta delicata, che ho avuto da una mia amica. Vedrà!
Egidio andò a prendere una bottiglia di Arneis del Roero e la stappò.
Mentre gli serviva il primo, i seni prosperosi di lei gli accarezzavano la guancia, ed Egidio si sentiva anch’egli molto accaldato, anche se non aveva ancora assaggiato il vino.
I bucatini erano una poesia meravigliosa per il palato, come Elisa, seduta di fronte a lui, era una poesia per i suoi occhi. Oltre alle arselle, immersi nei bucatini c’erano alcuni gamberi. Delle minuscole particelle di basilico, messe crude all’ultimo minuto, davano colore e sapore al piatto. L’immancabile leggero gusto di aglio, dava al tutto la sensazione del capolavoro gastronomico. Egidio aveva come l’impressione che Elisa lo stesse coccolando. Le donne sanno molto bene quali sono le maniglie per maneggiare gli uomini. Una di queste è senza dubbio la gola. Questa donna ci sapeva davvero fare in questo campo.
– Dove hai imparato a cucinare così bene, Elisa?
– Prima di sposarmi lavoravo in un ristorante. Ho fatto la scuola alberghiera. Cuoca.
Egidio versò il vino, per lei e per se’. Bevvero contemporaneamente, dopo un accenno di brindisi, e mentre bevevano, i loro occhi si incrociarono e rimasero a guardarsi. Il sorriso di Elisa era così dolce, che Egidio non riusciva a stare fermo sulla sedia, preso da una smania che a stento riusciva a controllare.
Lo strusciamento del seno di lei, sulla guancia di Egidio, si ripeté quando portò via il piatto del primo, e quando servì la pescatrice. Il secondo aveva un sapore davvero delicato, come lei aveva anticipato, un misto di mandorle, limone e zafferano, in proporzioni ottimali da non coprire il delicato gusto del pesce.
Quando lei fece per prendere il piatto di lui per portarlo via, Egidio si voltò verso di lei, si guardarono negli occhi. I loro visi erano a quindici centimetri di distanza. Esitarono completamente immobili, gli occhi negli occhi, per alcuni secondi. Potevano sentire i loro cuori dal battito accelerato nel silenzio della stanza da pranzo. Il profumo di lei sembrava essere centuplicato in intensità. Si mossero insieme, l’uno verso l’altro. Si baciarono, dapprima delicatamente, poi con sempre maggior frenesia. Poi si staccarono per un attimo, per tornare a guardarsi negli occhi. Si dissero una sola parola ciascuno:
– Egidio…
– Elisa…
Dopodichè iniziarono a spogliarsi e baciarsi contemporaneamente e con frenesia crescente. Lei sbottonava la sua divisa e la sua camicia. Lui sbottonava la sua camicetta. In pochi secondi erano completamente nudi, distesi sul tappeto della sala. Dimentichi dei loro doveri e di chi fossero nella vita reale, come in un sogno. Egidio la baciò sul collo, poi sui seni, scese sempre più in basso. Baciò i suoi piedi e risalì sulle sue sinuose gambe, finché arrivò alla meta, che si spalancò per lui, per la sua lingua che si insinuava fra i riccioli neri di lei, inebriandolo con fragranza di muschio e frutti di mare. Elisa era in estasi e, mugugnando, infilò le sue mani fra i capelli di Egidio. Poi, sotto le braccia, e lo attirò verso il suo volto. Si baciarono ancora, mentre lei lo cingeva con le sue gambe, costringendolo a penetrarla. Fu un’estasi dolce e spasmodica, possente, come nessuno dei due aveva mai provato. Lei emise un grido soffocato, mentre mordeva delicatamente la spalla di lui, che venne subito dopo. Dopodichè giacquero a lungo, stremati e sudati, sul tappeto, abbracciati.
Il maresciallo era quasi giunto a Ferrere, e si rese conto di avere un principio di erezione, come succedeva sempre, quando ricordava i suoi momenti felici con lei. Si costrinse a pensare ad altro, al suo caso recente, per ricomporsi prima dell’ultimo tornante, che immetteva alle prime case.
Una ventina di persone, in diversi capannelli, chiacchierava nella piccola borgata. Un piccolo nucleo di case, che, a volte, attraversavi senza vedere un’anima viva.
Lo salutarono e lui rispose, ma nessuno osò fargli delle domande. Egli era l’autorità in fondo, per quella gente semplice.
La strada diventava più agevole, anche per chi camminava, essendo ora asfaltata. In mezz’ora giunse a Calcinere, dove entrò nel bar ristorante, per telefonare in caserma che venissero a prenderlo e per bersi un bicchiere di vino rosso. Lì sapevano già tutto. Il cacciatore se ne era andato da poco. Erano le diciotto e trenta ormai.

* * *

Dopo la cena, alle diciannove e trenta, uscì per fare due passi prima di andare a letto. Siccome si alzava presto e si era sempre rifiutato di fare la pennichella dopo pranzo, Michele aveva la necessità fisica di andare a letto presto. Magari leggeva ancora una mezz’oretta, prima di addormentarsi, colto dalla stanchezza di una giornata piena. Anche se era ormai in pensione, in un modo o nell’altro si stancava. Magari facendo dei lavoretti in casa o nell’orto. A volte camminava in montagna come oggi. Altre volte andava in bici, spesso fino a Saluzzo, per qualche commissione. Era convinto che l’esercizio fisico fosse una specie di assicurazione per la salute.
Quella sera, andò a prendere un grappino nell’unico bar della borgata, dove seppe del ritrovamento sul Ciaramolin, da parte del cacciatore.
Provò stupore ed una certa frenesia. Forse poteva prendere spunto dall’accaduto, per dare una svolta al suo manoscritto. Cominciò a fantasticare e rigirarsi delle frasi in testa, come sempre quando aveva una idea sulla quale scrivere. Prima di scrivere veramente qualcosa, se la rigirava mentalmente, più volte, in modo quasi ossessivo. Sì, scrivere, a volte, era come una sorta di smania, un tormento. Era certo che non si sarebbe addormentato tanto presto. Sentì sua moglie Anna andare a letto, molto più tardi. Andò da lei a cercare un poco di conforto fra le sue braccia, dopo molti mesi dall’ultima volta.
L’indomani comprò alcuni giornali, lui che non li leggeva da anni, perché, diceva, raccontano un sacco di balle, per saperne di più sul ritrovamento in montagna. Ascoltò addirittura i telegiornali, compreso quello regionale, il che stupì la moglie, finché non fu chiaro che si trattava di un fatto di cronaca locale.