Data: 18/07/2013 5:58

- Titolo: Capitolo 2: In Montagna.

Dopo aver fatto colazione, un arancio e un po’ di the con due savoiardi, Michele Canuto si lavò i denti ed uscì nel cortile. Sostò per un attimo sul selciato di pietre in mezzo al cortile e guardò in alto. Il cielo si stava schiarendo. Sprazzi di azzurro spuntavano dalle nubi chiare. Non pioveva più.
Ritornò in camera sua, che era anche il suo studio. Finalmente, dopo una vita di provvisorietà, era riuscito a sistemare in modo decente, come aveva immaginato sempre, tutti i suoi libri. Armadi chiusi con antine di vetro attorniavano quella camera ad ovest, nord e est. Il lato sud era una grande vetrata che dava sul cortile e sulla strada principale della borgata. Migliaia di libri dei generi più disparati erano allineati in quei mobili. Dai romanzi ai saggi di varie discipline, ai testi tecnici. Sì, finalmente si sentiva a casa, dopo una vita in case di affitto. Lì avrebbe potuto distaccarsi dalle cose del mondo, dalla vita, dai problemi. Avrebbe potuto rilassarsi finalmente, dopo una vita stressante.
Accese la lampada da tavolo. Tirò fuori una chiave che portava appesa al collo legata ad un laccio di cuoio, assieme ad un piccolo ciondolo, ed aprì lo scrittoio che era stato di Parin Tonino. Ne estrasse un fascicolo di carta formato A4 chiusa in una cartellina verde di cartone e la portò alla scrivania.
Rilesse l’ultimo foglio, posandolo di fronte a se’ sullo scrittoio.

…Lasciò il portone carraio socchiuso. Entrò in cucina accendendo solo la luce vicino al forno a legna, a destra della porta d’ingresso. Il resto del locale rimase in penombra. Andò nella legnaia e prese delle fascine, ricavate della potatura del frutteto dell’anno precedente. Ritornò in cucina e mise le fascine nel grande forno. Una spruzzatina di alcool etilico, strofinò un fiammifero che stava sul ripiano del forno e lo gettò all’interno. Subito si accese. Spense la luce e si sedette nel lato più oscuro della stanza, illuminato soltanto dai bagliori rossastri provenienti dalla minuscola apertura del forno, la cui porta aveva lasciata socchiusa.

