Blog di Giovanni Chifelio





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Horacio Verbitzky

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Prefazione

Data creazione pagina: 23/07/2013 2:9

-PREFAZIONE -



         L'idea dominante, l'ossessione è sempre la stessa degli altri miei scritti. La cultura. Da dove viene, dove ci sta conducendo, come sfuggire alle insidie dei pericoli insiti in essa.
         Mentre scrivevo questa storia, sentivo le critiche degli amici e parenti che mi hanno usato la cortesia di leggere il manoscritto del mio lavoro precedente, concluso da poco, Il cinghiale, nel quale il maresciallo Melis ha visto la luce. «Sì, è avvincente,» mi dicevano «però, tutte quelle tirate, sulla medicina ufficiale, sul signoraggio, la massoneria, il controllo remoto dei computer, sono noiosi e interrompono, disturbano, distraggono, dal flusso della storia, delle vicende amorose del maresciallo». Il lettore vorrebbe la storia nuda e cruda, sapere come va a finire, magari senza inutili, noiose descrizioni paesaggistiche, ma era mia intenzione, usare la storia come pretesto, per raccontare quelle cose là. Probabilmente ho fallito l'intento iniziale, che era quello, come già ho spiegato nella prefazione del mio primo L'ingenuità perduta, di emulare i due libri di Robert Pirsig, tentando di fare un saggio romanzato, o un romanzo "saggiato", non so bene come definire quel "genere", posto che ne esista uno.
         Forse avrei dovuto dire quelle cose in cui credo, e che non hanno eco nei media ne' da nessuna parte, scrivendo semplicemente dei saggi. Con questo do per scontato che io debba scrivere a tutti i costi, mentre qualcuno potrebbe obiettare che farei meglio a darmi all'ippica.
         In quegli stessi giorni, in vacanza, andavo in un parco ad Oneglia, all'ombra di un giardino di gelsi, a leggere sulle panchine, le opere di Pirandello. Non voglio indossare i panni del critico, giudicare e paragonare l'immensa e felice opera sua ai miei ingenui tentativi di fare un mestiere diverso da quello con il quale mi guadagno da vivere. Però, a volte, nel dopopranzo, dopo alcune pagine, gli occhi tendevano a chiudersi ed io ad assopirmi, a fare pupi pupi, per usare una espressione rubata ad Andrea Camilleri, parte per mancanza di azione come per esempio in Uno, nessuno, centomila, parte per colpa del buon pesce degustato durante il pranzo. Abituati come siamo a leggere in vacanza libri di azione, come quelli di Stephen King, Ludlum, Crichton, Camilleri, Ken Follet, Piero Soria, mio conterraneo quest'ultimo, e, non ultimi, Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli, tutti scritti con un linguaggio immediato, talvolta nemmeno in italiano, come nel caso di Camilleri, il linguaggio arcaico, unito talvolta a elucubrazioni psicologiche, di uno degli indiscussi titani del novecento, potevano, in quei particolari momenti, sembrarmi...noiosi.
         Voglio ribadire ancora una volta, che la mia non vuole essere una critica all'opera di Pirandello, che non sono assolutamente in grado di fare, ma la constatazione di un particolare stato d'animo, del "lettore vacanziere", il cui intento primario, non è quello di istruirsi, ma di svagarsi, senza pensieri. Non di assorbire letteratura, ma di impegnare le tante ore morte delle giornate di vacanza, tra una nuotata e il ritmo immutabile dei pasti e degli incontri sociali.
         Forse, gli autori menzionati, lungi dal poter essere paragonati a Pirandello, con la sola eccezione del suo conterraneo Camilleri, potrebbero essere definiti scrittori per vacanzieri: divertono, avvincono, nel senso che non riesci a smettere di leggerli, e svagano senza annoiare. Una parentesi è d'obbligo secondo me per Camilleri, il quale, sembrerebbe dalla frase precedente, essere uno scrittore "serioso" nel senso che l'opera sua raggiunge, a volte le vette per me irraggiungibili della letteratura, salendo nell'olimpo dei grandi accanto a Pirandello stesso, ma divertendoci nello stesso tempo.
         Del resto, lo stesso King, autore di storie di successo e di azione, spesso inquadrato da critici e lettori poco attenti, come autore horror, non è immune dal voler insegnarci una morale di rispetto dell'altro, del diverso, del più debole, come nel meraviglioso Miglio verde, oppure come ne L'acchiappasogni, dove dei ragazzi comuni, si ergono a difesa di un povero ragazzo con handicap, maltrattato dai soliti bulli di scuola o di quartiere; questo ragazzo possiede un dono unico e meraviglioso, e lo trasmette a questi suoi nuovi amici. Anche nel peggiore di noi, forse c'è un dono fondamentale, prezioso per tutta l'umanità. Forse è questa convinzione di fondo a spingermi a tediare e fare danno con la parola scritta.