Erano mesi, forse anni che il manoscritto terminava a quel punto e non riusciva ad andare aventi. Rimase a riflettere per dieci minuti, fissando il foglio senza vederlo. In vita sua aveva sempre scritto tutto quanto col computer, ma quello l’aveva scritto a mano. Stampatello maiuscolo, come aveva preso l’abitudine di scrivere fin dai tempi delle scuole superiori, prendendo appunti. La sua metà oscura, come quella del più famoso Stephen King, preferiva carta e penna. Ci pensò ancora un po’, poi posò il manoscritto nello scrittoio, lo richiuse a chiave e uscì.
Decise che sarebbe andato su in montagna. Forse avrebbe trovato ancora qualche crava1. In fondo si era solo ai primi di ottobre e la luna era ancora quella di settembre, la luna dei funghi. Andò in bagno. Poi scrisse un biglietto alla moglie, dicendo di non attenderlo per pranzo. Prese dei frutti dal piatto di centro tavola e li mise in una delle ampie tasche dello zaino militare. Riempì d’acqua la bottiglia con la macchinetta e la mise nell’altra tasca dello zaino. Nel centro dello zaino mise un cesto di vimini da pesca, per eventuali funghi. Indossò la giacca da moto e andò nel garage. Legò una racchetta da sci al bagagliaio anteriore della Yamaha 600TTE. Lasciò le ciabatte in garage ed indossò le scarpe da tracking. Mise in moto aprendo l’aria. Aprì il portone mentre indossava il casco e partì.
Trecento metri più avanti, tra le ultime case della borgata, chiuse l’aria e svoltò a destra. La strada era adesso ripida e stretta, ma ancora asfaltata, almeno fino alla borgata di Ferrere. Cinquecento metri prima del rio che scende ripido a valle, c’era un prato ben curato, ripulito dalle foglie e dai ricci di castagne, nel quale solitamente trovava dei frè ros2. Ovviamente adesso era ricoperto di ricci e foglie, data la stagione. Si fermò comunque. Giacolin, l’uomo che solitamente curava quel prato, stava raccogliendo castagne. Avrebbe fatto due chiacchiere con lui. Anni prima era stato proprio lui a dargli la dritta di quella casa da vendere nella borgata.
–; C’ai ciama a la panatera, chila lo sa. Dovria esije prope cola davanti en vendita. 3
Adesso si davano del tu, come si usava fra gli abitanti della borgata.
–; Alora?
–; Mia visi-na Ciota voel fè ij mondai. Vardo sa ije ‘ncor quei cos.4
In quel momento una Honda Civic blu scura passò nella strada di sotto, salendo verso Ferrere.
–; T’las vist ëd frè?5
–; Gnun.
Se Giacolin diceva che non c’erano funghi, non avrebbe nemmeno fatto il gesto di cercare: l’avrebbe offeso.
–; Vado pi ‘nsu a cerchè sa ij è ‘d crave. Ciao.6
–; Ciao.
Tornò giù dove aveva lasciato la moto. Per un attimo valutò di lasciarla lì e proseguire a piedi, ma subito accantonò l’idea. Tanto valeva che l’avesse lasciata a casa, visto che fin lì non aveva percorso nemmeno un chilometro. Sicuramente avrebbe fatto la figura della persona stramba, di fronte a quell’uomo che sapeva dove abitava.
Indossò il casco che aveva lasciato appeso al manubrio e ripartì, facendo un ultimo cenno di saluto all’uomo nel prato che guardava verso di lui. Guidando lentamente, arrivò in un attimo alla borgata di Ferrere, che attraversò in meno di un minuto. Passata la borgata la strada diventava sterrata e richiedeva maggior attenzione nella guida, soprattutto dopo la pioggia caduta durante la notte. Lasciò la moto alcuni tornanti più in su, in modo che non intralciasse la circolazione. Da quella curva, ora che le foglie sui castagni erano più rade, si vedeva poco più sotto la chiesa di Pian Lavarino e le lose dei tetti delle case della borgata. Siccome il terreno era cedevole per la pioggia, mise un ciottolo piatto che aveva sempre nella tasca della moto per quelle occasioni, all’estremità del cavalletto, in modo che non sprofondasse nel fango, facendo cadere la moto. Attaccò il casco alla chiusura sotto la sella, tolse il bastoncino da sci dal bagagliaio e si incamminò, dopo aver bevuto un sorso d’acqua dalla bottiglia. Al ritorno avrebbe dovuto lavare la moto, ormai completamente incrostata di fango.

* * *

Sandro Baldini non aveva mai eseguito un lavoro manuale in tutta la sua vita. Aveva sempre fatto il progettista meccanico. Diplomato alle scuole professionali come disegnatore, aveva iniziato alla STEMUT, come quasi tutti i progettisti meccanici dell’area torinese che gravitano intorno alla FIAT, poi si era messo in proprio, aprendo un ufficio tecnico con altri due soci. All’inizio si disegnava sui tecnigrafi, su carta, e tutto andava a gonfi vele: molto lavoro da richiedere dipendenti e esterni. Gradualmente i tecnigrafi furono sostituiti dai computer, con i programmi di disegno AUTOCAD. Questo era anche il motivo della grave crisi nel settore. Con l’informatizzazione del disegno, esso poteva essere eseguito ovunque, come e più di qualsiasi lavoro manuale, in quelle aree del mondo dove le persone che facevano lavori umili guadagnavano un dollaro al giorno. I disegni poi, potevano viaggiare per posta elettronica, senza l’aggravante delle spese di trasporto dei beni materiali. Era la globalizzazione.
Pur avendo difficoltà a sostituire una lampadina, accendere il barbecue, o imbiancare una parete di casa, quando andava a caccia, il Baldini diventava la quintessenza del cacciatore. Aveva appreso tutto da suo padre, che lo portava a caccia con se’ fin dalla più tenera età. Quando entrava nei panni del cacciatore, si muoveva come un gatto, senza far scricchiolare legnetti o foglie mentre camminava, per non disturbare la selvaggina. Sapeva restare immobile per ore, poiché sapeva che un brusco movimento, come un rumore improvviso, erano l’equivalente di un allarme per la selvaggina, sempre sul chi vive, con tutti quanti i sensi all’erta, anche nel suo ambiente naturale. Un “filosofo” avrebbe sintetizzato questi concetti dicendo che il Baldini era “lo Zen della caccia”. Con ogni probabilità egli sarebbe sopravvissuto nella giungla più ostile, con quella sola dote che possedeva. Lasciò l’auto accanto alla costruzione in cemento dell’acquedotto. Bevve un sorso alla fontana. Prese il fucile e richiuse l’auto senza fare rumore. Si avviò verso la piattaforma naturale della roccia del Ciaramolin. Soltanto quando aprì l’otturatore per inserire una cartuccia, il cui “click” metallico parve al meticoloso Baldini possente quanto una cannonata, una starna si levò in volo dalle felci, tre metri alla sua destra e, volando rasente i terreno, si nascose fra la brughiera e i mirtilli, venti metri più lontano. Si maledì per non aver caricato in auto, ma era contrario alle regole della prudenza. Mise la sicura e guardò nella forra sottostante le rocce.