         Tornando allo spunto di questa prefazione, per dimostrare che non mi sono perso in elucubrazioni di giudizio letterario, viene da domandarsi quale sia il ruolo primario che lo scrittore deve porsi, quando si accinge all'opera sua, vale a dire, scrivere per comunicare qualcosa agli altri. Deve solo divertire? Anzi, di più, deve per forza divertire? Deve istruire, fare riflettere?
         Personalmente sono convinto che debba fare l'uno e l'altro. Raccontare storie inventate o storicamente fondate, solo per intrattenere l'eventuale lettore, mi sembra non abbia molto senso. Tentare di istruire, trasmettere il proprio pensiero, la propria visione del mondo ad un eventuale lettore, è faccenda che potrebbe sollevare scrupoli d'ordine morale: che diritto ho io, imbrattacarte per hobby, di spacciare la mia visione del mondo agli altri, come la migliore che esista?
         Per queste ragioni, i due mestieri di lettore e scrittore devono essere, per forza di cose, inseparabili. Da un lato, leggendo, mi lascio influenzare, stavo per scrivere "infinocchiare", dal pensiero degli altri; a mia volta, rifletto ed elaboro, stavo per scrivere "digerisco", il pensiero altrui, e lo trasformo in qualcosa di diverso, di mio, di unico. Continuare questa metafora metabolica potrebbe condurci a qualche prodotto finale estremamente disgustoso.
         Perché lo faccio? Certamente non per denaro, visto che finora non ho pubblicato ne' guadagnato nulla, ma perché lo sento quasi come un dovere.
         La prima domanda che la gente ti fa, solitamente è «da dove ti vengono le cose che scrivi?», e la risposta a questa domanda, di solito è un «non lo so», del tutto insoddisfacente, ma purtroppo è così. Forse esiste un mondo che potremmo chiamare "fantasilandia", un luogo quasi magico, dove gli scrittori o quelli che si presumono tali, talvolta si rifugiano per sfuggire alle brutture o semplicemente alla quotidianità della vita.
         In linea di massima, quando ti viene una idea, inizî a buttarla giù, e vai avanti; ma a questo punto possono succedere due cose: o procede velocemente, se l'idea era ben definita fin dall'inizio, oppure ti scappa di mano, e si ha l'impressione che a scriverla sia un altro, e tu, scrittore, sei il primo dei curiosi che vuole vedere come andrà a finire.
         Talvolta sono racconti di persone reali, che paiono degne di nota, che vengono buttate giù, per preservare una storia vera, toccante. In questi casi diventano racconti brevi, o piccoli racconti che diventano parte integrante della storia che si sta scrivendo.
         Mentre scrivevo questa cosa, ho avuto un parente come ospite, che mi ha raccontato una storia dei tempi dell'ultima guerra mondiale, toccante e "strana", rispetto alle altre storie sentite, per il fatto che chi la raccontava si commuoveva ricordando un episodio drammatico dell'infanzia, e, per il fatto che, in questa storia, Il soldato tedesco, non è uno dei soliti "cattivi" spietati, ma un ragazzo che ha voluto fare una scelta difficile, chissà per quali ragioni, per la quale ha bruciato la sua giovane vita. È diventato un breve racconto a se'. Un altro ospite mi ha dato lo spunto di un fatto che è finito in questa storia.
         Così procedono gli scrittori, almeno, così faccio io. Da tutto ciò dovrebbe nascere una avvertenza: se avete anche soltanto il dubbio che il vostro interlocutore scriva, state in campana. Esiste il reale "pericolo" di finire in un suo racconto o in un suo libro!
         Sicuramente si sente lo scrivere come una missione, un modo lento e insicuro, per tentare di cambiare un mondo che non piace, che piace sempre meno, così come è diventato; la lentezza del cambiamento auspicato e auspicabile, è dovuta al fatto che, a volte, le parole sono come semi portati dal vento o dagli uccelli, capaci di germogliare in territori lontani e inospitali, in modo imprevedibile. Oppure come l'onda del mare, che lentamente, ma inesorabilmente, scava e arrotonda gli spigoli delle rocce di arenaria, di questa impervia, come i suoi abitanti, riviera ligure, sgradita agli amanti di litorali sabbiosi. Scrittura come lavorio per il miglioramento della cultura umana.

         Piacevole la sorpresa di trovare, nel Fu Mattia Pascal, dei dialoghi in piemontese, del presunto cugino torinese di Adriano Meis. Ho molto cara la difesa dei dialetti, come difesa delle minuscole identità culturali di questo splendido paese, che è l'Italia in cui viviamo. Non a caso, ritengo che la vetta più alta a cui è assorto il compianto poeta cantautore Fabrizio De André, sia l'album Creuza de ma.

         Se nei due miei primi libri, la parte noiosa, quella che tenta di infilare nel racconto una qualche Weltanschauung, era indistinguibile dal resto della storia, in questo, la parte forse noiosa rimane, quasi tutta, confinata, nel racconto, di quegli spiriti o extraterrestri, lascio al lettore la scelta, che si stanno preparando, studiando una qualche storia dell'universo, per venire in missione sulla terra a tentare di portare la Conoscenza originaria. Nel racconto che lo scrittore dilettante, sente di dover scrivere, nonostante, le disavventure che gli piovono sul capo. Chi volesse rimanere immune dal tedio, potrà saltare a piè pari questa parte. Peccato però! Era quello il messaggio. Comunque, per essere ancora più chiari, ho detto "quasi tutta, confinata" lì. Lettore avvertito...


        None, giugno 2007 - San Bartolomeo al mare, 27 ottobre 2007


Articolo n.56: ritorno.php
Sito: chifelio
Tema: 11 - Promozione lavori
Data: 2007-10-31

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