* * *

Mentre saliva, Michele sentiva il cuore pompare vigoroso nel petto. Anche soltanto camminare, in montagna era un esercizio fisico rilevante. Si sentiva ringiovanire facendolo. In gioventù aveva frequentato per qualche anno la palestra John Vigna di corso Marconi a Torino. L’esercizio fisico in palestra, dava la stessa sensazione di benessere, ma era noioso e ripetitivo.
Aveva impiegato anni a capire che era molto più divertente e salutare il semplice camminare nella natura, il pedalare sulle strade piuttosto che su una ciclette. Ora pensava che non avesse senso passare le ore in palestra. Già, adesso aveva a disposizione tutto il tempo che voleva. Se un giorno non poteva uscire perché c’era maltempo, avrebbe potuto farlo un altro giorno. I suoi ritmi erano condizionati dalla natura, non più dall’urgenza del lavoro, della civiltà frenetica che spinge tutti i suoi appartenenti a correre, per non arrivare da nessuna parte.
Dopo alcuni tornanti sostò per l’ennesima volta, come sempre quando passava di lì, ad ammirare in basso una splendida baita rimessa a nuovo con molto senso del bello. Ve n’erano altre ristrutturate alla borgata Cermolin, ma quella era davvero la più bella. Una struttura ad “L” comprendeva due bassi edifici, casa e fienile, i cui muri erano stati delicatamente rifiniti infilando cemento fra le pietre, ma senza intonacare. Le pietre lucidate. I tetti in pietra rifatti. Le strutture in legno e gli infissi nuovi, ma rustici. Il cortile pavimentato di grosse lose7, il prato curato. Totalmente esposta al sole, aveva alle spalle un bosco di betulle. Immersa nella natura e nel suo delicato silenzio, sarebbe stata la casa ideale per scrivere in pace, senza le distrazioni che reca la presenza di altri esseri umani intorno. Non aveva mai visto nessuno nella casa, eppure qualcuno doveva venirci spesso, visto che era così ben curata.
Riprese il cammino. L’urlo stridulo di un corvo attirò il suo sguardo al cielo. Diversi corvi volteggiavano molto in alto nel cielo azzurro. Ricordò con affetto un detto di suo nonno Francesco, Parin; che pretendeva che quel verso pronosticasse la neve. Riprese il cammino e una gazza si levò in volo da un alto pioppo dietro la baita. La natura selvaggia degli animali, si accorgeva sempre della presenza disturbante dell’uomo, anche se questo si muoveva nel modo più silenzioso possibile. Essi se ne andavano quando “sentivano” l’uomo addentrarsi nel loro habitat. Era come un paradosso, il fatto che l’ambiente naturale potesse, quasi in modo digitale, essere soltanto selvaggio, oppure soltanto occupato dall’uomo, e non entrambe le cose.
Dopo la baita, la vegetazione cominciava a cambiare. I castagni si facevano sempre più radi per lasciare posto alle betulle, le quali dominavano il paesaggio pressappoco fino all’altezza del Ciaramolin, dopo di che apparivano i primi pini, che sostituivano, gradatamente prima e poi totalmente, le betulle. Più in alto, infine, cessavano anche gli abeti.
Giunto al penultimo tornante, lasciò la strada e prese una mulattiera che si inerpicava a sinistra, proprio sotto il lato est dei torrioni di pietra della rocca. Questa l’avrebbe portato più rapidamente sul pianoro del Ciaramolin. Trovò un paio di crave scure sui bordi della mulattiera. Ma si rese conto che non era ormai più stagione di funghi. Nel periodo di luna giusta, in quel solo tratto avrebbe riempito il cesto.
Quando fu in vista della sua meta, vide l’uomo di spalle in grigio verde immobile sulla roccia. Pensò si trattasse di un forestale e si preoccupò per i funghi raccolti, dato che non aveva tesserino. Pensò con nostalgia ai tempi in cui la natura era di tutti gli uomini, fornitrice di risorse. Probabilmente l’uomo lo sentì arrivare, poiché si voltò lentamente, rivelando che teneva in mano un fucile munito di cannocchiale telescopico. Un cacciatore. La caccia lo affascinava essendo egli un pescatore, ma nessuno l’aveva mai iniziato a quella cosa misteriosa e si limitò a considerare con un poco di invidia chi la praticava. Poi un moto di stizza verso quell’uomo, che stava proprio nel luogo dove avrebbe voluto andare lui, gli attraversò la mente. Per lui era una specie di rito, sostare sulla rocca, ogni volta che veniva quassù. Ma non aveva senso andare ad “attaccar bottone” con un cacciatore appostato: quelli vogliono stare soli. Così proseguì riprendendo la strada. Bevve alla fontana, davanti alla quale c’era un’auto blu scura, probabilmente del cacciatore. Dopo la fontana riprese una mulattiera che saliva a sinistra della strada principale. Lì raccolse un’altra crava. Mentre la riponeva nel cesto nello zaino militare, vide il cacciatore che sembrava prendere la mira. Guardò anch’egli in quella direzione e scorse due persone in mountain bike che salivano dal sentiero sottostante. Probabilmente, il cacciatore aveva scorto il movimento e voleva solo vedere meglio con il telescopio. Tuttavia pensò che poteva essere pericoloso aggirarsi in montagna nel periodo della caccia, con gente armata di fucili di precisione come quello. Non si intendeva molto di armi, ma ricordava le armi usate durante il servizio di leva. Pensava che se il sistema di puntamento del fucile era ben regolato, e qualcosa di vivo si trovava all’incrocio delle linee che attraversavano il telescopio, e si fosse premuto il grilletto, c’erano molte probabilità che venisse colpito.
Riprese il cammino e scorse Angelo che scendeva sullo stesso sentiero su cui stava salendo. La montagna quel giorno stava decisamente diventando un po’ troppo popolata per i suoi gusti e per la sua ricerca di serenità. Aveva chiacchierato spesso su quei monti con Angelo, anch’egli pensionato, quasi collega. Viveva a Ferrere ed amava anch’egli le escursioni solitarie. Gli disse che era stato lassù, indicò, dove terminava la linea degli abeti, dove si scorgeva una croce. Insieme commentarono l’incantevole bellezza del paesaggio, poi Angelo continuò a scendere ed egli decise che sarebbe salito fino a quella croce, a circa un ora di cammino, dove non era mai stato. Era quasi mezzogiorno quando vi giunse.
Si sedette su un masso dal quale poteva ammirare il paesaggio della vallata sottostante. Il cacciatore molto più in basso, era un puntolino insignificante di fronte all’immensità e alla grandiosità dello spettacolo che la natura aveva allestito per lui in quel momento. Si sbagliava, e di molto. Aprì lo zaino e ne trasse la macchina fotografica digitale, con la quale scattò qualche foto, essendo in un punto nel quale non era mai stato. C’era una grande pace lassù. Guardò in alto verso Punta Selassa, e si disse che un giorno o l’altro sarebbe partito presto per andarci. Erano anni che se lo riprometteva e non l’aveva mai fatto. Da lassù sicuramente avrebbe scorto il gruppo del maestoso Mon Viso, dall’altra parte. Da dove si trovava, proprio quella montagna ne nascondeva parzialmente la vista.
Mangiò due frutti e bevve un poco d’acqua, dopodichè si sdraiò supino sul masso a guardare il cielo. Solo lì in montagna trovava la pace di cui aveva bisogno.
Era l’una quando iniziò a scendere. Il sole era tiepido. Una splendida giornata autunnale. Pian del Lupo, sul versante opposto, verso levante, si trovava molto più in basso rispetto a lui. Era stato molte volte anche laggiù. Si saliva dalla borgata di Agliasco. Anche là, la strada era sterrata, ma ben tenuta, facilmente percorribile con la moto. Un po’ più disagevole per un’auto che non fosse un fuoristrada, o molto rialzata da terra.

* * *

Sandro Baldini cominciava a sentire un certo disagio per l’immobilità forzata e la scomodità della posizione, mantenuta per ore. Dopo il passaggio dei due escursionisti a piedi, l’uno che saliva e l’altro che scendeva, e la gazzarra che per più di mezz’ora avevano fatto i due con la mountain bike vicino alla fontana, raccontandosi barzellette e facendosi delle grandi risate, il luogo era tornato tranquillo, dopo la discesa dei due ciclisti. Gli animali selvaggi avevano bisogno di tempo, molto tempo, per tornare a sentirsi al sicuro dopo la presenza dei chiassosi umani.
Percepì un movimento con la coda dell’occhio, leggermente più ad est di dove stava guardando in quel momento. Con una lentezza estrema imbracciò l’arma, in modo da poter guardare attraverso il cannocchiale del fucile. Subito individuò la sagoma scura del cinghiale che avanzava cauto nella sua direzione. Avrebbe potuto sparare immediatamente. Cento, centocinquanta metri circa ed era praticamente certo di non mancarlo. Ma continuò a tenerlo nel mirino. Era solo, non era una femmina con piccoli. Il pensiero di doverlo poi andare a recuperare, considerando anche la mole dell’animale, gli suggerì di attendere che si avvicinasse ancora. La sua direzione faceva supporre che sarebbe venuto proprio lì sotto di lui. Così fu.

* * *

Michele udì lo sparo in un punto dal quale il cacciatore non era visibile, e si augurò mentalmente che quell’idiota non avesse sparato ad un escursionista. Quando, circa un quarto d’ora dopo giunse in vista del pianoro, il cacciatore non si vedeva più. Probabilmente era andato a recuperare l’animale. Ammesso che l’avesse colpito.

* * *

Il maresciallo Melis uscì dalla caserma dicendo a De Ieso che sarebbe andato a mangiare alla Trattoria Valle Po, in caso avessero avuto bisogno di lui, cosa di cui dubitava molto. E ci sperava. Che non succedesse qualcosa che richiedesse la sua presenza.
A parte qualche sporadico caso, in tutti gli anni che aveva servito a Paesana, s’era dovuto occupare di mucche che avevano pascolato sul prato del vicino. Piccole liti che lui riusciva a tacitare convocando in caserma, oppure visitando di persona, separatamente, le persone coinvolte, per fare loro una paternale, che quasi sempre funzionava. C’erano stati, è vero, alcuni casi di omicidi, alcuni dei quali impuniti. Ma anche lui era soltanto un essere umano, non poteva essere Dio. Si trattava di un uomo trovato morto nei boschi, su un sentiero che saliva a Pian Lavarino negli anni settanta, quando era giovane ed all’inizio della sua carriera, in quella sua “parrocchia”, come la chiamava scherzosamente lui. Aveva il cranio fratturato e avrebbe potuto essere il risultato di una caduta accidentale, come effettivamente venne archiviato il caso. Ma lui, uomo che si fidava soprattutto del proprio intuito, non ci aveva mai creduto totalmente. Aveva qualche sospetto su un uomo della borgata Piane, ma nessuna prova valida. Quelli non erano i tempi in cui il R.I.S. trovava un pelo pubico sul luogo del delitto e scopriva, mediante il DNA, chi avesse pisciato lì. Si era alla preistoria dell’investigazione, rispetto ad oggi.
Ricordava il caso dell’aereo da turismo caduto dalle parti del Ciaramolin, sempre in quegli anni. Ma si trattava di un incidente, anche se c’erano stati due morti.
Invece, di recente, l’assillo che gli davano i suoi “parrocchiani” alimentaristi, era dovuto al panettiere di Martiniana Po, un paese vicino, che praticava il commercio abusivo con il suo furgone. Aveva fatto delle indagini a modo suo. Vale a dire in borghese, in incognito era stato dal panettiere, nei luoghi dove questo era solito andare a vendere, nei cortili, nelle cascine. Effettivamente qualche ipotesi di reato si poteva configurare. Produceva salumi in un laboratorio di pasticceria. Stipava sul suo furgone alimenti che non avrebbero potuto stare insieme: pane, pasticceria, salami, frutta e verdura. Una cosa per la quale avrebbe dovuto fare segnalazione ai N.A.S. Inoltre non emetteva scontrini fiscali, nella sua vendita itinerante ed avrebbe dovuto passare questa informazione ai colleghi della Guardia di Finanza, i “canarini”, come venivano chiamati nel suo ambiente, per il colore delle mostrine. Ma il maresciallo era uomo che soleva soppesare la gravità del reato, insieme al caso umano. Si trattava di un padre di famiglia che tentava di sbarcare il lunario, come cercano di fare tutti, in un modo o nell’altro. Lui non se la sentiva di procedere in questo senso. Sapeva anche che se i suoi superiori avessero saputo queste cose, che lui badava bene di archiviare soltanto nella sua testa, avrebbe potuto avere delle sanzioni disciplinari. Ma in questi casi faceva tutto da solo. I suoi sottoposti non ne erano al corrente. Carte non ne aveva imbrattate e, non essendo uomo da computer, non aveva file nascosti che potessero rivelare le sue magagne.
Per questa faccenda del computer, il suo amico Alfonso, che lavorava al R.I.S., suo corrispondente epistolare, aveva insistito spesso per tentare di convincerlo ad usarlo. Gli avrebbe insegnato tutti i trucchi lui stesso. Ma quando il maresciallo Melis gli domandava, a che cosa gli servisse, la risposta non gli suonava convincente. Alla possibilità di avere un potente archivio a portata di mano, Melis si batteva il dito indice sulla fronte, a significare che lui aveva già il suo archivio, e che nessun archivio diverso, avrebbe posseduto la dote che possedeva il suo: l’inviolabilità. Sì, c’era la facilità della scrittura di lettere e rapporti, della comunicazione degli stessi via mail. Cose che lui immancabilmente delegava ai suoi sottoposti, che ci sapevano fare. La stessa cosa per l’uso di internet a scopo di ricerca.
Amava mangiare alla cucina della signora Giovanna, perché prediligeva soprattutto il pesce. Lì mangiava del pesce fresco. Il figlio della signora aveva un allevamento di trote e storioni a duecento metri dal ristorante, in vasche artificiali alimentate dalle fredde acque del Po. Quando ne aveva voglia, vi andava senza preavviso. Qualcuno partiva a prendere il pesce, la signora lo puliva e cucinava, e finiva nella sua bocca non più di mezz’ora dopo aver cessato di sguazzare nelle gelide acque montane.
In realtà preferiva, quando era possibile, mangiare i più saporiti pesci di mare. Ma anche le trote di montagna, cucinate in un modo dai sapori delicati, dalla signora Giovanna, potevano tener testa ai pesci di mare mangiati altrove. Era un uomo pratico il maresciallo. Spesso la gente si complica maledettamente la vita, per desiderare cose che non si possono avere, hic et nunc, come, ad esempio, il sostituto procuratore Caruso, con la sua mania dei “sapori di Calabria”.
Era anche un bar frequentato dalla gente delle borgate, così gli arrivavano le novità della “parrocchia”.

* * *

Il cinghiale era ormai proprio sotto la roccia. Baldini sparò. L’animale ebbe un sussulto. Saltò verso l’alto e si arrotolò su se’ stesso. Per effetto di questa dinamica, fece due capriole verso valle e rimase immobile. Il proiettile era penetrato nella parte superiore del collo, spezzando le vertebre cervicali. Il Baldini aprì l’otturatore, estrasse il bossolo ed inserì un’altra cartuccia. Raccolse da terra il primo bossolo e se lo mise in una tasca del giubbotto. Controllò di avere con se’ il suo coltello da caccia, e scese nella forra sottostante, scendendo a sinistra del punto in cui si trovava, tenendo il fucile puntato. Un cinghiale soltanto ferito poteva essere molto, molto pericoloso.
Quando lo raggiunse lo toccò con la punta dello stivale, tenendo il fucile puntato alla testa dell’animale, e si rese conto di aver colpito esattamente dove aveva mirato. Non si sarebbe mosso mai più. Mise la sicura al fucile e lo appoggiò a terra. Estrasse il suo coltello da caccia dal fodero nella cintura ed iniziò ad eviscerare l’animale. Era un esemplare notevole, ed era meglio togliere tutto il peso in eccesso per poterlo trasportare da solo fino all’auto. Metterselo a spalle era fuori discussione. Avrebbe dovuto trascinarlo.
Al termine dell’operazione, per la quale dovette togliersi il giubbotto per evitare di sporcarlo di sangue e feci, si riposò un attimo. Corvi e falchi avrebbero in breve ripulito la brughiera dalle interiora. Aveva impiegato quindici minuti in tutto, dal momento dello sparo. Adesso cominciava la parte faticosa del trasporto. Si mise il Mannlicher a tracolla ed iniziò a trascinare il cinghiale, tenendolo per le zampe. Faceva dei piccoli passi e procedeva con lentezza, riposando di tanto in tanto. C’erano venti metri circa per arrivare sul pianoro, ma gli ultimi otto metri doveva superare un dislivello di circa sei metri. Si fermò nuovamente quando giunse al punto in cui avrebbe dovuto iniziare la salita “vera”. Lì, in un varco fra le rocce, tra le felci e i rododendri, c’era una pista che puntava nel varco di rocce. Probabilmente la tana di quel cinghiale, visto che era diretto lì quando gli aveva sparato. Fu allora che lo vide.